martedì 27 ottobre 2009

APPUNTI SDC DI CARRON 21 OTTOBRE

Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 21 ottobre 2009
Testo di riferimento: J. Carrón, «Esperienza: lo strumento per un cammino umano», Assemblea
Internazionale Responsabili di Comunione e Liberazione, La Thuile, agosto 2009, suppl. a Tracce,
n. 8, settembre 2009, pp. 8-21.
• Canto “Le stoppie aride”
• Canto “Il mio volto”


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Per far fruttare al meglio il tempo di questo gesto vi chiedo di fare interventi brevi, sintetici. Tante
volte, moltiplicando i dettagli, non si capisce che cosa esattamente vogliamo dire; inoltre vi invito a
non finire il vostro intervento senza un giudizio: per aiutarci tutti a stare sull’esperienza. Anche don
Giussani, in Qui e ora, a un certo momento dice che è meglio se gli interventi li portiamo scritti,
perché aiuta tutti a una sobrietà e chiarezza nell’intervenire (cosa che poche persone sanno fare a
braccio). Questo è un sacrificio che dobbiamo fare per aiutarci.
Ho accompagnato don Giorgio Pontiggia in questi ultimi giorni; da sabato mattina fino a lunedì
quando è morto era senza conoscenza, peggio che nello stato di Eluana perché non reagiva
neanche al dolore. Faccio il paragone con Eluana, perché quando è venuto fuori il tuo giudizio su
quel caso ero d’accordo con te, addirittura ero ideologicamente d’accordo perché mi davano
fastidio certi atteggiamenti pro-life; e pensavo di aver fatto esperienza. Ma quando mi sono visto
davanti don Giorgio in quello stato, la tentazione forte era di pensare che fosse finito, che non fosse
più una persona. Ho detto: «Speriamo che muoia in fretta, perché non c’è più». Quindi mi sono
accorto che il mio giudizio era quello del papà di Eluana! Ma questa volta, a differenza che con
Eluana, questo è uno dei più grandi amici della mia vita e quindi non ho potuto fermarmi a quel
giudizio, ho dovuto fare tutto il percorso fino all’esperienza elementare e chiedermi se questo era
veramente un essere finito o non era il mio amico don Giorgio. E lì ho fatto veramente l’esperienza
di percepire che l’uomo è mistero che vive, qualunque sia il suo stato: proprio ciò che hai detto in
quel volantino. Ora, il giudizio che do è: io non avevo fatto esperienza, avendo pensato di averla
fatta. Tu ci avevi detto: «Il volantino nasce dal mio disagio». Ma io nel tuo disagio non mi ero
immedesimato. Allora il giudizio che do è che spesso noi pensiamo di fare esperienza, ma non la
facciamo. E non siamo neanche onesti nel dirlo.
Tante volte c’è una distanza tra quello in cui ci imbattiamo e noi. Perché l’esperienza – dice don
Giussani – è così decisiva? Perché la realtà si fa trasparente nell’esperienza, perciò se noi teniamo
quella distanza, in fondo non si svela la realtà davanti ai nostri occhi, e perciò possiamo dire delle
cose pur giuste, ma non capiamo il giudizio ultimo, il valore del giudizio ultimo. Tanti hanno
sentito quel volantino, in fondo, come non necessario, perché hanno immaginato di poter stare
davanti a quel fatto senza aver bisogno di quella Presenza. Se uno non entra nell’esperienza, pensa
di capire, ma riduce. Per questo all’Assemblea Internazionale Responsabili dicevo che «non ci basta
sapere che cosa è il matrimonio perché stia in piedi, non ci basta sapere che cosa è il lavoro perché
non diventi una tomba». Se uno vive l’esperienza si rende conto che questo non gli basta. E noi
tante volte usiamo la parola esperienza, ma in fondo non è esperienza.
Anch’io volevo tentare un giudizio con il tuo aiuto. Di fronte alla salma di don Giorgio alla camera
ardente, ieri è emerso in tutta la sua potenza il problema della vita. Stando di fronte a un morto, a
maggior ragione se gli vuoi bene, l’evidenza è: è impossibile che sia don Giorgio, non è solo questo
don Giorgio. Allora sono andata a rileggere che cosa dice il Gius sulla morte. Quando un uomo si
osserva – dice nel quarto capitolo de Il senso religioso –, coglie in sé una duplice realtà, la realtà
materiale (che lui definisce come «misurabile e divisibile») e quella realtà che non è il corpo. E
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sulla morte poi fa proprio un corollario e dice: «Il fenomeno morte – così come emerge
all’esperienza – è spesso associato nella Bibbia a un’espressione di grande efficacia: corruzione.
[...] Se però in me c’è una realtà che non è divisibile, misurabile o essenzialmente mutabile, a essa
l’idea di morte, così come l’esperienza me la mostra, non è applicabile». Ed effettivamente è vero,
perché davanti al don Giorgio ho capito perfettamente che è così. «Occorre avere il coraggio di
non temere questa logica. La realtà intera dell’io come appare dall’esperienza non è riconducibile
interamente al fenomeno della corruzione; l’io non esaurisce la sua consistenza in ciò che di lui si
vede e constata morire. C’è nell’io qualcosa di non-mortale, di immortale! Parlo di coraggio,
perché è rilevabile nell’uomo una debolezza grande per cui gli occorrerà un sostegno che lo
conforti nella paura endemica che lo colpisce, in quanto l’immagine totale della sua vita è tentata
di giocarsi nel suo aspetto visibile e materialmente sperimentabile». Che è il giudizio umano con
cui oggi è iniziata la liturgia: di fronte alla morte dice che non c’è rimedio. Allora, in un momento
di prova quella cosa che tu dici agli Esercizi della Fraternità sul fiore della speranza è, credo, la
posizione che bisogna avere presente: resurrectio Domini spes nostra è il punto di sintesi del
percorso che un uomo fa, che un cristiano fa, che noi facciamo, che la nostra esperienza e che il
Gius ci ha portato a fare nella vita, anche di fronte alla morte. La cosa interessante è il passaggio
che fai tu dopo.
Qual è il passaggio che io faccio?
«È soltanto perché Cristo è risorto, perché c’è, che adesso possiamo guardare in faccia la grande
domanda». Questo è il punto.
Io vorrei fare il paragone tra quello che hai detto e quello che mi scrive uno, nei contributi che sono
arrivati per stasera: «Tu hai detto che l’esperienza non è reagire alla realtà, ma giudicarla, che il
metodo che ci insegna il movimento è dunque una tensione a giudicare tutto; ma il tentativo di
giudicare ogni cosa che accadeva è stato come uno sforzo che si è rivelato nel tempo una cosa
strana, una fatica. Come facciamo dunque a educarci a un metodo senza che questo diventi uno
sforzo volontaristico?». Io domando davanti a quello che hai raccontato tu: fare questo lavoro è
stato uno sforzo volontaristico? È stato qualcosa di appiccicato? È stato qualcosa di estraneo alla tua
esperienza? O ti veniva dall’intimo? Non è stato uno sforzo, ma una liberazione arrivare fin lì!
Dobbiamo smetterla di dire delle cose che non corrispondono all’esperienza, perché l’esperienza è
quello che hai raccontato: che uno, davanti a un amico morto, non può evitare di andare a trovare
una risposta, altrimenti vuol dire che se ne infischia di quel che succede all’amico; e se ne infischia
di sé e della domanda di senso che ha. Se l’esperienza non è questo, a me dell’esperienza non
interessa nulla. Ma se l’esperienza è questo, fa parte del percorso umano che desta in me un fatto
come quello che abbiamo vissuto oggi: uno non si può fermare, fino a giudicare se quella salma è
tutto o non è tutto. La fatica è non giudicare; il problema è come uno riesce a stare con tutto il suo
umano davanti a una cosa così senza giudicarla. Tanto è vero che quando la gente è disperata perché
non riesce a stare davanti alla morte fa molta più fatica. Ma noi non ci rendiamo conto di cosa ci è
capitato nella vita. La fatica è il contrario: dover stare davanti a una cosa così senza possederne il
senso, che è quel che ti fa vedere tutta la contraddizione, tutto lo scontro con l’esigenza umana di
significato che hai. Questa è la fatica, non quello che noi chiamiamo fatica.
Di recente sono avvenuti fatti molto drammatici, di fronte ai quali sono rimasta sbalordita per
quello che si è mosso: la certezza e il cambiamento dei miei amici più coinvolti, le domande nate in
persone non del movimento e il dialogo che ne è seguito. Mi sono dovuta chiedere: «Ma chi sei Tu
che stai facendo tutto questo?». E questa domanda è giunta fino all’ultima implicazione: «Ma chi
sei Tu che stai facendo me adesso?». E così ho sorpreso come un’evidenza quello che tu ci dicevi e
che io avevo sentito invece come una cosa lontana dalla vita quotidiana. E questo ha
immediatamente cambiato il mio modo di comportarmi con le persone. Però – e qui c’è la riduzione
– mi sono accorta che nel lavoro ero bloccata esattamente come prima. Quindi ho detto: «Ma se
non cambia anche qui, allora quella che tu hai chiamato esperienza non è un’esperienza». Mi sono
accorta che avevo un’immagine del mio cambiamento come se avessi dovuto far qualcosa di
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diverso, oppure essere più intelligente nel lavoro; e invece quello che è successo è un’altra cosa,
cioè che io sono come stata smascherata perché quel che ho visto (quella possibilità di un’umanità
più grande, più ricca) mi ha costretto a rendermi conto che sono fatta per qualcosa di più grande.
Tu da tutto questo che cosa hai imparato? Il giudizio!
Il giudizio è che mi sono accorta che pur avendo fatto un’esperienza – perché quell’implicazione
che per me è stata un’evidenza è un’esperienza –, il giorno dopo stavo già riducendo tutto a
un’immagine di quello che questo avrebbe dovuto cambiare.
Racconto anch’io di don Giorgio, perché a me è capitato questo: l’ho seguito nell’agonia, anche
dopo il decesso sono stato molto davanti a lui. Ed è capitato questo: a un certo punto, non avevo
più niente da dire, mi sono addirittura stufato – come tu dici alla Giornata d’inizio anno – di stargli
di fronte, e ho provato un dolore pazzesco: «Questo è mio padre, non ho più niente da dire?». Mi
sono accorto che in realtà in quel momento lì io lo stavo tradendo, stavo tradendo quello che lui è
stato per me per tutta la vita, perché lui mi ha sempre rimandato a Cristo. In quel momento io ero
di fronte a don Giorgio dimenticando Chi fa don Giorgio e Chi fa me in questo momento. Non ero
di fronte a Cristo e quindi non lo stavo seguendo.
E tu da cosa lo sapevi? Da che cosa sapevi che tu stavi tradendo? L’hai detto!
Perché mi stufavo, perché non mi bastava.
Non è che non abbiamo riscontri nell’esperienza: era stufo! Abbiamo riscontri nell’esperienza
quando smettiamo di fare delle astrazioni e parliamo dell’esperienza; sorgono tutti i segni che ci
aiutano a fare la strada, perché non è che se io, a un certo momento, mi stacco dal reale e vado alla
mia immagine, non succede niente: mi stufo, mi stufo! Dobbiamo essere leali così con l’esperienza,
perché poi ci arrabbiamo con non so che cosa, ma lì le spie incominciano ad accendersi. Uno si può
arrabbiare, un altro può essere grato perché è l’indicazione della strada da fare.
Posso dire che cosa ho imparato? Lì ho capito cosa vuol dire che noi confondiamo l’intenzione di
seguire con il seguire realmente. Mi sembra di capire che la differenza sta tutta nel fatto che
l’intenzione di seguire è che io seguo una mia immagine, il seguire realmente è che seguo una
presenza che è lì.
E tu come capisci la differenza? Stufandoti. Non è che tu adesso devi fare un’analisi (creando
addirittura un altro problema aggiunto), no, è che tu, appena sbagli, hai un segno dello sbaglio.
Questo è un aiuto per vivere o è una difficoltà, un altro ostacolo?
È un aiuto.
Tu parli del giudizio come contraccolpo dell’essere. Volevo raccontare un fatto per vedere se ho
capito. Sabato scorso mi ha raggiunta in classe la notizia che era morto il nonno di una mia alunna
– che tra l’altro gli fa da padre, quindi è un rapporto molto particolare – ed è stato un dramma,
come si può immaginare. Subito i ragazzi mi hanno chiesto: «Prof, dov’è il positivo di cui lei ci
parla, dove sta la speranza di cui lei ci parla?». E non mi mancavano ragioni o testimonianze
(perché è vero, ci sono tante testimonianze e tante ragioni che uno può dare di fronte a questi fatti),
ma poi a un certo punto una mia alunna mi ha chiesto: «Alla fine delle lezioni ci vediamo per
pregare?». E alla fine delle lezioni si sono riuniti trentacinque ragazzi, non quelli soliti che
vengono con me, anche ragazzi dichiaratamente atei o dichiaratamente ostili alla proposta.
E perché secondo te?
Quando li ho visti tutti là ho detto: «Dov’è il positivo?». Questi ragazzi erano mossi – sono stati
fatti e quindi prima della mancanza c’è una presenza – perché qualcuno li ha voluti e perché tutto
il loro dolore e tutta la loro confusione, tutto il mio dolore e tutta la mia confusione, non hanno
tolto quella Presenza. Il segno di questo, cioè il contraccolpo dell’essere, è stato che io sono uscita
dalla scuola contenta.
Ma immagina dei ragazzi che non c’entrano niente con la fede, i quali davanti a una cosa così
pregano, cioè che subito vedono l’implicazione ultima del Mistero in quello che vivono.
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Aggiungono qualcosa di appiccicato? O è qualcosa che sorge dall’esperienza che fanno il mettersi
davanti a qualcosa di più grande?
È sorto dall’esperienza.
Questi hanno fatto uno sforzo volontaristico? Facciamo costantemente il paragone con quello che
sorprendiamo negli altri: vediamo un modo di vivere, anche da quelli da cui non ce lo
aspetteremmo, che arriva fin lì, fino all’implicazione ultima. Grazie.
Mi è capitata questa cosa. A fine luglio faccio un test di gravidanza e il risultato era positivo, e
abbiamo festeggiato, a me non è mai capitato di essere così contenta.
Ma il tuo giudizio è stato uno sforzo volontaristico?
No. Ho letto il test.
Vedete? Per il tuo desiderio il test è stato un peso o una liberazione?
Una liberazione.
Uno sforzo?
Nessuno sforzo.
Questo si chiama giudicare o no?
Assolutamente sì. Poi dopo passano i giorni e capisco che non va proprio come pensavo io; devo
essere sincerissima, la preoccupazione e l’ansia si sono fatte avanti, eccome. L’ecografia segnala
enormi problemi e il medico mi convoca in ospedale, dove trovo tre estranee. Gelo totale. Però
anche nel gelo capivo che la circostanza mi era data: a un certo punto, hai come il desiderio di
usarla, che diventi tua l’esperienza, quindi che tu ci penetri nel profondo. A me ha colpito perché
dall’estraneità che c’era all’inizio lì dentro è come sgorgata piano piano la familiarità di tratti che
andavano ben oltre quelle tre persone lì; per cui, quando sono uscita, non ho potuto – veramente,
lo dico proprio nella drammaticità di quel momento lì – non dire questo: «A me corrisponde molto
di più, perché è una presenza inesorabile che è dentro nel rapporto con mio figlio». Il rapporto con
mio figlio non può essere il prodotto degli antecedenti biologici che mi spiegano: «È meglio, la
natura ha già interrotto quello che…». No, è questa presenza inesorabile che determina in ultimo il
rapporto con mio figlio e mi fa dire: «Questo mi corrisponde e quando sono a casa da sola Tu sei
come me».
È successo un fatto: mia figlia la sera del suo onomastico si è arrabbiata perché mi ero attardata in
una faccenda familiare un po’ complicata, ed è andata a letto piangendo. Io, scossa, sono partita
per recuperare la situazione e sono stata con lei cinque minuti in silenzio. Mentre ero lì, però, è
emersa da dentro di me un’esigenza molto più profonda del recuperare una situazione: desideravo
essere totalmente presente a me e a lei come se lì si giocasse tutta la vita, che non può essere solo
un susseguirsi di provocazioni a cui rispondere e basta. Questo ha reso il mio abbraccio più pieno
e corrispondente a me e a lei. Tutto ciò mi ha mosso ad approfondire quello che tu con insistenza ci
stai dicendo, e ho riletto più volte la Giornata d’inizio anno con il desiderio di scorgere nelle
parole il loro contenuto. È impressionante che mi soffermavo su tanti passaggi che prima non
avevo colto. Di questo fatto mi colpisce la dinamica: entrando in un particolare, ti accorgi di una
crepa nel cuore che ti spinge ad andare più al fondo, ma questa crepa nasce e si alimenta da un
fatto eccezionale, come la scorsa Scuola di comunità, da cui sono uscita totalmente ribaltata
(perché ho percepito una cosa immensamente più grande rispetto a ciò che potevo aver capito, e
questo è segno inconfondibile del Mistero). Non sono tornata a casa come prima, ma arricchita dal
desiderio di scoprire di che cosa si trattava, verificandolo nei giorni successivi. Mi sono accorta di
essere cambiata, per due ragioni. Primo: tempo fa un fatto così o passava inosservato oppure
veniva registrato da me, ma rimaneva come sospeso, perché lo giudicavo una particolare
sensibilità o un momento di espansività sentimentale; adesso quel fatto accaduto è stato l’emergere
del cuore, e quindi il cammino esaltante alla riscoperta dell’io. Il secondo motivo per cui mi sono
accorta di un cambiamento è stato che comincio a scorgere di più il Mistero e la Sua compagnia
attraverso quella crepa del cuore che Lui provoca e approfondisce attraverso fatti eccezionali come
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l’essere qui alla Scuola di comunità. Desidero anch’io sinceramente rimettermi a imparare ciò che
penso di aver già capito e che quindi ho già chiuso, perché del già saputo non me ne faccio niente
per vivere.
«Un cammino esaltante che mi fa scorgere sempre di più il Mistero».
Il mese scorso hanno ricoverato mio figlio in ospedale per fare degli accertamenti relativi alla sua
malattia. Sono entrata in ospedale e ho guardato a quella settimana che avevo davanti come
un’occasione perché potessi verificare la mia fede, con il desiderio di vedere come in quei giorni il
Mistero mi sarebbe venuto incontro e con il desiderio di fare esperienza del mio rapporto con Lui.
Ho pregato ogni giorno la Madonna e don Giussani, e sono stata davanti a quello che succedeva
con tutta me stessa, con il mio dolore, con tutti i miei desideri e le mie domande senza perdermi
nulla e chiedendo a Cristo di farmi vedere che Lui vince su tutto. E inaspettatamente è stato per me
possibile guardare e amare tutto: mio figlio che faceva gli esami, la carne sofferente dei bambini
che stavano con noi e il dolore delle loro madri. È successo quasi un paradosso: ho fatto tanta
fatica, la diagnosi che ci è stata fatta è stata peggiore di quello che ci aspettassimo, ho visto ogni
giorno il dolore innocente, eppure ho vissuto una pienezza e una felicità inimmaginabili e questo
perché ho chiesto in modo radicale il rapporto con Cristo, in ogni cosa che facevo. Mi sono accorta
che più della faccia di mio figlio e delle persone che amo, più della loro e della mia salute io
desidero Cristo e che solo nel rapporto con Lui è possibile tutta quella soddisfazione affettiva che
cerco; e per me ammettere questo è sempre un atto di grande coraggio. Posso dire di aver fatto
esperienza perché sono ancora più certa che solo Cristo riempie il cuore, nient’altro, nessun affetto
umano e nessuna salute, e che tutto può essere amato solo se è segno di Lui. Tornata a casa, è
cambiato tutto, la realtà era trasfigurata: è cambiato il rapporto con mio marito, con l’altro mio
figlio e con chi incontravo.
Grazie.
Ti racconto un fatto e do un giudizio che credo c’entri con la vicenda dell’esperienza. Il fatto è
questo: sabato abbiamo organizzato – io e alcuni amici – una serata a cui avevamo invitato don
Vergani e i suoi amici preti spagnoli a venire a fare una chiacchierata con noi. Alle sette e mezza
mi chiama e mi dice: «Don Giorgio si è aggravato ulteriormente, non riesco a venire». Io ho avuto
un po’ un contraccolpo, perché c’era tutta l’attesa ovvia di questo incontro. Forse per
l’insoddisfazione, non mi è bastato fermarmi lì, e immediatamente è stato il riconoscere la modalità
con cui il Mistero in quel momento stava entrando. Che Dio stesse prendendo in quelle ore lì uno di
noi per me era l’evidenza della sua Presenza. Perciò mi è sembrato che la maniera più adeguata,
per me, di stare davanti al Mistero...
...Cioè alla malattia e all’agonia di don Giorgio...
...fosse dire una preghiera: «Diciamo un Rosario insieme». Mi ha colpito – e qui è anche un
giudizio che ti chiedo – perché da sabato a oggi ho avuto due riscontri completamente diversi e mi
ha impressionato: i nostri dicevano in gran maggioranza che la serata era andata male, e gli
“invitati” (tra cui persone con tanti pregiudizi verso il movimento) erano contentissimi. Mi è
venuta in mente la tua battuta che con gli stessi ingredienti si fan due minestre diverse... Il giudizio
che do è duplice: decisivo non è quello che succede ma quanto io sono leale con ciò che desidero; e
non bisogna lasciare che l’immagine – anche giusta – che ho prevalga su ciò che accade.
Vedete? La stessa identica realtà vissuta in due modi assolutamente diversi. I nostri, avendo
un’immagine di come sarebbe dovuta essere la serata, hanno perso il reale; gli altri, siccome non
avevano nessuna immagine perché era la prima volta che andavano, sono rimasti colpiti. Forse ci
conviene imparare quello che pensiamo di sapere...
Oggi accompagnando don Giorgio durante il corteo mi venivano ondate di commozione con le
immagini di lui in tutti questi anni. Questa cosa mi colpiva perché mi confermava quello che avevi
detto alla Giornata d’inizio anno: che il giudizio è veramente una cosa bella e appassionante,
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perché ha a che fare con la commozione. È la possibilità di dire grazie a Gesù. Noi spesso, ho
l’impressione, confondiamo l’affezione con il sentimentalismo. Questo ci nega la possibilità di fare
un’esperienza.
Perché? Qual è la differenza secondo te tra l’affezione e il sentimentalismo?
L’affezione è un’esperienza che ti fa tornare indietro come il samaritano a dire grazie a Gesù. Non
ci può essere giudizio senza questa esperienza; se non vibriamo fino in fondo, non possiamo dare
un giudizio. Il sentimentalismo, invece, è un’impressione personale che non si scontra con un fatto,
con qualcosa che ti è accaduto che ti commuove profondamente.
L’affezione che cosa è? L’affezione in un uomo non può essere mai staccata, proprio per l’unità
dell’io, dalla ragione. Il sentimentalismo è la riduzione al mero sentimento. Cosa diceva don
Giussani del giudizio? È l’amore. Che cos’è l’amore? Un giudizio che trascina con sé tutta
l’affezione, che non ha niente a che vedere con il sentimentalismo (che è soltanto la riduzione a
riverbero sentimentale ed emotivo di qualcosa). Ma per ridurre l’affezione a sentimentalismo
occorre lasciar fuori la ragione. Ragione e affezione sono due aspetti dello stesso contraccolpo, ma
se noi li stacchiamo, allora rimaniamo soltanto nel puro riverbero sentimentale, e ci perdiamo il
meglio, perché senza giudizio non può esserci vera affezione. Il problema è – come dicevamo prima
– che davanti alla morte di un amico uno non può evitare che sia tutta l’affezione a chiedere un
giudizio: finisce tutto nel niente? Non puoi staccare l’affezione dal giudizio, quanto più gli vuoi
bene, quanto più sei attaccato, tanto meno puoi fare a meno (scusate la ridondanza) di questa
ragione.
Tu, a un certo punto, dici verso la fine della Giornata d’inizio anno che il nocciolo della questione
è Gesù, cioè che bisogna passare oltre l’insieme delle facce a cui siamo affezionati per capire che
la questione è Gesù. Questa è una domanda proprio aperta per me, perché io tendo molto a
bloccarmi sulle persone a cui voglio bene. È vera questa cosa ed è verissima se siamo leali con i
nostri amici. Cioè: se uno ci ha giocato tutta la sua affezione, se quegli amici sono davvero tutto
ciò per cui daresti la vita, allora ci sto che il nocciolo della questione è Gesù, altrimenti è un puro
nome anche questo.
No. Tu devi partire, al di là di tutto, da questo fatto: il nostro essere qui adesso lo puoi spiegare
soltanto a partire dalle facce che vedi qui? Perché il problema è che noi diamo per scontato tutto,
ma tutto! Se incominci a dare per scontato tutto... Dimmi se trovi una ragione – una ragione, una! –
per dare spiegazione della nostra presenza qui oggi, se non è quella. Per aiutarti a capire: tu perché
sei qui? Tu pensa a che percorso hai dovuto fare, che cosa ti è dovuto succedere nella vita per essere
qui questa sera. Adesso incomincia a guardare ciascuno che è qui cercando di immedesimarti con la
storia che lo ha portato a esser qui. Allora, se ti fermi solo a queste facce, tu dai ragione di quello
che stiamo vivendo? No, non lo fai, come non daresti ragione della presenza tua. Tanto è vero che
hai dovuto parlare di colui che ti ha introdotto alla fede. Allora, se noi non facciamo questo – ci
avverte don Giussani –, queste facce nel tempo scompariranno e noi ci ritroveremo stufi. Riesco a
spiegarmi? Perché ciascuno di noi è qui questa sera? Noi non lo capiamo, noi lo appiccichiamo.
Diciamo: «Gesù», e quasi nessuno ha fatto o fa di solito questo percorso. Fra di noi siamo amici, ma
se ciascuno pensa alla propria storia per dare ragione adeguata della sua presenza, allora non ci
arrestiamo all’apparenza.
Io volevo dire di un cambiamento che mi sono accorta che è successo quest’anno in me, soprattutto
a scuola. Mentre prima mi arrabbiavo con gli altri colleghi («Ma come fa a non capire!»), adesso,
dopo che sono stata un po’ su queste pagine – soprattutto quel passo de Il rischio educativo:
«Infatti lo stesso gesto con cui Dio si rende presente all’uomo nell’avvenimento cristiano esalta
anche la capacità conoscitiva della coscienza, adegua l’acume dello sguardo umano alla realtà
eccezionale cui lo provoca. Si dice grazie della fede» –, mi sono resa conto che tutto quello che mi è
stato dato è un dono; e dunque io non posso pretendere che gli altri ci arrivino. Non solo, ma se
non mi piego a quello che l’altro può capire e non metto a disposizione tutta la ricchezza che ho
ricevuto...
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L’unica forma per aiutare gli altri è renderti conto tu. Perché se tu ti rendi conto, li potrai trattare in
un altro modo, e allora sorgerà in essi la domanda sul perché li tratti così. Noi diamo al prossimo la
teoria invece di fargli fare l’esperienza! Dimenticati un attimo di lui, fai tu il percorso: che cosa è
capitato a te, in che modo è cambiato il modo di guardarlo? Perché allora se si sente guardato così –
come anche tu sei stata guardata così, e questo è quello che ti ha fatto affascinare a Cristo –, anche
lui incomincerà a fare questo. È un’esperienza, prima che una spiegazione. Il cristianesimo è un
avvenimento che o accade adesso o lo sostituiamo con una spiegazione.
Stavo andando dai miei, e mia mamma mi ha spedito un messaggio intanto che ero in macchina:
«Guarda che il don Giorgio è in coma». Non lo avevo più incontrato da dieci anni, e ci eravamo
lasciati un po’ male, arrabbiati. Allora io prima sono andato dai miei, ho mollato quello che
dovevo mollare, poi ho iniziato a cercarlo per gli ospedali di Milano, ma non l’ho trovato. Poi sono
arrivato qua, e c’era un ragazzo che io non conoscevo; gli ho chiesto: «Ma tu sai se don Giorgio è
qui?». E lui: «Sì, sali». Allora sono salito ed è venuta l’infermiera che mi ha detto: «Stai tranquillo,
perché anche la settimana scorsa mi ha parlato di te». Allora io sento presente don Giorgio adesso
perché mi vede, ahimè, mi vede bene e poi lui con me è sempre stato...
Un padre.
In questi giorni mi son sentito ricreato, perché ho sperimentato quello che dice il don Gius nel
capitolo de Il senso religioso citato prima: «Non mutevoli si riscontrano dunque idea, giudizio,
decisione».
Uno che percorre tutti gli ospedali di Milano cercando un uomo che sta morendo e con cui è
arrabbiato: che cosa vuol dire questo? Che fa tutto questo per arrivare a un giudizio. Infatti tu ti sei
tranquillizzato quando l’infermiera ti ha detto il giudizio. Quello che ti ha mosso non è stato
qualcosa di appiccicato, ma un’urgenza: io non posso fare a meno di questo. Vero o no? Questa è la
questione, altro che qualcosa di faticoso. Don Giussani ci dice che il giudizio non è una fatica, ma
una liberazione. Dobbiamo fare i conti con questo, perché se noi diciamo: «Che fatica!», e lui dice:
«Che liberazione!», beh, qualche domanda dovremmo cominciare a porcela, almeno per curiosità...
Ma non voglio finire senza leggere una lettera e rispondere. «Caro don Carrón, riesco finalmente a
scriverti perché ho trovato la modalità di esprimere quello che da settimane con difficoltà sentivo,
intuitivo. Sono un ragazzo di venticinque anni totalmente innamorato del movimento e di Cristo.
Un innamorato immaturo che il tempo e la grazia faranno fecondare secondo il disegno di Dio, un
innamorato fragile che tentenna di fronte alla durezza della realtà, di fronte allo scandalo del limite
del male. Proprio per questo sento la necessità che Cristo si riveli quotidianamente, che risolva la
mia vita, le mie paure, che superi il mio limite, che risponda alla mia domanda. Domanda che alle
volte diventa disperante, è proprio un’urgenza; e con questa fragilità e questa domanda provo a
seguire, a obbedire al movimento e ai segni che Dio mi indica. Ma negli ultimi tempi sentivo la
stanchezza del lavoro. Questo famoso giudicare, l’esperienza, la corrispondenza eccetera...
Continuavo a chiedermi: ma perché insiste così tanto su questo punto? Ma perché continua a
bacchettarci? Fino alla noia, fino a rendere quasi noioso quel che è l’avventura più entusiasmante, il
cristianesimo. E mi dicevo: va bene giudicare, va bene fare esperienza, ma il cristianesimo è un
avvenimento, è un fatto eccezionale, bisogna che accada; noi giudichiamo, lavoriamo, ma manca
come lo stupore. Dove è finito l’entusiasmo? La letizia, la bellezza? Dov’è finito il fervore di un
cammino? A me sembra quasi che ci siamo arenati su un punto di cui non riusciamo neanche più a
capire il perché. Giussani scrive: “Noi diciamo quel che dovrebbe essere o quello che non va e non
si parte dall’affermazione che Cristo ha vinto”. Allora ti chiedo: perché continuo a sentire la fatica,
quasi la noia di quel che diciamo? Perché, nonostante l’impegno, la domanda e il giudizio non
percepisco Cristo come una presenza quotidiana? Perché più che in cammino sento di essere fermo
in una fase di stallo? Sinteticamente: spesso manca la baldanza del cristianesimo che la figura di
Enzo Piccinini ha destato nella mia vita, i nostri incontri appaiono come un discorso, una dialettica
piuttosto che la comunicazione di un avvenimento presente; ha il sapore del tentativo nostalgico di
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ricordare, così diverso dal far memoria. Ti prego di aiutarmi a capire perché il tuo sguardo così
lieto, lo sguardo di Rose, Vicky, don Eugenio e altri, ancora smentisce o almeno contraddice tutto
quello che ho scritto». Non è poco cominciare a rendersi conto di questo. Mi sembra che questa
lettera esprima molto bene qual è la difficoltà in cui ci troviamo, perché è come se a ogni passo che
facciamo ci dimenticassimo tutto il resto. Ma noi per arrivare a questo «lavoro noioso» di cui scrive
il nostro amico, da dove siamo partiti? Siamo partiti da questo lavoro o siamo partiti
dall’avvenimento e dallo stupore di una Presenza che la fede riconosce? L’inizio della fede qual è
stato se non questa Presenza assolutamente affascinante? E che cosa abbiamo fatto per due anni?
Parlare di questa Presenza, parlare dei testimoni, parlare dei tratti inconfondibili di quella Presenza,
dei fatti assolutamente eccezionali. E quale problema è emerso in seguito? Che, dopo poco, tutto
questo svaniva. Vi ricordate il passaggio degli Esercizi della Fraternità? Come mai dopo tutta la
valanga di testimoni, un istante dopo, tutto svanisce? Ricordate? Non siamo arrivati qua
dimenticando quello, siamo partiti da lì e siamo arrivati a constatare come, spesso, tutto questo, un
istante dopo, svanisce. E allora, agli Esercizi della Fraternità che cosa abbiamo detto? Manca
l’umano. Se non ci mancano i testimoni, non ci mancano i fatti eccezionali, non ci manca il tratto
inconfondibile: se non manca Lui, chi manca in un incontro? Noi, il nostro umano. E per questo don
Giussani ha insistito: «Manca l’umano». Manca tutta l’implicazione dell’esperienza fino al giudizio.
Abbiamo proposto agli Esercizi della Fraternità che cosa era l’esperienza e da lì, dal lavoro fatto su
questo, è venuta fuori la riduzione che noi facciamo dell’esperienza, e siamo arrivati a questo punto.
Si capisce il percorso? Non è che siamo arrivati qui dimenticando il fascino dell’avvenimento
cristiano: stiamo cercando di non perderlo per la strada un istante dopo! Non confondiamoci.
Quando uno mi dice che la vita diventa noiosa è perché lui questo fascino l’ha smarrito già da
tempo; perché invece in altri – come il nostro amico dice alla fine della sua lettera – non è andato
perso per strada. Quando non si perde per strada? Quando non manca l’umano. E questa è la
genialità a cui ci ha introdotto don Giussani: io so che l’avvenimento presente è presente, perché è
in grado di ridestare tutto il mio umano. E come vedete, nell’esperienza che ci siamo raccontati
oggi, non è emersa non so che tipo di fatica noiosa. Davanti – per esempio – alla morte di don
Giorgio non abbiamo potuto fermarci (come invece facciamo spesso) prima di essere arrivati sin lì,
sino all’implicazione ultima dell’esperienza, al Suo volto. Perché uno possa percorrere tutti gli
ospedali di Milano, occorre un io, occorre sentire un’urgenza; senza di ciò, noi non è che perdiamo
l’urgenza, perdiamo Lui. Per questo ci aiutiamo, non per complicarci la vita, ma per non perdere per
strada il meglio di quello che noi diciamo che ci capita. Noi usiamo le parole svuotate del
contenuto, svuotate; siamo dei nominalisti, questo fa parte del nostro nichilismo, pensiamo che
dicendo la parola “giudizio” ci sia il giudizio, che dicendo la parola “impegno” ci sia l’impegno.
Abbiamo invece constatato che non è così. E per questo la difficoltà più grande – abbiamo detto alla
Giornata d’inizio anno – sta nel capire di che cosa stiamo parlando, nel capire qual è il problema. Di
questa difficoltà abbiamo tantissimi segni; o continuiamo a fare questa strada o, come abbiamo
visto, tutti i testimoni e tutta la valanga di fatti eccezionali un istante dopo svaniscono. Ma Lui c’è.
E so che c’è, se mi cambia: è, se opera. Io so che giudico perché viene trascinata tutta l’affezione.
Come avete potuto constatare, sul sito web del movimento gli appunti di questa Scuola di comunità
vengono regolarmente pubblicati (quindi mettetevi tranquilli: non avete bisogno di mandare i vostri
un istante dopo a quante più persone potete, perché è meglio per tutti se ci risparmiamo di far girare
cose brutte e dubbie!). Abbiamo deciso di farlo noi in un modo adeguato: sbobiniamo, facciamo la
correzione e li mettiamo a disposizione di tutti entro l’inizio della settimana successiva, in modo
tale da offrire un supporto veramente degno e unitario.
• Gloria

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