«La conoscenza è sempre un avvenimento»
Carmine Di Martino
1.1. I termini del problema
Quale urgenza ha per noi (noi che siamo qui, inclusi tutti coloro che non hanno un interesse alla filosofia) il tema della conoscenza?
La conoscenza non è un’attività fra le altre del soggetto umano, ma la forma stessa del suo rapporto con la realtà. «Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» , diceva Dante. Spesso serpeggia una concezione grottesca ed astratta della conoscenza che ne fa un’attività professionale separata o addirittura contraria alla vitalità e al vigore della vita, che si può eventualmente affiancare o sommare all’esperienza, ma non è necessaria. Si tratta di un equivoco.
Senza conoscenza non vi è nemmeno esperienza: «La persona è innanzitutto consapevolezza. Perciò quello che caratterizza l’esperienza non è tanto il fare, lo stabilire rapporti con la realtà come fatto meccanico (…) Ciò che caratterizza l’esperienza è il capire una cosa, lo scoprirne il senso. L’esperienza quindi implica intelligenza delle cose» . Conoscenza, giudizio, comprensione del significato non sono un’aggiunta all’esperienza, ne sono un sinonimo perfetto. Affermare un’opposizione fra conoscenza ed esperienza significa dunque ridurre la prima ad un esercizio intellettualistico e la seconda ad una sommatoria di momenti, di sensazioni, di impatti, di emozioni che qualcun altro (un intelletto individuale o collettivo) provvederà poi a rivestire di un senso. È un altro nome dell’alienazione, della schiavitù più diffusa: quando ci si affida ai sentimenti, alle emozioni, agli stati d’animo ci si consegna in verità non a se stessi, bensì a chi governa – in vece nostra – reazioni e opinioni.
Possiamo vivere senza tante cose, ma non possiamo vivere senza significato, senza verità, cioè senza conoscere, perché la conoscenza è il rapporto col significato. A dispetto di tutte le perplessità dell’uomo contemporaneo – pur cariche di tutta una storia –, l’esistenza umana si attesta come esigenza imperiosa della verità e del senso. È la vita che documenta l’inaggirabilità delle parole di Agostino: «Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?» . «Che cosa infatti desidera l’uomo più potentemente della verità?». Rinunciare alla verità, alla ricerca e alla conoscenza del significato delle cose e dell’esistenza, è rinunciare alla propria umanità. Ma in definitiva l’esperienza dell’uomo non se ne può separare: essa non è nichilista né scettica, anche se la filosofia lo può essere.
La conoscenza è drammatica. La ragione è infatti chiamata a cogliere ciò che si dà, per esempio questa realtà esistente e determinata, così come essa si dà ed esige di essere colta. E questo non è mai garantito, può sempre non avvenire. Quando e a quali condizioni il rapporto fra realtà e ragione si compie? Quali ne sono i presupposti? La conoscenza è un vivo gioco di forze, un concreto evento o incontro, in cui nulla di ciò che vi si svolge è paragonabile ad un dispositivo meccanico. Anche il semplice vedere o sentire implica un prendere posizione, un «sì» o un «no» detti all’essere, un’apertura, una decisione normalmente tacita. E, come recita il detto popolare, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere o peggior sordo di chi non vuol sentire. Conoscenza e libertà sono fin dall’inizio intrecciate.
La libertà – scrive Giussani – non si dimostra tanto nella clamorosità delle scelte; la libertà si gioca nel primo sottilissimo crepuscolo dell’impatto della coscienza col mondo. Ed ecco l’alternativa in cui l’uomo quasi insensibilmente si gioca: o tu vai di fronte alla realtà spalancato, con gli occhi sgranati di un bambino, lealmente, dicendo pane al pane e vino al vino, e allora abbracci tutta la sua presenza ospitandone anche il senso; o ti metti di fronte alla realtà difendendoti, quasi con il gomito davanti al viso, per evitare colpi sgraditi o inattesi, chiamando la realtà al tribunale del tuo parere, e allora nella realtà cerchi e ammetti solo ciò che ti è consono, sei potenzialmente pieno di obiezione ad essa, troppo scaltrito per accettarne le evidenze e i suggerimenti più gratuiti e sorprendenti .
Dai suoi inizi la filosofia ha riflettuto sulla conoscenza. Poiché questa si propone come quel vivo incontro in cui si tratta di «lasciarsi rivolgere la parola dai fenomeni» , di «essere-aperti per ciò che si dà da sé» , come dice Heidegger riferendosi ai Greci, è già chiaro dove si annidi tutta la sua profondità e anche la sua difficoltà: in questo incontro in cui si compie l’auto-manifestazione dei fenomeni è implicata una correlazione, una corrispondenza, un libero gioco tra i modi di darsi delle cose e i modi dell’essere-aperti, del lasciar-vedere ciò che si dà. Perché vi sia conoscenza, all’evidente differenza nei modi di datità delle diverse realtà deve corrispondere una differenza nei modi di rivolgersi ad esse (in altri termini, nella conoscenza «il metodo è imposto dall’oggetto» ). Lo sappiamo tutti: conoscere non significa la stessa cosa se si tratta di un procedimento matematico, dell’origine del cosmo, della crescita di una pianta, di un evento storico, del comportamento molesto del nostro collega, ecc. Alla filosofia greca non era sfuggita questa differenziazione; è stata essa ad operarne infatti quella classificazione che noi abbiamo ereditato e abbiamo mantenuto almeno fino a un certo momento così come ci era stata consegnata. Nella determinazione dei diversi stili di evidenza, delle difformi implicazioni di disposizioni e atteggiamenti umani, della diversa incidenza di volontà e interesse, una cosa restava ferma: si trattava sempre della conoscenza, la ragione abbracciava cioè tutti i fenomeni, senza esclusioni e senza veti. La conoscenza dei «principi primi» come quella della «migliore organizzazione della città» appartenevano a pieno titolo, insieme alle conoscenze geometriche e logiche, all’ambito della ragione, sebbene con gradi diversi, in un ordine gerarchico, che, mentre ordinava e distingueva, allo stesso tempo includeva.
Ora, l’affermazione «la conoscenza è sempre un avvenimento», caratteristica del pensiero di Luigi Giussani, ricavata da un suo testo e proposta come titolo della trentesima edizione del Meeting di Rimini, è l’indice di una concezione che entra nel vivo dei problemi accennati: la natura, le condizioni, i fattori, il significato della conoscenza. La frase – frequentemente utilizzata e mostrata in tutti i suoi risvolti da Julián Carrón – rappresenta niente meno che il rovesciamento di ciò che noi siamo soliti chiamare «modernità»; un rovesciamento che è però al tempo stesso un inveramento della sua istanza ultima, come vedremo: in essa si giocano quindi sia il rapporto critico con un’eredità culturale, con le sue ramificazioni e influenze, sia i termini di una diversa concezione della conoscenza e dell’esistenza.
La modernità nasce interamente sotto il segno del «problema» della conoscenza. L’impostazione e lo sviluppo moderni di esso dominano in maniera così profonda e pervasiva, al di là delle singole inclinazioni e competenze, il modo con cui percepiamo noi stessi e affrontiamo la vita di tutti i giorni, che nessuno può semplicemente considerarsi estraneo alla discussione delle sue caratteristiche e dei suoi limiti, delle sue conseguenze e delle sue eventuali alternative, pena il subirne in modo più scoperto e irriflesso l’influsso.
Descartes è universalmente considerato il padre della modernità. Che cosa è successo con e attraverso di lui? È accaduto che il soggetto è diventato la condizione della conoscenza; e il reale, corrispondentemente, è diventato il correlato di un atto di rappresentazione dell’uomo (un «oggetto», ob-jectum, ossia ciò che sta di contro). Con Descartes, che raccoglie un cammino che si è fatto prima di lui, la coscienza diviene la chiave del diventar fenomeno dei fenomeni, come mostra bene Heidegger .
Il suo progetto fu quello di una rifondazione del sapere (filosofico in primo luogo, in vista di quello scientifico, che veramente gli interessava). Si trattava – egli scrive – «di cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo e durevole nelle scienze» , e a questo scopo occorreva trovare «qualcosa di veramente indubitabile» come punto di partenza dell’edificio della conoscenza. Per ottenerlo egli usa il metodo critico-negativo dello scetticismo, ma per lo scopo opposto: vale a dire, non per distruggere, bensì per fondare una conoscenza assolutamente giustificata. Egli estende quindi il «dubbio» alla verità e realtà di tutto ciò che solitamente gli uomini ritengono vero e reale nella vita quotidiana. Che cosa resiste ad un simile dubbio? È presto detto: la mente, il pensiero, la res cogitans. Proprio nel momento in cui estendo il dubbio a tutto ciò che esiste, oltre che a tutte le conoscenze di cui dispongo, mi ritrovo in mano qualcosa di veramente indubitabile: il mio dubitare stesso, come modalità del mio pensiero, che attesta il mio essere: «Se penso, allora esisto».
Il cogito, e l’essere del cogito: ecco il punto fermo, incrollabile, della conoscenza, da cui è possibile ricostruire tutto l’edificio del sapere. Così pensa Descartes. A partire dal «cogito» egli si propone di risalire in direzione di tutte le altre esistenze e di tutte le verità. Ma – qui sta il punto – in questa teoria cartesiana della conoscenza la certezza e la verità si appoggiano ormai interamente sui poteri conoscitivi del soggetto: la mente è certa dell’oggetto in quanto è certa di sé, l’essere delle cose è tale in rapporto alla certezza che ne ha il soggetto. Andando alle conseguenze estreme, a partire da ciò che è accaduto dopo Descartes e per suo tramite, possiamo dire: l’essere delle cose è assicurato dalla loro rappresentazione intellettuale e di questa solo ci deve dunque importare.
Tuttavia, nel momento in cui la conoscenza assume il senso di una rappresentazione mentale, prendono avvio anche tutti i problemi che l’epoca moderna, fino a noi, si troverà ad affrontare. Se la mente – che è ciò che resiste al dubbio e funge dunque da supposta base certa di ogni conoscenza – si rappresenta il mondo, la questione che innanzitutto si pone, se si vuole fondare una conoscenza «oggettiva», è quella del passaggio dal “dentro” della mente (in cui si trovano depositate le nostre immagini o rappresentazioni del mondo) al “fuori” del mondo, dai «vissuti soggettivi» alle «cose» che li trascendono, dalle «idee chiare e distinte» nella nostra mente alla realtà esterna a noi. Come, a quali condizioni posso dire di conoscere con certezza il mondo che è “fuori” di me? Sappiamo che Descartes risolverà il problema appellandosi a Dio, il quale, per mantenersi fedele a se stesso, non può volerci ingannare. Ma tale problema costituirà un filo rosso di tutta la riflessione filosofica fino ai giorni nostri.
Non c’interessa ora seguire il percorso di Descartes, bensì renderci conto dell’impostazione moderna del problema della conoscenza, che ci segue come un’ombra. In alcune correnti filosofiche in voga oggi, come il costruttivismo o il cognitivismo, in una certa impostazione delle neuroscienze, al di là di tutti i meriti pratici di queste discipline, possiamo ravvisare con chiarezza la traccia di un profondo cartesianesimo; semplificando drasticamente: con Descartes, il mondo diviene il «costituito» del pensiero, il pensiero diviene il «costituente» del mondo.
Che cosa ci dice a questo proposito l’affermazione «la conoscenza è sempre un avvenimento»? Essa allude ad un superamento della modernità che ne abbraccia tuttavia profondamente l’istanza. Vediamo perché.
1.2. “I tre professori”. La conoscenza come incontro
Nei primi capitoli di una sua famosa opera, Il senso religioso, dedicati al problema della conoscenza, Giussani si sofferma sul tema che stiamo affrontando. Si serve di un esempio. In una classe di liceo si susseguono tre professori di filosofia, costretti dalla “febbre suina” del momento ad avvicendarsi. Essi si cimentano con problemi di teoria della conoscenza, come noi: si tratta rispettivamente di un idealista, di uno scettico-problematicista e di un realista. L’oggetto-cavia, di cui viene saggiata la realtà, è un notes.
Il primo, l’idealista, sostiene: «Tutti noi abbiamo l’evidenza che questo notes sia un oggetto fuori di noi (…) Supponete però che io non conosca quest’oggetto: sarebbe come se esso non esistesse. Vedete allora che ciò che crea l’oggetto è la nostra conoscenza» . Lo scettico si ripropone nelle sue classiche vesti sospensive e negazioniste: «Tutti noi siamo d’accordo che la prima evidenza è che questo sia un oggetto fuori di noi. E se non lo fosse? Dimostratemi che c’è, come oggetto fuori di noi, in modo incontrovertibile» . La terza posizione, quella del realista, ci riserverà qualche sorpresa: «Tutti abbiamo l’impressione che questo sia un oggetto fuori di noi: è una evidenza prima, originale. Ma se io non lo conosco? È come se non esistesse. Vedete dunque che la conoscenza è un incontro tra un’energia umana e una presenza, è un avvenimento in cui si assimila l’energia dell’umana coscienza con l’oggetto» . Notiamo che il rapporto tra realtà e conoscenza è colto nello stesso modo dall’idealista e dal realista delineato da Giussani; diversa è però la conseguenza cui giungono. Entrambi osservano: «Se non lo conosco, è come se non esistesse», ma il primo traduce il «come se» nel carattere «costituente», produttivo, della conoscenza, mentre il secondo conclude per la necessità dell’incontro tra l’energia della coscienza e la cosa ai fini della rivelazione di quest’ultima, della sua «realtà». Vale a dire, per il realista giussaniano la conoscenza è un incontro necessario affinché la realtà del notes si attesti e in cui vengono mantenuti i due poli della relazione senza sacrificio dell’uno o dell’altro.
La conoscenza, qui, è dunque l’avvenimento di una comunione, di una relazione viva, di un’unità tra un’energia umana e la presenza della cosa. «Come si produce tale unità? È domanda affascinante di fronte alla quale abbiamo potere fino ad un certo punto». Giussani non entra nella discussione, poiché il suo scopo è portare l’attenzione sui termini della relazione: «È certo però che la conoscenza è composta di due fattori» .
Nel termine «incontro» vi è la precisa attenzione a non ridurre un polo all’altro, in nome di una fedeltà all’esperienza. Merleau-Ponty, consapevole da buon francese – erede di Descartes – del peso filosofico di un appello all’«indubitabile», in un abbozzo dedicato al problema dell’origine della conoscenza e della verità, scriveva che «l’assunto di attenersi all’esperienza di ciò che è, al senso originario o fondamentale o inaugurale, non presuppone altro che un incontro fra “noi” e “ciò che è” (…) L’incontro è indubitabile» . Realista, per Giussani, è chi non sopprime (o riduce) nessuna delle due componenti della conoscenza. è la stessa direzione in cui si muove Merleau-Ponty quando definisce il reale, la cosa, come un «in-sé-per-noi». «Non si può concepire – egli scrive – una cosa percepita senza qualcuno che la percepisca. Ma è altresì vero che la cosa si presenta, a colui stesso che la percepisce, come cosa in sé e che essa pone il problema di un autentico in-sé-per-noi» . Il realismo, dunque, sta al di là dell’opposizione tra una prospettiva idealistica e una prospettiva realistica nel senso tradizionale del termine. Per l’idealismo, nulla esiste se non come oggetto per la coscienza e conoscere significa sempre costruire, «costituire» l’oggetto; per un realismo ingenuo, la cosa non ha alcun bisogno di un soggetto per manifestarsi nel suo essere o senso d’essere, essa fa tutto da sé.
La filosofia moderna (con Descartes e soprattutto con Kant) ha legittimamente messo in luce l’intreccio di operazioni soggettive che sono implicate nella manifestazione determinata delle cose: «dato» significa sempre «dato-a» qualcuno, e ogni fenomeno è fenomeno per qualcuno, per un «soggetto» necessariamente coinvolto nel suo apparire, ma ha trasformato tale dimensione dativa in una dimensione «costituente», produttiva e legislatrice, mettendo capo alla tesi secondo cui il soggetto precede di diritto l’oggetto, gode di un’evidenza ad esso superiore e condiziona da cima a fondo l’apparire di quest’ultimo.
Giussani riserva dal canto suo una continua attenzione a questa dimensione, mostrando con ciò un’estrema sensibilità per l’istanza moderna del soggetto e una notevole distanza da un realismo pre-critico, dogmatico. Questa attenzione si esprime nel suo concetto di «esperienza», che rappresenta la vera e propria cifra del suo realismo. La dimensione adeguata per fondare un realismo non ingenuo, per pensare la realtà e il darsi delle cose, per far questione della conoscenza, è quella dell’esperienza o, come anche diceva la citazione proposta, quella dell’incontro. Quando, nel 1996, si trova a rispondere ad un interrogativo concernente la peculiarità della sua posizione filosofica, egli afferma significativamente che il perno attorno a cui essa ruota è identificabile nella seguente formula: «La realtà si rende evidente nell’esperienza» . Principio capitale, in cui si sancisce che, in qualsivoglia indagine, partire dalla realtà è sempre partire dall’esperienza, in analogia con la prospettiva praticata dalla fenomenologia prima husserliana e poi heideggeriana.
«L’esperienza – egli osserva – è la parola cardine di tutto (....): chiunque non parta dall’esperienza inganna, vuole ingannare se stesso e gli altri; l’uomo non può partire che dall’esperienza, che è il luogo dove la realtà emerge in determinata guisa, in determinato volto, secondo un determinato aspetto, secondo una sua determinata flessione» . Se dico per esempio: «La realtà è indipendente dall’esperienza che io ne ho o ne posso avere», devo aggiungere: «Essa mi si rivela come tale, cioè come indipendente nel senso detto, attraverso una esperienza». Conosco la realtà come irriducibile al mio pensiero attraverso un’esperienza; ogni realtà – nel senso più lato, tale da includere anche le oggettualità ideali della matematica – si offre e può offrirsi, si rivela e può rivelarsi, nel suo essere e senso d’essere, solo in un’esperienza.
Un «realismo» effettivamente radicale deve ottenere la sua legittimazione a partire dall’esperienza, vale a dire non può costruirsi sulla negazione della dimensione «soggettiva» della rivelazione della realtà. Il compito di un’impostazione fenomenologica sarà allora proprio quello di chiarificare, attraverso una considerazione e un’analisi dell’esperienza, il delinearsi del reale nella sua consistenza e nel suo senso, quello di esibire l’irriducibilità del suo evento, di mostrare in che senso e a quale livello il mondo generi il proprio riconoscimento e quindi l’avvenimento del reale non possa essere metabolizzato dal soggetto, sciolto, per così dire, nell’acido di una soggettività «costruttiva».
Giussani rivendica in ogni piega della sua opera una partenza dall’esperienza come «sorgente di conoscenza» . Scrive: «Come si fa a conoscere la verità, come si fa a conoscere la realtà? Come fa uno scienziato a conoscere una stella lontana che gli antichi non avrebbero potuto registrare? Soltanto i telescopi moderni possono renderla così vicina che lo scienziato la legge: deve dunque portarla più vicina. Che cosa vuol dire portare più vicino questa stella lontanissima che per gli antichi, più gravi osservatori sarebbe stata come un non-esistenza? Come fanno a renderla esistente, a parlarne come se fosse presente? Come fanno a rendersi presente una lontananza? Se essa, questa lontananza, entra nell’esperienza» . Se è vero, come diceva Aristotele, che «anche se nessuno le vedesse, non per questo le stelle brillerebbero meno», è d’altra parte vero che per conoscere quelle stelle, per parlarne, occorre che esse emergano in una esperienza. «La realtà – afferma ancora Giussani – si rende nota venendo a galla in questo specchio dell’esperienza, così che, disegnandosi sullo specchio, uno la conosce» . Per mostrare la radicalità di tale principio fenomenologico, Giussani aggiunge: «Non puoi dire “Signore, Dio del cielo e della terra”, senza partire da un’esperienza» ; e incalza: «È realtà, se entra nell’esperienza» . Proposizione forte, impegnativa e illuminante. Nemmeno Dio vi sfugge.
Come dobbiamo intenderla? Se l’esperienza è «il rendersi evidente della realtà» e ciò che non vi entra è come una non-esistenza, una non-realtà, e quindi non può essere conosciuto, quali sono i confini dell’esperienza e soprattutto che cosa o chi li stabilisce? La questione è della massima importanza.
1.3. Due diversi concetti di esperienza
La modernità è contrassegnata infatti dal delinearsi di un certo concetto di esperienza che trova in Kant la sua più compiuta espressione. Andiamo subito al sodo con due note proposizioni della Critica della ragion pura : «L’esperienza è il primo prodotto (Produkt) che il nostro intelletto fornisce, quando esso elabora la materia grezza delle sensazioni empiriche» (A 1). «L’intelletto è l’autore (Urherber) dell’esperienza» (B 127). Tali proposizioni suonano esorbitanti alle nostre orecchie, ma esse non fanno che condensare una concezione di esperienza e di conoscenza, che, in linea di continuità con quella cartesiana, è culturalmente dominante, rappresenta il tessuto stesso dei nostri abiti comuni.
Cerchiamo di capire in breve. Anche per Kant noi possiamo conoscere solo ciò di cui facciamo esperienza, ma – ecco la differenza – noi possiamo fare esperienza solo di ciò che si conforma preventivamente al nostro potere di conoscere, cioè alla nostra sensibilità e al nostro intelletto. Che cosa possiamo conoscere? Di che cosa si può avere esperienza? Solo di «oggetti», vale a dire di ciò che si sottomette all’intuizione empirica e che si «offre» quindi alle categorie del nostro intelletto per essere pensato. «Ci sono due condizioni, senza le quali la conoscenza di un oggetto non è possibile: innanzitutto l’intuizione, attraverso la quale un oggetto è dato, ma solo come fenomeno (nur als Erscheinung, gegeben wird); secondariamente, il concetto attraverso cui un oggetto è pensato, come corrispondente a questa intuizione» (A 92/B 125). L’intuizione e il concetto determinano così anticipatamente le possibilità di apparizione di tutti i «fenomeni», ossia degli «oggetti per noi» (di contro alle «cose in sé», ai «noumeni», che restano inaccessibili). Ma intuizione e concetto rimandano a leggi e strutture antecedenti l’esperienza, indipendenti da essa, che appartengono cioè alla costituzione della soggettività: sono le forme a priori della sensibilità (il tempo, forma del senso interno; lo spazio, forma del senso esterno) e le categorie o i concetti puri dell’intelletto. Tali forme e limiti del potere conoscitivo dell’uomo fissano dunque a priori le condizioni della nostra esperienza. È questo il senso della nota affermazione: «Le condizioni della possibilità dell’esperienza in generale sono al tempo stesso condizioni della possibilità degli oggetti dell’esperienza, e possiedono quindi validità oggettiva in un giudizio sintetico a priori» (B 197).
È l’io – la mente, diceva Descartes – la condizione di possibilità dell’esperienza, in quanto esso, la sua struttura conoscitiva, determina i «dati» di questa stessa esperienza, costituendoli come «oggetti», vale a dire come gli esatti correlati delle condizioni a priori della conoscenza. Se il soggetto è l’istanza costituente ultima, niente può accadergli che egli non abbia già costituito in anticipo. Avviene un capovolgimento: l’orizzonte dell’esperienza non si conforma più a partire da ciò che ci è dato, ma – precisamente al contrario – è la nostra mente che condiziona a priori ciò di cui si può fare esperienza e ciò di cui l’esperienza ci è irrimediabilmente negata (lo mostra puntualmente C. Esposito in un suo saggio). Si potrebbe obbiettare che, in Kant, almeno un punto sembra sfuggire a tutto ciò: la sensazione in quanto materia della percezione, poiché la sensazione non può mai essere anticipata dal soggetto. Se da una parte questo indica un punto di dipendenza, che sembra aprire una breccia nel cerchio chiuso dell’esperienza kantianamente intesa, dall’altra Kant si affretta ad avanzare e convalidare l’ipotesi che «in ogni sensazione si trovi qualcosa che si possa conoscere a priori, come sensazione in generale (senza che si dia una sensazione particolare)» (B 209): anche la «passività» ha dunque le sue regole a priori e come tale non sfugge al controllo dell’io.
Ora, procedendo senza pretendere troppo, possiamo dire che l’esperienza in senso kantiano è uno spazio chiuso, predefinito, le cui mura sono erette dalla sensibilità e dall’intelletto: non è concesso il diritto di apparizione se non a quei fenomeni che si accordano con le condizioni a priori della conoscenza, cioè agli «oggetti» da esse stesse prefigurati e prodotti. Nella nostra esperienza, in definitiva, ha cittadinanza solo ciò che ha lo statuto e il modo di darsi dell’«oggetto» e può essere conosciuto secondo il principio di causalità. Non solo Dio – ovviamente –, ma tante altre «datità», tanti altri «fenomeni», soprattutto i più dotati di senso per l’esistenza e i più potenti, non hanno dunque diritto d’accesso all’esperienza, non possono «entrarvi». Dove si situi il problema lo abbiamo accennato: le condizioni dell’esperienza vengono articolate sul potere di conoscere, o meglio, su un certo potere di conoscere, concepito sul modello meccanicistico della scienza della natura (si è spesso sottolineato il tentativo kantiano di rendere inattaccabile la fisica newtoniana, con le sue leggi), non sul potere del fenomeno (della realtà) di apparire, vale a dire sull’ampiezza e sulla sovrabbondanza del «dato», della «datità», della «donazione» , come dicono significativamente i francesi (sfruttando la duplicità di senso della parola: donazione come dato, come risultato, e donazione come processo del «dare», «donare»). Non è l’esperienza a prendere continuamente le sue misure dalla datità; viceversa, è la datità a dover rientrare nelle misure preventivamente stabilite dal soggetto come condizione della conoscenza, cioè come autore e legislatore dell’esperienza. Kant compie Descartes.
Dunque, «la realtà si rende evidente nell’esperienza» dice l’esatto opposto del concetto kantiano di esperienza, dice cioè che l’esperienza è il luogo di rivelazione della realtà, ma come una «città senza mura», senza altre mura se non quelle fissate dal dato, dal fenomeno, non più inteso in senso kantiano, ma in senso greco: fenomeno è la cosa stessa che si manifesta, è ciò che si rende presente in tutte le sue diverse maniere. «Nella nostra esperienza – scrive Giussani – la realtà si evidenzia: non “si forma”, non “si fa”, non “si costruisce”, ma “si evidenzia”, si rende evidente; si rende evidente una cosa che già c’è» . Questa concezione di esperienza assume la donazione (il darsi e il manifestarsi del fenomeno) come sorgente assoluta e insindacabile di diritto, senza predeterminarne le possibilità e il senso; non prescrive cioè limiti di sorta a ciò che «può» darsi, offrirsi, mostrarsi, entrare in essa (qui la «categoria della possibilità» viene affermata come «dimensione suprema della ragione» ). È la donazione – l’accadere stesso della realtà, il suo apparire – che fissa i confini, che regola e plasma quel campo di manifestazione che chiamiamo esperienza. Quest’ultima si annuncia perciò come un ambito mobile e aperto di rivelazione e di incontro, non una prigione costruita sulle misure di un certo potere conoscitivo e assicurativo del soggetto, cartesiano o kantiano che sia. Ciò, lungi dal far scomparire il ruolo del soggetto, lo ridefinisce e lo valorizza al massimo grado: «L’io è l’autocoscienza del cosmo», ma il soggetto, la ragione, non è la sorgente e la norma della manifestazione, bensì il testimone, la soglia rivelativa, lo schermo di tutto ciò che si mostra, di tutto ciò che si dà.
2. Senza avvenimento non c’è conoscenza. Primo significato del titolo.
2.1. Il primato dell’avvenimento
Dunque, affermare l’esperienza come la fonte di tutte le conoscenze, stabilendo con ciò l’unica partenza adeguata di un cammino sano e inattaccabile della ragione, significa al contempo sottrarre l’esperienza stessa ad una duplice riduzione: quella cartesiano-kantiana (e di tutte le forme di trascendentalismo o idealismo), che delimita l’orizzonte dell’esperienza in base ai (presunti e selezionati) poteri di un «Io» concepito come autore, produttore, dell’esperienza stessa; e quella empiristica, che, col pretesto di ritornare all’origine, immagina l’esperienza come una somma di sensazioni elementari, puntuali, cieche, ovverosia prive di senso, che una qualche facoltà dell’intelletto o della psiche provvederebbe poi a ordinare e a dotare di un senso (tra parentesi, anche Kant eredita questa immagine empiristica della esperienza).
Riguadagnare un concetto originario di esperienza, al di qua della limitazione kantiana e dello svuotamento empiristico significa ridefinire il fenomeno e i confini della fenomenalità. Occorre cioè ridare la parola al fenomeno, al dato, riconoscere che il diritto della realtà a manifestarsi non può essere “castigato” da nulla; il darsi, l’irrompere, il sopravvenire del dato, del fenomeno, non accetta limiti né subordinazioni, non chiede permessi e non si lascia rimpiazzare. Intendere l’esperienza come «il rendersi evidente della realtà» implica dunque ristabilire la precedenza della donazione, restituire il primato all’avvenimento.
All’origine della conoscenza e dell’esperienza si trova questo improducibile e insostituibile darsi del fenomeno. È questo che la teoria della conoscenza moderna ha cercato di neutralizzare, di rimuovere, rovesciando i termini della dipendenza, togliendo all’apparire il suo rango di avvenimento e subordinando la datità alle forme e ai limiti della conoscenza, di un determinato modello di conoscenza. In una direzione opposta si sono mossi alcuni notevoli tentativi in campo filosofico, che hanno segnato la storia recente: pensiamo qui a un certo Husserl, e soprattutto a Heidegger, a Merleau-Ponty, a Derrida, a Marion.
Fissiamo il punto, che è il primo senso del titolo: «la conoscenza è sempre un avvenimento» indica nell’avvenimento il momento generativo, la dimensione permanentemente inaugurale, principiale, della conoscenza. La genesi della conoscenza è una provocazione, un’irruzione, un appello, una chiamata, ossia è la realtà come avvenimento. In tal senso, quando diciamo che la conoscenza è sempre un incontro tra due fattori, due forze, dobbiamo aggiungere che la coppia, dal punto di vista «genetico», è ontologicamente sbilanciata: vi è una precedenza dell’irruzione, della provocazione, dell’urto. La condizione d’insorgenza della conoscenza è «qualcosa che viene prima» dell’intuizione, della percezione, dell’apprensione, comunque la intendiamo – viene prima di essa in quanto la suscita –: è l’accadere, il sorgere del fenomeno, l’irruzione nella presenza della realtà come continua novità. Occorre anzitutto che il fenomeno sorga, emerga, avvenga; non posso farlo apparire, se esso non mi si dà, non mi si mostra, non mi raggiunge e non mi si impone.
Questo i Greci lo sapevano bene: il logos è un lasciar-vedere ciò che si mostra da sé, il phainomenon. L’aletheia – il disvelarsi delle cose – si rende visibile, si compie, nel e attraverso il logos. Ma, senza l’automanifestazione del fenomeno, l’autorivelazione dell’ente, il logos non potrebbe essere se stesso, non potrebbe «lasciar-vedere» nulla. Vi è un ritardo di principio (non in senso meramente temporale) tra conoscenza e avvenimento. L’atto di conoscenza non si autogenera, è strutturalmente eteronomo, ha sempre bisogno di un sopravvenire nella presenza di ciò che si dà, è sempre una risposta ad un’iniziativa che lo precede. Tra conoscenza e donazione vi è una asimmetria, un disallineamento: vi è la dipendenza della prima dalla seconda. Perciò Marion afferma: «La donazione determina sempre la conoscenza e non l’inverso» .
La dinamica dell’avvenimento – scrive Giussani – denota la modalità della conoscenza in ogni suo nuovo passo. Senza “avvenimento” non si conosce nulla di nuovo, cioè nessun nuovo elemento entra nella nostra consapevolezza (…) Conoscere è trovarsi di fronte a un nuovo, a qualcosa di non costruito da sé, qualcosa che rompe gli ingranaggi delle cose già stabilite, delle definizioni già date (…) L’avvenimento è dunque capitale in ogni “scoperta”, per ogni tipo di conoscenza.
2.2. Avvenimento, evento, dato
«“Avvenimento” è, però, la parola più difficilmente capita e accettata dalla mentalità moderna e perciò anche da ciascuno di noi» . Non ci è difficile capirlo, dopo quanto abbiamo detto.
Avvenimento, evento. La parola percorre con alterna fortuna la storia della filosofia e non solo: prevalentemente estromessa, temuta, a volte addomesticata in un’assimilazione alla significazione più piatta e innocua del termine «fatto», a volte sospettata d’essere refrattaria all’universalità del logos, trova in Aristotele una autorevole attenzione (nel concetto di tùkhe distinto da quello di automaton) per poi essere più frequentemente abbandonata che ripresa. In epoca recente essa viene riportata al centro della riflessione filosofica da Heidegger, in un senso che tuttavia si distanzia notevolmente o, per meglio dire, si oppone a quello qui messo in campo. L’evento heideggeriano infatti non accade mai, si tiene in riserva, si sottrae, non è mai questo avvenimento, o un altro, che entra e sconvolge, rompe gli ingranaggi delle cose già stabilite, produce effetti.
Che cos’è un avvenimento? Esso, osserva Giussani, è «qualcosa di non previsto, di non prevedibile, di non deducibile dall’analisi degli antecedenti» , di «non dominabile dalla nostra misura, che supera e spacca tutte le nostre misure» , è il «senza precedenti», «non conseguenza di fattori antecedenti» , che disattende e sospende ogni aspettativa.
Imprevisto, imprevedibile, inappropriabile, inanticipabile, indeducibile, l’evento segna il punto di rottura di ogni idealismo: esso è in eccesso nei confronti di ogni ragione speculativa o pratica, di qualsivoglia precomprensione, precognizione, previsione, sia essa intesa in senso fenomenologico o ermeneutico, è irriducibile a «condizioni di possibilità» legate a una soggettività costituente, è quindi oltre il possibile nel senso del prevedibile, programmabile, anticipabile, «ha in sé un punto di fuga, mantiene il riferimento a un’incognita» .
«L’avvenimento – prosegue ancora Giussani – è per sua natura una novità. Nell’avvenimento qualcosa di nuovo entra nella nostra vita: non previsto, non definito prima, non voluto da noi come termine di un disegno da realizzare, sempre “smarginato” nell’imprevedibile prima di accadere, quanto preciso, visibile, concreto, tangibile, abbracciabile di fatto, quando avviene» . L’avvenimento passa direttamente dalla impossibilità al fatto compiuto, senza sottomettersi al regime delle condizioni di possibilità; esso irrompe nella sua alterità, ed è una irruzione che produce effetti, che sconvolge, rivoluziona, riscrive l’orizzonte di senso ad esso anteriore e porta con sé la dimensione della propria intelligibilità. Serviamoci di tre esempi.
Prendiamo anzitutto un evento storico, la prima guerra mondiale. Il suo «scoppio» non rappresenta il culmine previsto e prevedibile di una maturazione, la conseguenza ovvia di una concatenazione di cause: esso è un avvenimento. Anzitutto perché le «cause» si rivelano come tali solo «dopo» di esso, non «prima», e in secondo luogo perché ciò che lo caratterizza è precisamente lo scarto, l’eccesso, rispetto alla somma dei fattori antecedenti, anche concesso che essi siano tutti analizzabili e disponibili: per quanto si ricostruisca l’intreccio delle «cause» indefinitamente convergenti, lo «scoppio» si situa al di là di esse: esso è accaduto per sé, da sé; gli antecedenti non lo spiegano, lo seguono. Ogni riconduzione a cause analizzabili, a condizioni di possibilità, non produce lo scoppio, ne evidenzia al contrario l’inanticipabilità: il suo prodursi resta incommensurabile alle cause, indeducibile.
Secondo esempio. «Immaginiamo – scrive Giussani – una situazione comune: due giovani si sposano e nove mesi dopo hanno un bambino. Si può dire che è successo un avvenimento? Sì. Per quanto lo abbiano concepito e atteso, è evidente che quel figlio non è stato “fabbricato” da loro: a cominciare dal fatto che i due si sono incontrati [altro avvenimento], hanno deciso di mettersi insieme e di sposarsi. Potremmo dunque dire in questo senso che il bambino è come un “caso”» . Per quanto la nascita sia preparata, condizionata, prenominata (le ecografie affrettano oggi l’assegnazione dei nomi), anticipata entro un orizzonte d’attesa (carico di desideri e di ansie), «il bambino che giunge resta imprevedibile» , assolutamente nuovo, assolutamente altro, egli sorprende e sospende la previsione, la precomprensione, si mostra nella sua inappropriabilità (con le gioie o il disappunto conseguenti). Il suo carattere di avvenimento è «misurato» dalla sua irriducibilità alle previsioni e alle premesse che ne hanno preceduto l’arrivo. Pur essendo in tanti sensi un «fatto» prevedibile, esso resta dunque un «avvenimento»: il suo «fatto compiuto» lacera l’orizzonte d’attesa e lo riscrive.
Ma – terzo esempio – «anche i cieli e la terra che ci sono da milioni di secoli – osserva Giussani – sono un avvenimento, un avvenimento che sta accadendo ancora oggi come novità, in quanto la loro spiegazione non è esauribile» . Vale a dire, avvenimento è tutta la realtà nella sua abissale gratuità, indeducibilità. Il reale anzitutto e permanentemente accade, si dà, si mostra, mi raggiunge, mi si impone, mi tocca, mi appare, potendo sempre non apparire o apparire diversamente, oppure non essere affatto: originale e irriducibile contingenza, su cui Husserl è efficacemente tornato in Filosofia prima. Il reale scaturisce e irrompe, qui e ora. Avvenimento non è allora solo la prima guerra mondiale, un bambino che nasce, la morte di una persona cara, l’incontro con l’altro, l’opera d’arte, il dono, il perdono, ecc.; avvenimento è tutto il «reale», in quanto esso sorge ora, e-viene, ad-viene, ac-cade, mi viene incontro. Derrida lo dice a suo modo: «Dopo tutto, ogni volta che qualche cosa accade e anche nella più banale esperienza quotidiana, c’è una parte di evento e di singolare imprevedibilità: ogni istante segna un evento, come anche tutto ciò che è “altro”, ogni nascita e ogni morte, anche le più dolci e naturali» .
Beninteso, sotto il termine «avvenimento» non si pensa l’esteriorità pura. Avvenimento è l’alterità in quanto mi arriva, mi coinvolge, mi muove, mi provoca. L’avvenimento non è l’esteriorità pura, ma l’altro in quanto entra nell’esperienza e la «con-forma» ad esso, entra e mi evoca. «L’avvenimento è qualcosa di nuovo che entra nell’esperienza che la persona sta compiendo. In quanto “entra” nell’esperienza, è oggetto di ragione ed è perciò razionale la sua affermazione; in quanto è “nuovo”, implica che la ragione si apra all’oltre» .
Avvenimento dice l’ad-venire, il venire-a (qualcuno), venendo-da (e-vento). «Avvenimento indica dunque il contingente, l’apparente, lo sperimentabile in quanto apparente (…) come un dato, non nel senso scientifico, ma nel senso profondo e originale della parola: “dato”, ciò che è dato» . Il «dato» conserva infatti la traccia del suo processo d’ingresso nell’apparire, rimanda cioè alla sua donazione. Perciò Giussani, radicalizzando i termini, osserva: «Possiamo definire l’ontologia di un avvenimento come la trasparenza del reale emergente nell’esperienza in quanto proveniente dal Mistero, cioè da qualcosa che non possiamo possedere e dominare» .
Niente ci raggiunge, ci tocca, ci appare, che non sia innanzitutto «dato», a cominciare da me («Io sono dato a me stesso», dice Merleau-Ponty ). Ma perché non fermarsi al dato puro e semplice, evitando di aggiungere a tutti i costi il rimando alla donazione? Marion è andato, a questo riguardo, più a fondo di altri. Quando sono davanti a dei dati, per esempio quelli di un problema di matematica sottoposto a me come partecipante ad un pubblico concorso, devo necessariamente affermare: «Io non me li sono dati da me stesso (…), mi giungono e mi s’impongono. Ora, questo movimento di imporsi a me, di arrivare su di me, davanti a me o prima di me, è già sufficiente per far intravedere una donazione» . Se d’altra parte ci si ostinasse ad interpretare questi dati come fatti puri, semplici e bruti, ci si condannerebbe a renderli perfettamente inintelligibili, come risulta da un altro esempio.
Se io – sottolinea Giussani – entrando in camera tua vedessi un bicchiere con un bel mazzetto delle prime viole e dicessi: “Bello, chi te l’ha dato?” e tu non mi rispondessi, e io insistessi: “Chi ti ha messo lì quel mazzetto?” e allora tu mi dicessi: “È lì perché è lì”, fino a quando tu persistessi in questa posizione io sarei insoddisfatto, finché tu: “Me l’ha dato mia mamma”. “Ah”, direi allora io, acquietato. Non sarebbe infatti uno sguardo umano al fenomeno della presenza di quel mazzetto di viole, se non accedendo all’invito che in quel fenomeno è contenuto.
Il dato è un fatto che non si è fatto da solo e, mostrandosi, rende sempre visibile il sorgere da cui proviene; è un segno che rimanda oltre sé, al suo senso, alla sua spiegazione. «La donazione – dice bene Marion – si apre come la piega del dato» . «Per liberarsi realmente della donazione bisognerebbe dimostrare, seguendo delle analisi fenomenologiche precise, che un fenomeno sussistente può apparire senza portare in sé alcun segno della sua evenemenzialità, dunque senza alcun carattere di dato che lo ripieghi sulla donazione» . La tentazione di separare il dato dalla donazione è, osserva la Arendt, il cuore dell’ideologia: «L’ideologia non è l’ingenua accettazione del visibile, ma la sua “intelligente” destituzione» . La destituzione del visibile è la soppressione del rimando alla donazione, strutturale al presentarsi del dato, è la riduzione del dato a fatto bruto, del «segno ad apparenza» , con il conseguente dissolvimento dell’apparenza stessa. Il «dato» – il «segno» – è ciò che fa «entrare operativamente nella vita il significato» .
2.3. Affezione e conoscenza
Se consideriamo quanto detto sin qui, come si configura allora l’inizio della conoscenza? «Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre – secondo il suggestivo paragone di Giussani –, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una “presenza”. Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza» . In modi singolarmente consonanti Heidegger parla dell’esperienza che si colloca agli albori della filosofia. «Nel clima greco l’uomo è sopraffatto dal venire alla presenza di ciò che è presente, che lo costringe alla domanda di ciò che è presente in quanto tale. Il riferimento a questo afflusso della presenza i Greci lo chiamano thaumazein» – meraviglia, stupore –. La filosofia stessa scaturisce dal contraccolpo per la sovrabbondanza della presenza; essa, osserva Heidegger, «è la risposta di un’umanità colpita da un’eccedenza della presenza» . Questo «essere colpiti», il prodursi di un tale stupore, rappresenta la dimensione inaugurale del rapporto originario dell’uomo con la realtà e perciò dell’umana conoscenza. «Il primissimo sentimento dell’uomo è quello di essere di fronte ad una realtà che non è sua, che c’è indipendentemente da lui e da cui lui dipende (…) È la percezione originale di un dato (…) Ma la parola “dato” è vibrante di un’attività, davanti alla quale sono passivo: ed è una passività che costituisce l’originaria attività mia, quella del ricevere, del constatare, del riconoscere» .
L’avvenimento – il dato vibrante di attività, che ripiega verso la sua donazione, la sua provenienza – mi raggiunge, mi accade, mi rivolge la sua iniziativa, e l’originaria attività mia è incassare il colpo del suo irrompere: una passività che diviene ricezione, ospitalità, riconoscimento (in una genealogia della conoscenza bisognerebbe dire che il «contraccolpo dell’essere», della presenza, è il nucleo originario di ciò che chiamiamo giudizio). Qui, per richiamare il linguaggio che abbiamo messo in questione, i ruoli del costituente e del costituito si invertono: l’io non fornisce il senso, ma lo riceve; si sperimenta costituito dal fenomeno, invece che costituirlo, chiamato a lasciar essere la sua automanifestazione, non a produrla. Il soggetto è attirato e attivato dalla automanifestazione del fenomeno: il reale esercita una tendenza affettiva su di me e mi chiama a rispondere. Al cuore della conoscenza vi è dunque una passività, che è la profondità e la risorsa di ogni nostra attività (è quello che ha a suo modo mostrato Husserl nelle Lezioni sulla «sintesi passiva»).
Se partiamo dal primato fenomenologicamente incontestabile della donazione, dell’avvenimento – e perciò dell’esperienza –, l’io si rivela non come la coscienza costituente cartesiana o kantiana, come l’intelletto autore dell’esperienza, ma come l’interpellato dall’irruzione del dato, colui che è anzitutto soggetto-a ciò che si dà e lo raggiunge: l’io è destato, istituito, fatto sorgere come «sguardo», come capacità rivelativa, dall’impatto stesso con ciò che esso è chiamato a rendere manifesto, a portare alla visibilità, nella luce dell’evidenza. Ora, se «l’esperienza è l’emergere della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà allo sguardo umano» , la ragione è il momento di questa trasparenza, è come «un bagno di luce che fa vedere» , uno schermo su cui ciò che si dà si rende visibile, che consente alla donazione di compiersi in manifestazione, di mostrarsi a partire da sé. Nell’incontro con il dato, dunque, l’io è reso sguardo da ciò che lo reclama per manifestarsi. Detto altrimenti: l’avvenimento suscita la visione che è chiamata a rivelarlo, come in una «co-generazione» in cui vi è uno sfasamento inaugurale che provoca il dinamismo, vi è un disequilibrio, una differenza che mette in movimento (se ne può avere una analogia in quello che accade tra la madre e il bambino: lo sguardo della madre suscita, chiama, “genera” lo sguardo del bambino, che impara a guardare solo corrispondendo a quello sguardo interpellante e anticipante; e d’altra parte è solo nella risposta, nel suo sguardo rispondente, che lo sguardo della madre è rivelato come tale, si manifesta per quello che è, vale a dire è a sua volta “generato”).
Il soggetto del conoscere, come si sta profilando, non è allora un «io penso» che pretenda di partire da sé, ma anzitutto un «io sono affetto» che si caratterizza come sospeso ad un’iniziativa che lo precede: l’io è destato, attirato, colpito dal dato. Scrive Giussani: «La realtà, passando davanti agli occhi, non è come se passasse davanti agli occhi di un morto o ad uno specchio inerte; passa davanti a degli occhi vivi, perché ci lascia un segno, shocka la nostra coscienza», lascia sempre «un’impronta di paura o di speranza». «La conoscenza implica un’affezione, implica un contraccolpo che si chiama affezione, affectus. Il nostro io è touchée» . Un certo intellettualismo, di matrice moderna, ha immaginato il soggetto della conoscenza come uno «spettatore disinteressato», un kosmotheoros (la parola è di Kant), che sorvola sulle cose e sul mondo come un puro occhio disincarnato. Ma un simile occhio non potrebbe portare a manifestazione le cose, innanzitutto perché non riuscirebbe a coglierle, esse non arriverebbero a divenire rilevanti per lui. Non bisogna infatti intendere l’affectus e la ricettività originaria in senso empiristico, come se dicessimo: all’inizio della conoscenza stanno le sensazioni, le «impressioni», cioè l’urto di meri corpi sul nostro apparato sensoriale, e poi viene tutto il resto.
La ricettività sensisticamente intesa presuppone un’immagine del tutto astratta dell’uomo e una stratificazione dell’esperienza che è una pura invenzione teorica. Noi non abbiamo anzitutto mere sensazioni a cui in un secondo momento verrebbe attribuito un significato; non percepiamo oggetti sensibili che poi si caricherebbero di un senso: abbiamo originariamente a che fare con una realtà provvista di senso, cioè con «segni». Il bambino, anche piccolissimo, non percepisce infatti odori in generale, ma quello della madre, al quale è vitalmente interessato; non ode meri rumori, ma il cigolio della porta che annuncia l’arrivo del fratellino; non vede colori, ma il bianco del biberon che promette il cibo. Le cose ci si rivelano fin dall’inizio come segni e l’incontro con esse è sempre significativo. Noi siamo «affetti» dal loro manifestarsi perché esse ci riguardano, non perché colpiscono i sensi astrattamente concepiti: ogni realtà lascia sempre «un’impronta di paura o di speranza», vale a dire ci tocca in rapporto al nostro destino, riscuote la nostra attenzione perché e nella misura in cui rappresenta una possibilità per la nostra umanità bisognosa e desiderante, trepidante e ferita.
Solo per un io coinvolto, per una «ragione affettivamente impegnata» (L’uomo e il suo destino, 66), le cose emergono nel loro senso, nella loro pregnanza d’essere. L’uomo può «essere affetto» per l’inquietudine e l’urgenza del proprio destino, l’aspirazione e l’esigenza della felicità, che l’impatto con la realtà ridesta. Egli, osserva Heidegger in Essere e tempo, è «quell’ente per il quale sempre ne va del proprio essere», che è sempre in gioco, e per questo riconosce le cose come segno, cioè comprende il senso, compie costantemente il percorso dal segno al significato. In questa linea, opponendosi a Kant, Heidegger sottolinea – agostinianamente, nel corso del 1925 – che i sentimenti non ostacolano la conoscenza, ma la aprono («L’amore non rende ciechi, l’amore rende veggenti»). Il sentimento è «un fattore essenziale alla visione» , una «lente» che avvicina l’oggetto.
Occorre mettere radicalmente in questione il carattere «spassionato» della conoscenza professato da una certa mitologia moderna, «in cui la ragione è pensata come capacità di conoscenza che si sviluppa nei confronti dell’oggetto senza che niente debba interferire» . La conoscenza è originariamente interessata e solo tardivamente, rispetto a taluni fenomeni, può realizzarsi con quella peculiare «tonalità affettiva» che è l’indifferenza. Il sospetto che laddove non sia possibile ottenere tale «distacco» non si possa attingere un’autentica conoscenza è figlio di quel razionalismo che ha preventivamente ridotto l’esperienza della conoscenza alla pratica delle scienze esatte, e in ultima istanza alla matematica e alla logica formale, con la conseguenza che la ragione si separa dall’esistenza, prende congedo dalle questioni umane più decisive (Kant, ancora una volta, ha aperto la strada).
3. “La scoperta dell’Innominato”. Il valore conoscitivo dell’incontro.
Secondo significato del titolo
L’io, abbiamo detto, è toccato e messo in movimento dalla realtà che lo raggiunge, gli accade, gli si impone; la sua identità si dispiega e si riceve nella e come risposta alla precedenza e alla prevenienza dell’altro (pensiamo ancora al bambino). «Io significa eccomi», per usare una nota espressione di Lévinas. L’io è sempre preceduto dall’altro: non solo dall’altro come «dato», ma dall’altro come «altri». «L’altro è in me prima di me: l’ego (…) implica l’alterità come propria condizione» . Per quanto lontano noi risaliamo nel tempo, per quanto profondamente ci caliamo in noi stessi, l’altro è sempre già là, nel cuore della nostra avventura, della nostra storia, nelle viscere più riposte della nostra autocoscienza, nella fattura stessa dei nostri più segreti pensieri. Siamo già da sempre nella risposta. È ciò che è anzitutto attestato dall’avvenimento della nascita, che inscrive la nostra soggettività in un’originaria e incancellabile dipendenza, in un’eteronomia di principio irriducibile, inespugnabile: «Non c’eri, ci sei, non ci sarai più, dunque dipendi» (Giussani). L’essere-generati rende posticcia ogni pretesa di autonomia, di cominciamento da sé, di cominciamento assoluto. Non vi è un solo uomo che non abbia anzitutto dovuto nascere, che cioè non sia stato preceduto dall’iniziativa di altri, senza aver potuto dire una parola, senza aver potuto sapere, prevedere: la mia nascita accade senza e prima di me, dell’«ego», di ogni «cogito ergo sum»: essa mi accade e mi chiama subito a rispondere, mi situa in un ritardo insormontabile rispetto a qualunque progetto di autopossesso, di appropriazione. Come osserva Marion, «la soggettività metafisica potrebbe definirsi anche come la denegazione caparbia del fatto sempre già compiuto della mia nascita» .
Non si tratta soltanto di questo. «La persona prima non esisteva: perciò quello che la costituisce è un dato, un prodotto d’altro. Questa situazione originale si ripete ad ogni livello dello sviluppo della persona. Ciò che provoca la mia crescita non coincide con me, è altro da me» . L’evento della nascita non è dunque il «big bang» che dà avvio ad una singolarità che poi si evolve e si struttura per proprio conto, non segna quel punto esclusivamente iniziale di dipendenza dall’altro che può essere suturato come la ferita del cordone ombelicale: il rapporto all’altro è il metodo permanente dello sviluppo, in ogni senso e ad ogni livello, dell’identità dell’io. «L’uomo si sviluppa per rapporto, per contatto con altro. L’altro, tanto è originariamente necessario perché l’uomo esista, altrettanto è necessario perché l’uomo si avveri, si inveri, diventi sempre più se stesso» . All’avvenimento della nascita segue quellodell’incontro, che rappresenta l’avvenimento per eccellenza nella vita dell’io: attraverso di esso l’altro si presenta, si mostra, e l’io può iniziare il cammino della sua identificazione, cominciare a diventare ciò che è. Dobbiamo allora completare la formula usata prima: se il sorgere del «dato» mi affetta e istituisce la mia ragione come suo testimone, la ragione può realizzare la sua vocazione alla manifestazione del dato, allo svelamento del mondo, solo grazie ad una improgrammabile, ma necessaria catena di incontri.
Il soggetto della conoscenza non è un soggetto isolato – «ego cogito» o «Io trascendentale» – chiuso nel suo solipsismo; un soggetto isolato non potrebbe mai eventualmente nemmeno avvedersi di vivere in un’allucinazione, ma soprattutto non potrebbe corrispondere alla richiesta della realtà: noi siamo infatti abilitati a farci trasparenza del dato, ovverosia a conoscere, ad avere pensieri, dall’incontro con l’altro, col «tu». Senza l’altro, senza l’incontro, l’io non può pervenire alla coscienza di sé e non può farsi coscienza del mondo, «autocoscienza del cosmo», non può attuare la sua apertura comprendente al mondo, esercitare quello che Merleau-Ponty chiama «il dono del visibile». «Tutta la questione consiste nel comprendere – scrive ne L’occhio e lo spirito – che i nostri occhi di carne sono già molto più che ricettori dei raggi luminosi, dei colori e delle linee: sono computers del mondo, che hanno il dono del visibile così come si dice che l’uomo ispirato ha il dono delle lingue. Naturalmente questo dono si conquista con l’esercizio, non in qualche mese e neppure nella solitudine» .
Ecco il secondo senso del titolo: la conoscenza è sempre un avvenimento in quanto l’avvenimento dell’incontro con l’altro rappresenta la condizione necessaria all’emergenza e attuazione di quella capacità di coscienza della realtà che chiamiamo «ragione» e allo sviluppo della sua concreta avventura. Nessuno può conoscere da solo; conoscere è un verbo che si realizza solo al plurale (nella perfetta solitudine – che beninteso è una pura astrazione – l’uomo non avrebbe potuto nemmeno iniziare a parlare: la genesi del linguaggio implica l’intersoggettività). Il solipsismo dell’«ego cogito», che parte da sé, che ricomincia da zero, è una finzione: per reggersi, ha bisogno di sopprimere quella presenza dell’altro nella vita dell’io che ha cominciato ad attestarsi a partire dalla sua nascita.
Perciò si può – anzi, si deve – parlare di «valore conoscitivo dell’incontro», secondo la riuscita espressione di Carrón: la ricchezza di rapporti, la possibilità di incontri non rappresentano una aggiunta estrinseca alla conoscenza, ma l’avvenimento che la dischiude a scoperte che altrimenti rimarrebbero letteralmente impensabili, impossibili. Un incontro accade, tocca la persona, e consente un nuovo rapporto alla “cosa” o a se stessi («e gli si aprirono gli occhi»). È quello che Gadamer ricorda di Heidegger, quando sostiene che fu l’incontro con Hölderlin a «sciogliergli la lingua», cioè a determinare una svolta nella sua riflessione; ma è quello che accade a ciascuno di noi.
Prendiamo un esempio tratto dalla nostra letteratura e a tutti ben noto. La conversione dell’Innominato nei Promessi sposi. Nella vicenda si possono rintracciare tre momenti chiave, in cui il processo di conoscenza di sé dell’Innominato è messo in movimento da certi fatti che accadono. 1) Mandato il Nibbio a rapire Lucia presso il convento di Gertrude, l’Innominato lo sta aspettando per avere un resoconto della spedizione. Il Nibbio elenca con tono abituale le azioni compiute, ma non resiste a comunicare, con un certo imbarazzo, una novità rispetto alle imprese a cui è avvezzo: Lucia gli ha suscitato «compassione». Questa parola scatena lo stupore, l’ira e la curiosità del padrone. Stretto nella morsa d’opposte reazioni, l’Innominato decide di vedere Lucia. Nell’incontro, egli è sorpreso dal suo agire, investito da una «confusa speranza», suscitata da una parola che ella pronuncia: «misericordia». Segue la famosa notte dell’Innominato, consumata nella lotta tra il seguire la novità introdottasi, rivoluzionando la propria vita, e la tentazione del suicidio. 2) Secondo. L’Innominato sente il suono di una campana lontana. È segno di festa. In tanti anni di vita in quel castello è la prima volta che l’Innominato si accorge del suono delle campane. Si affaccia e vede che la gente si avviava tutta «verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria» e «gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa». Si inserisce un nuovo motivo di speranza. Un avvenimento fa nascere in lui una domanda, una curiosità che non aveva: conoscere il cardinale. 3) Infine l’incontro con il cardinale, a cui una «smania inesplicabile» l’aveva condotto, quasi suo malgrado: la presenza del cardinale Federigo apre una possibilità inaudita. E alla fine del commuovente dialogo Manzoni mette in bocca all’Innominato le seguenti parole: «Io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!».
«Io mi conosco ora». L’incontro ha una portata conoscitiva. È quello a cui una certa riflessione filosofica più tenacemente resiste. Il trascendentalismo, in tutte le sue forme, non può riconoscere che un significato accidentale all’avvenimento. Al contrario, riprendendo i due significati sin qui utilizzati, senza avvenimento (accadimenti e incontri) non c’è conoscenza: non solo all’inizio, ma in ogni momento dello sviluppo. In altri termini, tutto ciò che si può avere la tentazione di qualificare come inessenziale – l’accidente, l’incidente, la deviazione, il caso, l’incontro non programmato con l’altro –, ciò che dunque appartiene all’ordine inanticipabile della «fatticità» e che forma quel tessuto che chiamiamo «storia», rappresenta la condizione genetica della conoscenza e schiude la possibilità di ogni suo avanzamento. Lo si potrebbe documentare con il riferimento alle più importanti scoperte scientifiche; ciascuno lo può confermare mediante il semplice riferimento alla propria esistenza: se in quel momento non fosse accaduta la tal cosa, se allora non avessi incontrato la tal persona, non avrei mai capito, scoperto, conosciuto, ecc.
Tanto la genesi dell’esperienza conoscitiva quanto l’emergere al suo interno di novità sono costitutivamente legati all’avvenimento e in particolare a quell’avvenimento per eccellenza che è l’incontro con l’altro.
È un avvenimento che mette in moto il processo per cui un uomo incomincia a prendere coscienza di sé, ad avere tenerezza verso se stesso, a prendere nota del destino a cui sta andando, del cammino che sta facendo, dei diritti che ha, dei doveri che deve rispettare, della sua fisionomia intera. È un avvenimento che dà inizio al processo per cui un uomo incomincia a dire io con dignità (…) È solo un avvenimento che può mettere in moto il processo attraverso cui l’io arriva alla coscienza o conoscenza di sé. La categoria di “avvenimento” è dunque capitale tanto per la conoscenza dell’io come per ogni tipo di conoscenza.
Siamo agli antipodi di ogni cartesianesimo, di ogni presunta autocrazia del pensiero.
4. “L’ipotesi di Keplero”. La conoscenza stessa è un avvenimento. Terzo significato del titolo
Arrivati qui possiamo compiere l’ultimo passo: la conoscenza è essa stessa un avvenimento, ossia un risultato che non è spiegabile in base alla riconduzione a fattori antecedenti, nella fattispecie a facoltà e a strumenti determinati di conoscenza – posto naturalmente il necessario manifestarsi delle cose. È questo il motivo per cui quando comprendiamo qualcosa di nuovo ci stupiamo, contrariamente a quanto dovrebbe accadere se l’affermazione kantiana che noi troviamo nella realtà che prendiamo di mira solo quello che noi stessi vi abbiamo messo dicesse tutto quello che è da dire. Anche operando all’interno del campo della matematica e della logica formale, quando giungiamo ad un risultato nuovo diciamo che abbiamo fatto una «scoperta» (che magari ci frutterà il Nobel, perciò soldi e notorietà). È un modo di dire poetico? È una debolezza del linguaggio? Oppure stiamo cogliendo ciò che emerge nell’esperienza? A maggior ragione questo si verifica nel campo aperto dei fenomeni reali, pieni, ricchi di contenuto intuitivo, e non formali come quelli logico-matematici. Vale a dire: non solo nella conoscenza ottenuta, ma nel fatto stesso di averla ottenuta vi è un «di più» che ci sorprende, un carattere di avvenimento.
La filosofia si è misurata dall’origine con il problema e ha cercato di sceverare la parte «meccanica» e prevedibile del procedere razionale (per cui nel dire «2 x 2 = 4» non ci corre alcun brivido dietro la schiena) da quella «creativa» (per esempio la formulazione di una «ipotesi»). Ma quando si è trovata a rendere conto di quest’ultima e perciò di quella dimensione di scoperta cui accennavamo ha sempre dovuto ricorrere a spiegazioni che ribadivano la profondità del problema, piuttosto che «risolverlo». Kant ha parlato in proposito di «immaginazione produttiva», «un’arte celata nelle profondità dell’anima umana», e Peirce (il più originale dei filosofi americani e grandissimo logico) di «istinto razionale». Se, per esempio, nei termini di quest’ultimo, ci troviamo di fronte ad un «fenomeno sorprendente», come la posizione inaspettata di Marte da cui prese le mosse Keplero, rispetto a cui non si può fare riferimento induttivamente all’esperienza precedente, come ci viene in mente la regola che utilizziamo come ipotesi («Se le orbite fossero ellittiche, le longitudini osservate si spiegherebbero»)? Qui non procediamo né induttivamente né deduttivamente: «l’ipotesi» nasce da una interpretazione, non da un’intuizione, sorge cioè da una peculiare «lettura dei segni» che Peirce chiama «abduzione» (il passaggio dal conseguente all’antecedente, dal segno al significato). Così, «quando Newton vide cadere la famosa mela, questa fu un segno che fece balenare la grande ipotesi» (SR,27). «Dalla scoperta di Keplero al problema della realtà di Dio non c’è soluzione teorica che non abbia bisogno di segni», come osserva G. Maddalena, uno dei più attenti studiosi italiani di Peirce. Ma ecco la domanda: come possiamo avere questa capacità di leggere i segni? Peirce fa appello all’«istinto razionale» quale «radice segreta» del funzionamento della nostra ragione; che è come dire: la lettura dei segni accade, ma non sappiamo dire perché, se non facendo ricorso ad una inesorabile quanto misteriosa tendenza alla verità. Vi è cioè un sovrappiù, un indeducibile, non solo all’inizio, come permanente scaturigine della conoscenza, ma anche nel suo stesso procedere e nel suo risultato.
Avvenimento, dunque, non è solo la provocazione che inaugura e rende possibile la conoscenza, ma l’attività stessa in cui essa consiste, colta nel suo aspetto creativo, e la scoperta di cui è portatrice. È ciò che afferma Guardini: «Mai la grande visione nella scienza della natura, nella storia, nella filosofia è soltanto faccenda di mero sforzo logico. È invece un processo che coinvolge tutto l’uomo, uno sbocciare interiore, un chiarificarsi, un essere presi, è finezza di udito e vibrante fecondità. Un processo che quanti ne sono stati partecipi hanno sempre sentito come un dono. Vi ci si può preparare, non ottenerlo a forza» (Guardini, 85). «Anche le nostre concezioni realmente vitali non sono state estorte razionalmente, sono “avvenute”» (Ibidem). Lo stupore apre e chiude perciò il percorso della conoscenza.
4.1. La conoscenza, la fede, il credito
In una visione dogmatica del metodo scientifico – che lusinga anche tanta filosofia – ci si dimentica di questa dimensione ultima, interpretativa, «creativa», della ragione, che attraversa tutti i campi del sapere, nessuno escluso, per quanto in modi diversi. Si appiattisce così il procedere scientifico, come se esso fosse caratterizzato nient’altro che da deduzioni e induzioni. Ma al di sotto della ragione «misura», per dirla in breve, è sempre necessariamente all’opera una ragione più originaria, altrimenti nemmeno la scienza potrebbe procedere. Essa consiste – come abbiamo accennato – nella «intelligenza del segno», cioè nella capacità di compiere il continuo percorso dal segno (qualunque realtà) al significato, di cogliere il senso e i nessi che si offrono nell’esperienza del mondo che tutti facciamo. Questo esercizio della ragione sorregge e attraversa ogni altro modo di procedere, da quello mitico a quello logico-filosofico, da quello analogico a quello matematico, ecc.; esso rappresenta un elemento comune di quella vocazione razionale che identifica l’umano nella sua universalità, al di qua o al di là della molteplicità di individui e culture. Vi sono uomini profondamente estranei al metodo logico-filosofico o matematico-scientifico, ma non vi sono uomini estranei all’intelligenza del segno, alla comprensione del senso (comunque inteso) di ciò che viene loro incontro nell’esperienza. Un tale esercizio della ragione non può mai essere «superato», per lasciare definitivamente luogo ad altri e più raffinati impieghi: esso è sempre necessariamente all’opera e lo è supremamente nel campo degli umani rapporti, nella conoscenza dell’altro, che è essenziale per vivere.
Il livello di «fiducia» che possiamo accordare ad una persona che incontriamo o con cui abbiamo a che fare, fino a raggiungere a riguardo di essa una «certezza morale», è infatti una questione di lettura di segni, comporta cioè lo stesso uso della ragione richiesto dalla scoperta di Keplero. Ma qui tale uso della ragione è, oltre che più impegnativo della totalità della persona, anche incommensurabilmente più decisivo: «Uno potrebbe vivere benissimo senza la filosofia, senza sapere che la terra gira intorno al sole – osserva Giussani –: l’uomo non può vivere invece senza le certezze morali. Senza poter dare giudizi di certezza sul comportamento che l’altro ha verso di lui, l’uomo non può vivere. Tanto è vero che l’incertezza nei rapporti è uno dei malanni più terribili della nostra generazione» . Lo documenta, tra parentesi, anche l’attuale crisi finanziaria.
Il raggiungimento «razionale» della certezza morale è ancora più determinante in quanto su di essa si fonda quel metodo di conoscenza peculiare, tanto indispensabile e massicciamente utilizzato quanto negletto, che si chiama «fede»: la fede è un metodo di conoscenza, di conoscenza indiretta, che avviene cioè attraverso la mediazione di un testimone. «Se io ho raggiunto la certezza che una persona sa quel che dice e non m’inganna, allora ripetere con certezza ciò che essa dice con certezza è coerenza con me stesso» . La fede è il metodo di conoscenza più importante fra tutti, per il semplice motivo che su di esso si fondano la convivenza, la cultura e la storia. «Se l’unica ragionevolezza fosse nell’evidenza immediata o personalmente dimostrata (…) l’uomo non potrebbe più procedere, perché ognuno dovrebbe rifare tutti i processi da capo, saremmo dei trogloditi» . La maggior parte delle nostre conoscenze – in ogni campo – sono attinte in maniera indiretta, mediante il metodo della fede. Rinunciare a questo metodo equivarrebbe a rinunciare alla civiltà.
Eppure noi siamo irresistibilmente condotti a pensare che non si tratti qui a pieno titolo di conoscenza, proprio in quanto tale metodo implica la fiducia, la «certezza morale», quindi la mediazione del testimone, dunque il credito e l’evidenza indiretta. C’è troppa distanza da ciò che oggi riteniamo un «conoscere» fondato. Anche nostro malgrado, siamo determinati da un modello di conoscenza che si è plasmato a partire da Galileo e da Descartes, per essere perfezionato da Kant. Esso ha condotto al dominio incontrastato di un dogmatismo scientista che, dando ormai per assodata la «limitazione» kantiana e l’opposizione tra sapere e credere che ne consegue, considera tutto ciò che non è traducibile in termini matematico-quantitativi e sottoponibile al protocollo dell’esperimento né conoscibile né quindi in definitiva reale, da confinare senz’altro nel campo del meramente soggettivo, dove vigono l’opinione, il sentimento, la fiducia, il credito, la fede, ecc.
Non c’è il tempo di entrare nel vivo. Vogliamo solo fare osservare il presupposto «cartesiano» di un simile canone conoscitivo: un soggetto, una ragione capace di liberarsi di tutti i presupposti, di partire esclusivamente da sé, di guardare il mondo in modo puro, senza far conto su altro che sulle evidenze dirette che si offrono al suo sguardo, in grado di procedere solo deduttivamente e induttivamente, come si diceva sopra, ecc. I primi a dubitare di tutto ciò sono forse proprio gli scienziati. Domandiamoci: ma lo scienziato – assunto come prototipo del soggetto razionale – può fare a meno della lettura dei segni, del credito, delle evidenze indirette, della mediazione del testimone, dell’atto di fede inteso come atto razionale, proprio per fare lo scienziato? No, non è possibile. Non si tratta di screditare la scienza, né di contrapporvi un oscuro irrazionalismo, quanto piuttosto di mostrare che in essa è all’opera un uso della ragione più complesso e originario di quello dichiarato e una dipendenza dall’avvenimento in tutti i sensi mostrati. Si tratta cioè di mettere in questione un’idea di esperienza e di conoscenza, una concezione di realtà, una partizione tra razionalità e irrazionalità, sapere e credere, che non reggono, senza con questo misconoscere le differenze in campo, la diversità di metodi e ambiti. Si potrebbe per esempio – per fornire solo uno spunto – riconsiderare l’opposizione tra fede e sapere nell’ottica utilizzata, osservando che il credito fa parte di ogni atto di conoscenza, dell’atto del conoscere come tale, poiché il soggetto cartesiano è un mito e nessuno può veramente cominciare da sé: il testimone è già là, prima ancora che lo scegliamo, la mediazione è già avvenuta e non può mai essere tolta. Il fatto stesso che parliamo una lingua – che è sempre la lingua dell’altro – non è già il credito all’opera? Non esiste una ragione senza credito, cioè senza debito (verso l’altro), senza un assenso comunque dato. E questa non è una limitazione, ma la risorsa originaria della conoscenza.
4.3. Un nota-bene conclusivo
Se «avvenimento» dice l’inizio, la condizione e il risultato della conoscenza; se esso dice l’«altro», il «nuovo» che entra e che fa vivere, perciò conoscere, e permette di avanzare, qual è il rapporto con l’avvenimento non ancora accaduto, che non vediamo né possiamo veder venire? Se l’avvenimento è fonte, se occorre che esso accada, se la sua venuta è necessaria affinché vi sia avvenire, ma è improducibile, imprevedibile, qual è la forma del rapporto con esso?
Nei testi di Giussani ritorna in proposito una osservazione: la storia di tutta l’umanità – che è in un certo senso rappresentata nella storia della rivelazione, contenuta nella Bibbia – si chiude con una domanda, una ingiunzione, una apostrofe, un grido: «Vieni!». La risposta della ragione all’avvenimento è ultimamente una domanda, per l’indigenza essenziale che la caratterizza: «Vieni!». L’avvenimento non può essere anticipato, non può essere prodotto, si può solo attenderlo: «Vieni!», come dice un amico che attende l’amico, un bambino che attende il padre, la madre («Quando verrai?», «Vieni!»).
Derrida identifica nel «Vieni!» l’unico rapporto possibile all’avvenimento: non una pretesa, ma una domanda, una attesa senza prefigurazione, senza confini. Heidegger identifica nel domandare la «pietà del pensiero», la sua dimensione più profonda. Non è un caso: ci si ritrova in certi momenti, in certi punti, in una consonanza insospettata.
Lo stesso è detto da un canto di recente ascoltato, Negras ombra, nel suo struggente finale amoroso: «Vieni! Non lasciarmi mai, tu che sempre mi sorprendi».
Questo grido è la stoffa profonda della nostra ragione.
Il titolo è ricavato dai testi di Luigi Giussani (cfr. per esempio, L. Giussani, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, pp. 13-15). Pur non essendo un filosofo in senso professionale, il suo pensiero possiede un’indubbia originalità e pregnanza filosofica. Il presente saggio cerca di coglierne e metterne a frutto, in via del tutto iniziale, alcuni aspetti.
Inf., XXVI.
L. Giussani, Il rischio educativo, SEI, Torino 1995, p. 53.
Tract. in Ioan., XXVI, 5: Migne, P. L., XXXV, 1609.
L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 170.
M. Heidegger, Seminare, in Gesamtausgabe, Bd. XV, Klostermann, Frankfurt a.M. 1986, tr. it. di M. Bonola, Seminari, a c. di Franco Volpi, Adelphi, Milano1992, p. 94.
Ibid., p. 96.
L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 5. «Il realismo esige che, per osservare un oggetto in modo tale da conoscerlo, il metodo non sia immaginato, pensato, organizzato o creato dal soggetto, ma imposto dall’oggetto (…) Il metodo per conoscere un oggetto mi è dettato dall’oggetto stesso, non può essere definito da me» (Ibid., pp. 5-6).
Cfr. M. Heidegger, Seminari, cit., p. 93.
R. Descartes, Meditazioni metafisiche, «Prima meditazione», in Opere, Laterza, Bari, 1967, vol. I, p. 199.
Cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, IV.
L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 9.
Ibid., p. 10.
Ibidem.
Ibidem.
M. Merleau-Ponty, Le visibile et l’invisible, Gallimard, Paris 1964, tr. it. di A. Bonomi, a cura di M. Carbone, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993, pp. 175-176.
M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, tr. it. di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1965, p. 420.
L. Giussani, Vivere la ragione, in Tracce n. 8, settembre 1996 (ripubblicato in Tracce N.1, Gennaio 2006), p. 1.
L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, Rizzoli, Milano 2000, p. 274.
L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 54.
L. Giussani, Vivere la ragione, cit., p. 2.
L. Giussani, L’autocoscienza del cosmo, cit., p. 276.
L. Giussani, Vivere la ragione, cit., p. 2.
Ibid., p. 3.
Tra le traduzioni disponibili segnaliamo quella curata da C. Esposito. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, Bompiani, Milano 2004, testo tedesco a fronte. Noi la seguiremo solo in parte.
La parola francese «donation» traduce l’espressione tedesca «Gegebenheit», utilizzata da Husserl. I traduttori italiani hanno adottato il termine «datità».
L. Giussani, Vivere la ragione, cit., p. 3.
L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 66.
L. Giussani, Vivere la ragione, cit., p. 2.
J.-L. Marion, étant donné, PUF, Paris 1997, tr. it. di R. Caldarone, Dato che, SEI, Torino 2001, p. 243.
L. Giussani, Generare tracce…, cit., p. 14.
Ibid., p. 19.
Ibid., p. 17.
L. Giussani, In cammino, in Un avvenimento di vita cioè una storia, Il Sabato, Milano 1993, ripubblicato in È, se opera, Supplemento a «30 Giorni», N. 2 – Febbraio 1994, p. 13.
Ibidem.
L. Giussani, Generare tracce…, p. 18.
Ibidem.
Ibid., p. 16.
J. Derrida, B. Stiegler, Echographies de la télévision, Galilée/INA, Paris 1996, tr. it. di L. Chiesa e G. Piana, Ecografie della televisione, Cortina, Milano 1997, p. 47.
L. Giussani, Generare tracce…, cit., p. 17.
J. Derrida, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida,
in G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida,
Laterza, Roma-Bari 2003, p. 99.
L. Giussani, Generare tracce…, cit., p. 19.
Ibid., p. 18.
Ibidem.
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 466.
J.-L. Marion, Dato che, cit., p. 76.
L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 156.
J.-L. Marion, Dato che, cit., p. 79.
Ibid., p. 80.
Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni Comunità, Milano 1996, p. 649.
L. Giussani, L’uomo e il suo destino, Marietti, Genova 1999, p. 112.
Ibid., p. 113.
L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 140.
M. Heidegger, Seminari, cit., p. 95.
Ibid., p. 96.
L. Giussani, Il senso religioso, cit., pp. 140-141.
L. Giussani, L’uomo e il suo destino, cit., p. 107.
L. Giussani, Si può (veramente?!) vivere così, Rizzoli, Milano 1996, p. 80. Riportiamo più estesamente il passo: «La ragione è coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. La ragione è coscienza della realtà, cioè la realtà diventa trasparente, come emergente dentro un bagno di luce (questo bagno di luce si chiama ragione) che fa vedere» (80).
Ibid., pp. 60-61.
L. Giussani, L’uomo e il suo destino, cit., p. 66.
L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 38.
Ibid., p. 34.
J. Derrida, M. Ferraris, Il gusto del segreto, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 100.
J.-L. Marion, Dato che, cit., p. 355.
L. Giussani, Il rischio educativo, cit., p. 33.
L. Giussani, Quaderni di «Tracce», Aprile 2006, p. 9.
L’oeil et l’esprit, «Art de France», n. 1, janvier 1961
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