Milano, 9 febbraio 2011
...“La realtà, che si presenta originariamente alla nostra ragione come segno, viene ridotta al suo aspetto percettivamente immediato, privata del suo significato,della sua profondità. Per questo tante volte […] soffochiamo
nelle circostanze: quando è ridotta ad apparenza, la realtà diventa una gabbia”, in quel momento ho compreso che io innanzitutto ero di fronte a uno che stava rispondendo a me, senza lasciare fuori nulla di me, cioè stava leggendo la mia esperienza, e rispondeva alle domande con cui io ero arrivata lì, e quindi alla domanda della mia amica»....
Testo di riferimento: incontro di presentazione del libro di Luigi Giussani Il senso religioso
(Rizzoli), 26 gennaio 2011. Palasharp di Milano.
• Mare nostre
• Negra Sombra
Gloria
Cominciamo il nostro lavoro dopo la provocazione dell’ultima volta, in cui abbiamo cercato di presentare lo scopo e il metodo del nostro lavoro: il senso religioso, verifica della fede.
Mi ha molto aiutato giovedì scorso sentire il racconto di una ragazzina di Gs dopo l’incontro del Palasharp. Mi ha da subito incuriosito il fatto che per raccontarci cosa l’avesse colpita partisse da come si era alzata mercoledì mattina: triste e non desiderosa di iniziare la giornata perché da qualche giorno la sua insegnante di italiano, cui lei si è molto affezionata, era andata in maternità.
Un’insegnante – lei dice – che già nel modo di fare l’appello la provocava. Quella mattina, mentre stava cercando una scusa per rimanere a casa da scuola, si accorge che suo papà, diversamente dalle altre mattine, si era alzato molto presto. E dunque lei gli chiede come mai, il perché di quella sveglia così anticipata. Il papà risponde che siccome doveva aiutare la mamma si era alzato così presto e voleva portarsi avanti. Immediatamente lei si accorge della diversità: «Come è diverso alzarsi al mattino se qualcuno ti ama. Se uno si sente amato, la mossa è sempre positiva, tanto che ti alzi presto».
Il pensiero torna subito alla sua prof e a quell’appello il cui valore era stato sempre di ricordarle ogni giorno che lei era amata. E allora dice: «Ma quello che ho incontrato con la mia prof c’è ancora, è vero; allora adesso che non c’è lei l’appello sono io». Allora quella mattina prende una scatola di cioccolatini e va a scuola, e comincia a distribuirli alle sua compagne. La prima è quella che le ricorda che la sera sarebbero andate insieme all’incontro. La seconda le fa questa domanda: «Senti, ma come si fa secondo te a non sentirsi schiacciate quando le cose non vanno come vuoi tu?». Allora arriva al Palasharp la sera con questa domanda, tutta trafelata un
po’ per lo sciopero dei mezzi e un po’ perché aveva dovuto discutere con la sua famiglia perché non volevano farla andare. A un certo punto, si domanda: «Ma io perché sono qua adesso?». E risponde: «Con sorpresa quando ho sentito dire queste parole: “La realtà, che si presenta originariamente alla nostra ragione come segno, viene ridotta al suo aspetto percettivamente immediato, privata del suo significato,della sua profondità. Per questo tante volte […] soffochiamo
nelle circostanze: quando è ridotta ad apparenza, la realtà diventa una gabbia”, in quel momento ho compreso che io innanzitutto ero di fronte a uno che stava rispondendo a me, senza lasciare fuori nulla di me, cioè stava leggendo la mia esperienza, e rispondeva alle domande con cui io ero arrivata lì, e quindi alla domanda della mia amica».
Questo che hai raccontato risponde a tante lettere e reazioni davanti all’incontro del 26 gennaio.
Leggo questa lettera come sintetica di alcune reazioni: «Caro Julián, ho deciso di scriverti perché la
presentazione dell’altra sera è stata davvero faticosa; non riuscivo a seguirti. Inoltre, avendo invitato
alcuni amici nuovi, mi sono ritrovata a immedesimarmi in loro e questo, probabilmente, ha generato
tutta una serie di preoccupazioni che forse hanno impedito di ascoltarti in modo libero. Finito
l’incontro, mi sono trovata di fronte a due categorie di persone: alcuni che condividevano
totalmente la mia posizione anche in modo scocciato. Essi si chiedevano: “Ma perché ha parlato in
modo così ostico di fronte a tante persone nuove, di fronte a degli studenti così giovani?”. Però ho
trovato di fronte a me anche tante persone che sono uscite sorprese, e che di fronte alle difficoltà
delle tue parole hanno iniziato un reale lavoro, si sono lasciate provocare e non (come me) si sono
fermate a dare un giudizio e a prendere una distanza. Non sopportavo, e non sopporto tuttora,
sentire parlare le persone di questa seconda categoria, ma in fondo desidero profondamente la loro
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posizione. Allora ti chiedo: cosa deve avvenire o cosa non è avvenuto in me per fare il passo che
tanti hanno fatto, e cioè lasciarsi provocare da quello che ci hai detto e starci di fronte e non far
vincere il mio giudizio che non sta muovendo nulla? Sento di essermi un po’ incastrata. E
soprattutto desidero questa semplicità e questa apertura di fronte alle cose che non capisco, non
condivido, istintivamente». Mi sembra che questa lettera sia sintetica delle difficoltà davanti al fatto
che abbiamo vissuto insieme. Anche la difficoltà sentita, o l’essere incastrati, non spegne il
desiderio di avere questa semplicità che uno vede negli altri. Il fatto che i ragazzi – come abbiamo
sentito: sedici anni! – abbiano percepito così immediatamente le cose, che cosa dice di tutte le
nostre obiezioni? È come se tutte crollassero davanti ai nostri occhi, perché non è un problema di
intelligenza, non è un problema di capacità, non è un problema di studio, di essere più istruiti per
capire. Rispondo a questo con altre due lettere. Uno mi scrive: «Io ti comunico il mio contraccolpo
alla presentazione. Mi sono sorpreso assolutamente non preoccupato per non aver capito tutto dal
punto di vista intellettuale, e neppure lo ero rispetto all’amico che avevo invitato. Anzi, quasi
paradossalmente, proprio quel deficit di comprensione ha fatto prevalere in me il desiderio di
guardare l’insondabile che mi si parava davanti. Anche io ho raccolto le reazioni deluse di alcuni
amici che dicevano: “Difficile”, o: “Non si capisce”, ma a mia volta ho reagito sottolineando come
questa pretesa, che in alcuni casi ho scoperto come ansia e angoscia, aveva fatto e faceva
letteralmente fuori l’avvenimento che avevano davanti, e impediva di addentrarsi
nell’entusiasmante cammino di conoscenza vera a cui sei sollecitato quando, appunto, impatti con il
Mistero. Come sempre è una questione di metodo. Infatti mi ha colpito il tuo richiamo a “mettere a
fuoco la conseguenza del rifiuto del metodo scelto da Dio per rispondere alla esigenza di significato
totale dell’uomo propria del senso religioso: «Senza il riconoscimento del Mistero presente la notte
avanza, la confusione avanza e […], la ribellione avanza, o la delusione colma talmente la misura
che è come se non si attendesse più niente”. Stare di fronte al Mistero, invece, è tutta un’altra cosa:
spalanca l’orizzonte della conoscenza, e quindi ti rende lieto e più baldanzoso rispetto al reale.
Guardando anche alla mia esperienza passata, il pericolo inerente alla pretesa del capire è quello di
ottenere la ricetta pronta per il vivere. Un’illusione che cade presto miseramente nell’impatto con la
realtà, proprio perché ti impedisce di iniziare e blocca quel percorso di conoscenza cui tu ci hai
chiamato a partire dall’incontro. Tornando al contraccolpo personale di quella serata, ti ripeto che
ero assolutamente entusiasta della prospettiva del cammino proposto, desideroso e ansioso di
scoprire che cosa si sarebbe potuto svelare durante il percorso e certo di una convenienza personale
che tu ci testimoniavi in quel momento. La forza propellente del testimone è eccezionale, basta
guardarla con semplicità». Questa non è una cosa da poco, guardate che cosa dice don Giussani
descrivendo Giovanni e a Andrea: «Loro non capivano [non dice che capivano: non capivano!],
erano semplicemente afferrati». Che cosa vuol dire capire? Quando hai capito meglio la tua morosa,
quando ti hanno raccontato dei dati su di lei prima di conoscerla o quando ti sei sentito afferrato
dalla sua presenza in carne e ossa? E per essere afferrato occorre qualcosa in più delle istruzioni,
occorre quella semplicità che si lascia attrarre da qualcosa che sta davanti. Questo è decisivo,
perché altrimenti noi potremo capire soltanto quello che già abbiamo deciso di capire. Giovanni e
Andrea erano due popolani – dice Giussani –, insieme a loro erano lì tanti farisei, pubblicani che
erano forse più istruiti, ma soltanto due sono stati afferrati. Questa è la differenza. Per anni abbiamo
ripetuto certe frasi o la logica di un pensiero (e forse l’abbiamo fatto consapevolmente,
coscientemente), ma quante volte siamo stati afferrati? I ragazzi possono avere una semplicità che a
noi tante volte sfugge. Dice, infatti, un’altra lettera: «Volevo raccontarti quale è stata la mia
immediata reazione dopo il Palasharp. Siccome sono un’insegnante, avevo invitato alcuni alunni
che però, alla fine, non sono venuti. “Che fortuna”, mi sono detta, “come avrei potuto invitarli
altrimenti al triduo o in vacanza?”, non mi avrebbero più creduto. Mi era sembrata, infatti, una
lezione difficile da seguire, anche per me, che penso di conoscere Il senso religioso. Poi domando a
quelli di Gs quali sono le loro impressioni. Ero certa che mi sarei trovata di fronte al mutismo dei
ragazzi, e mi stavo preparando a tenere una nuova lezione, magari più semplice della tua. Cosa,
invece, è accaduto? Prima di tutto nessuno ha detto che era difficile. Dopo aver dato la definizione
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di senso religioso, un ragazzo dice: “Se non ho capito male, si intende il prendere in considerazione
tutte quelle domande che abbiamo e vedere dove possono trovare risposta”. Sono partite le
domande, ognuno riferendosi alla propria esperienza; la più gettonata è stata: come si impara?
Eccoli: desiderosi di fare un percorso. Mentre accadeva tutto questo, mi sono sentita ridicola. Alla
fine ero veramente grata e desiderosa di andare a casa a riprendere tutta la lezione con lo stesso
sguardo che avevano avuto loro. Non avevano di sicuro la preoccupazione di capire per ridire,
volevano soltanto vederlo accadere. L’ho riletto con le loro facce davanti e mi è sembrato tutto
nuovo [è questo che occorre per introdursi, occorre star lì con le loro facce davanti, perché allora
tutto è nuovo; lo abbiamo detto tante volte, ma come una frase vuota: “Nelle nostre mani i codici,
nei nostri occhi i fatti”]. Ho cominciato a intuire la novità che hai introdotto: il senso religioso come
verifica della fede. La fede è riconoscere una Presenza ora, attraverso la contemporaneità di Cristo,
la Sua contemporaneità mi era data dalle loro presenze [dai ragazzi: il Signore ha pietà del nostro
niente, della nostra incapacità e ci risponde, non con un’altra lezione (come lei voleva), bensì
facendo accadere, dandoci un testimone, uno che è stato afferrato], dal modo semplice con cui sono
stati di fronte al fatto [è di questo che abbiamo bisogno per stare davanti a tutto, che riaccada un
evento che ci ridesta l’umano, perché lei stessa, che non aveva capito, adesso, dopo aver visto i suoi
ragazzi, comincia a capire; è diventata intelligente di colpo e prima era scema?]. Non volevo
perdere nessuna occasione per verificare la certezza della vittoria della fede su qualsiasi situazione,
e ho cominciato ad andare a scuola guardando quello che mi faceva accadere e prendendomi la
responsabilità di fronte a tutto senza paura di sbagliare [no, non siamo scemi, è che per entrare nella
conoscenza di quello occorre la Sua contemporaneità, e non detta come una formula o come una
logica, ma come un fatto che accade attraverso la carnalità dei ragazzi: come all’inizio del
cristianesimo, letteralmente, come ha descritto Giussani]. Questo mi ha permesso di stare di fronte a
un ragazzino che vive un disagio familiare con una grande libertà (l’ho provocato perché tirasse
fuori la sua domanda più vera), o di rimanere davanti alla mia amica malata di tumore da anni senza
sentire il peso di quella condizione o, peggio ancora, dell’ingiustizia. Con l’incontro ci è stata
donata la certezza che è solo Lui che compie la vita, e questa sta – non possiamo sempre rimetterlo
in dubbio perché siamo adulti –, ma senza la contemporaneità non ci cambia! E questa è una grazia
che va chiesta e, nonostante noi, accade anche quando meno te lo aspetti». Per questo è importante
che la lezione del Palasharp – non voglio giustificare di averla fatta così – sia l’occasione per
individuare dove sono le difficoltà e per poter vedere cosa succede, che cosa vuol dire capire.
Perché non è un problema di comprensione, la lezione era semplice: guardate, senza che riaccada
l’Avvenimento non si ridesta l’io e non capiamo niente. Semplice. Si capisce? Semplice, perché è
quello che dice don Giussani quando risponde a Scola, nel brano che ho citato: «Il cuore della
nostra proposta è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo
stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori.
Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso [di
qualsiasi grado d’istruzione]. È la percezione di questo avvenimento che resuscita o potenzia […] il
nucleo di evidenze originarie cui diamo il nome di “senso religioso”». Semplice. Senza questo il
cristianesimo non è ragionevole, perché non è in grado di ridestare la vita. E Allora perché dovrei
essere cristiano? Invece, quando accade, è semplice, come vediamo. Così è semplice.
Di quello che hai appena detto (proprio di tutto) sono stato spettatore nel rapporto con un collega
che da sei mesi si è trasferito ed è venuto nella mia sede. E da quando si è trasferito non ci molla,
non ci molla, è sempre lì che ci chiede: «Ma andiamo a mangiare insieme? Facciamo questo,
facciamo quello?», con gli occhi sgranati. Una settimana prima dell’incontro su Il senso religioso
mi dice: «Ti devo raccontare una cosa. Sai, ieri sera sono tornato a casa, io ho due figli e quando
siamo a cena chiedo sempre loro: “Cosa avete fatto di bello oggi?”, e i bambini mi hanno
raccontato le cose belle che hanno fatto. E poi dopo loro chiedono a me: “Papà, ma tu cosa hai
fatto oggi?”». E lui, tutto contento, ha detto: «Io oggi ho mangiato con una mia collega». La
moglie si irrigidisce: «Eravate tu e lei da soli?», e lui: «Eh sì, gli altri amici non son potuti venire,
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eravamo io e lei da soli». Finita la cena, la moglie lo vede che gioca con i bambini e gli dice tutta
stupita: «Certo è che, per come ti vedo giocare con i bambini, tu con quella collega devi andare a
mangiare tutti i giorni!». Io sono rimasto colpito e gli ho detto: «Devi invitarla all’incontro del
Palasharp!». E lui che mi dice (è un ragazzo timido): «Guarda, ci provo ma non so». Insomma, sua
moglie accetta. Il giorno dopo lui mi racconta: «Sai cosa è successo ieri? Mentre venivo con mia
moglie – eravamo in macchina –, lei inizia a dirmi: “Però io e te non usciamo mai da soli, mai, una
volta che possiamo uscire, dai ciellini mi devi portare! E poi, perché stiamo andando lì?”. “Dimmi
tu perché stiamo andando lì”. E lei: “Perché tu non sei più tu”. Poi ci avviciniamo al Palasharp e
lei dice: “Il Palasharp! Io l’ultima volta che sono venuta qua era due anni fa alla Festa
dell’Unità”. Entriamo e lei che è un’insegnante vede tutto questo silenzio e mi chiede: “Perché
tutto questo silenzio?”. E io: “Guarda, ci hanno detto all’ingresso di fare silenzio e quindi si fa
silenzio”. E quando Carrón ha iniziato a raccontare di Giovanni e Andrea, lei mi ha dato di
gomito: “Questo sei tu, perché tu sei sempre tu, ma adesso sei più tu”». Questo per dire che
riaccadono oggi – oggi – gli stessi tratti inconfondibili di allora: ciò di cui abbiamo bisogno.
Semplice.
Per tanto tempo mi sono chiesta: ma questo senso religioso che cos’è? Che cos’è per me? Però non
ho mai voluto scervellarmi per capire a tutti i costi. Ora volevo raccontare ciò che sto vivendo per
capire se ci sono vicina o se sono ancora lontana anni luce. Sono nel movimento da quasi quindici
anni, ma è come se l’avessi incontrato solo tre anni e mezzo fa. E su questo mi ricollego a una cosa
che hai letto del Gius: questa sorpresa dei poveri pastori è la mia sorpresa, e mi rimanda al mio
incontro. Spesso ho sentito che dell’incontro ricordi il giorno e l’ora, e mi sono sempre arrabbiata
perché se mi avessero chiesto quando avessi fatto l’incontro non sarei stata in grado di dirlo, mi
sforzavo ma non mi veniva in mente nulla. Ora, invece, posso dire il momento in cui ho sorpreso
finalmente Cristo all’opera: il 29 settembre del 2007, alla Giornata d’inizio anno, che è stata la
svolta di tutto. Ho sentito le tue parole rivolte a me, non più a questo o a quello (perché spesso
quando sentivo le cose dicevo: «Chissà se questa cosa l’ha sentita quello lì, perché era una cosa
per lui»). In quel momento, invece, c’ero io davanti al Mistero, ho avuto la percezione di dover
uscire dal gruppetto di Fraternità che mi stava un po’ stretto e mi sono resa conto che la Fraternità
era una sola, il resto era solo un aiuto. Questa decisione mi ha spalancato al mondo. È come se
prima, per più di dieci anni, avessi avuto la cataratta e poi, con un banale intervento, l’incontro
fatto, avessi potuto vedere tutto limpido, di una bellezza incredibile. E ho scoperto che Cristo, che
per anni volevo vedere a tutti i costi sforzandomi di capire, era lì come quando Lo sentivo presente
da piccola nella mia famiglia; solo che ora Lo riconoscevo come presenza viva e non come
sentimento moralista. Anche io, come Andrea, sperimento finalmente i segni del mio risveglio
umano e, pensandoci, non posso non commuovermi. Mai mi era successo di lavare, stirare,
cucinare, pulire la casa eccetera, non per dovere (perché devi avere la casa pulita, per il marito,
per i figli), ma per me, perché ho scoperto che è bello, in quello che faccio, pensare al rapporto
dipendente con un Altro che mi fa. La dipendenza totale da Lui mi fa capire che non sono io a fare
le cose, ma è un Altro che opera attraverso di me, si serve di me, di me così piena di limiti. Che
commozione! Questa dipendenza mi è stata chiarita grazie a una cara amica che, di fronte alla
grande decisione di rispondere a una proposta di adozione di un bimbo down, mi ha detto che il
disegno di Dio c’era già e che se quel bimbo doveva venire da noi, sarebbe venuto. All’inizio, dopo
aver detto di sì avevo quasi la pretesa dell’esito, perché se avevo detto di sì per una cosa così
grande, sicuramente sarebbe arrivato. Invece più passavano i giorni, più mi rendevo conto di
dipendere e non più di pretendere. E così, quando ci è stato detto che il bimbo era stato assegnato a
un’altra famiglia, non ci sono rimasta male. Dopo però, quasi quasi, pensavo che aver detto un sì a
Dio senza avere l’incombenza di dover seguire quel figlio per tutta la vita mi faceva dire: «Che
bello, ho guadagnato dei punti senza far fatica». E così ora, a distanza di due mesi, Dio si rifà vivo,
ed ecco una richiesta dalle Famiglie per l’Accoglienza quasi identica alla prima, ancora un bimbo
down da adottare. Così abbiamo riconfermato il nostro sì, ma con una certezza più grande: che io
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non faccio nulla, non può essere opera mia, non ne sarei assolutamente in grado. Ma chi me lo
farebbe fare? E anche questa è una conseguenza del cambiamento che mi è avvenuto, generato dal
rapporto con Cristo presente. Come dice san Paolo, se uno è in Cristo è una creatura nuova, e le
cose vecchie sono passate, ne sono nate di nuove. Mi sento quasi indegna, ma grata di essere stata
scelta per diventare creatura nuova.
Grazie. Questa è la novità che nasce dall’incontro: toglie la cataratta, perché è una Presenza così
viva che risveglia l’io. E si vede in tutti i fatti che hai raccontato, dal pulire allo stirare, al cucinare,
perfino all’accoglienza di un figlio down.
Quello che tu hai detto alla presentazione de Il senso religioso mi ha chiarito un incontro che ho
fatto. Quando facevo il liceo, c’è stata una persona che è stata decisiva per me, per l’umanità che
aveva, per la vivacità umana che si portava addosso, per le cose che mi ha fatto capire, che mi ha
fatto leggere. Poi è stata decisiva perché io mi accorgessi di Cristo quando L’ho incontrato. Io ho
incontrato il movimento e l’ho seguito, lui no. Mi ha fatto impressione che ci siamo rincontrati
dopo quasi trent’anni, e io sono rimasta come ferita dal fatto che la sua umanità non era più quella
di allora, si portava addosso come uno scetticismo che io non ho. E lui è rimasto così colpito da
questo, come me, che a un certo punto mi ha detto: «Tu, perché sei cambiata, sei rimasta la stessa.
Io, perché non ho voluto cambiare, non sono più lo stesso». Questo è stato un incontro da cui io
sono stata assolutamente commossa, perché mi sono accorta come non mai che il centuplo
dell’incontro con Cristo è la mia umanità che resta fedele a se stessa, è la possibilità di non
perdere me, è la voglia di vivere che mi ritrovo ancora addosso a cinquant’anni e che quelli della
mia età hanno perso. E questo a me fa impressione, perché io mi accorgo che Cristo è
contemporaneo perché fa vivere il cuore, non perché divento più buona. E viceversa, io mi accorgo
che tratto Cristo come una cosa che so, come una cosa ovvia – Cristo non è più una presenza
contemporanea, ma un contenuto di cui parlo sempre e che non accade mai –, quando cerco la
verifica della fede nella morale, cioè in quello che faccio e non in quello che sono.
«Perché sei cambiata, sei rimasta la stessa». Se siamo disponibili a questo cambiamento, rimaniamo
con questa giovinezza che diceva Ada Negri: «Un’altra sei, più bella».
Volevo farti una domanda; tu hai già iniziato un po’ a rispondere, però mi rimane come obiezione e
se non la faccio fuori con te, rimarrà. Volevo che tu chiarissi che cosa significa «una sequela
intelligente e affettiva» del movimento. Mi accorgo nella mia esperienza, anche per quello che è
stato detto, quanto sia fondamentale il fattore affettivo nel mio incontro con Cristo affinché questo
rapporto non sia un semplice intellettualismo fatto di tante immagini o un’astrazione che non è in
grado di cambiare la vita, ma un rapporto reale che porta a fare esperienza di completezza. Mi
vengono in mente tanti esempi, però taglio corto. Il problema è che io percepisco l’accadere di
questa affezione come qualcosa che non è nelle mie mani, che non dipende da me; deve accadere
questo fascino affettivo, ma io su questo accadere non ho nessuna responsabilità, posso svegliarmi
la mattina e desiderarlo, ma che accada con il carattere e il tenore di realtà perché cambi la mia
esistenza tutti i giorni, questo non dipende da me. Ma allora ti domando: cosa vuol dire quando tu
dici: «Se non vogliamo essere consenzienti con il potere dobbiamo seguire il movimento in modo
intelligente e affettivo»? Io dico: questa affezione non dipende da me, vorrei…
Questa affezione dipende da te. Non dipende da te generare il fatto, ma riconoscerlo e aderire a
quello che riconosci, sì. Non dipende da te trovare la ragazza a una festa in cui non pensavi di
trovarla, ma quando la trovi e sei lì attaccato, non puoi venire via dallo stupore, tanto ti attira la sua
bellezza. Il cedere a questa attrattiva, a questa sequela intelligente e affettiva: questo è tuo. Che lei
ci sia, no; che tu aderisca a quell’attrattiva che il Signore ti mette davanti, sì. La questione allora è
che noi sempre di più siamo educati a quel senso religioso che ci consente di cogliere la Sua
presenza. Per esempio, questa sera hai sentito tante cose. Adesso io ti chiedo: che cosa vuol dire una
sequela tua intelligente e affettiva oggi, davanti a quello che hai sentito? Dove L’hai riconosciuto
presente, in che cosa hai riconosciuto la Sua contemporaneità, non come una parola: «Ma guarda,
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ma quello che ha detto questo qua è impossibile senza di Lui», e ti sei commosso? E questo da che
cosa dipende? Non dipende dal fatto che non succeda, perché tutte queste cose che abbiamo sentito
questa sera sono impossibili, come tu dicevi: è impossibile. Che accada non dipende da te, ma che
uno sia in grado, sia disponibile, si renda conto di questo, dipende da quella semplicità di cui
parliamo. Io ti dico che la novità che sempre più percepisco nella mia vita è proprio questa, che di
tante cose che succedevano davanti ai miei occhi, prima non mi rendevo conto, adesso è come un
sobbalzo. Cosa vuol dire questa intelligenza che sa cogliere la Sua presenza nei piccoli gesti, e che
gli interventi di stasera ci hanno testimoniato in molti modi? È quello che dice don Giussani di
Giovanni e Andrea. Per noi l’intelligenza è qualcosa di complicato, tante volte è una ragione che
spiega, invece don Giussani dice che il culmine della ragione è una ragione che si apre, tanto è vero
che il problema dell’intelligenza è tutto lì, in Giovanni e Andrea. Questo è educarci al senso
religioso. E tu ti educhi al senso religioso rispondendo con tutta la tua intelligenza e con tutta la tua
affezione a quello che accade davanti ai tuoi occhi. E questo è tuo: come aderire, come seguire,
come cedere all’attrattiva. Tu puoi tagliare: «Adesso no, perché mi complica la vita»; tu puoi
tagliare o puoi cedere. Che tu ti senta attratto non dipende da te; ma cedere dipende da te. È facile, è
facile, basta solo cedere, ma questo cedere è tuo. Questa è la tua grandezza, questa è la tua dignità,
questa è la tua grandezza umana a cui il Mistero si piega, non vuole sorpassarti. Noi, allora, ci
educhiamo non perché “pensiamo” al senso religioso, ma perché diventiamo sempre più semplici
davanti a questo accadere, senza ma, senza però, senza bloccare l’attrattiva, ma cedendo
costantemente alla Sua presenza.
Un aspetto che mi ha molto colpito rispetto a due settimane fa è quando tu ci hai fatto la proposta
di rileggere Il senso religioso a partire dalla verifica della fede. Questo mi ha colpito perché, in
tanti anni di vita nel movimento in cui ho fatto Il senso religioso in varie riprese, questo aspetto non
l’avevo mai considerato, non ci avevo mai riflettuto, non l’avevo colto. Questa questione genera un
dinamismo impressionante nella vita, perché provoca una verifica nella vita concreta della Sua
presenza. Quella sera lì posso dire di aver fatto la stessa esperienza di Giovanni e Andrea in modo
misteriosamente diverso, perché chi, quella sera, ha potuto parlarmi in un modo così
corrispondente, in modo così amorevole, in modo così profondo, conoscendomi addirittura più di
quel che io pensavo di conoscermi, se non la Sua presenza attraverso il carisma cioè attraverso lo
spazio che tu (io debbo dire di aver riconosciuto questo) hai lasciato quella sera alla Sua
presenza? E questo ha generato nei giorni scorsi un ribollire del cuore e della vita, un modo
diverso di guardare le circostanze, per esempio i miei colleghi di lavoro, che non sono tutti
simpatici e con i quali c’è anche un contrasto, una lotta. Ma li ho guardati finalmente in modo
familiare, perché costituiti della stessa cosa di cui sono costituito io. E, paradossalmente, la mia
distrazione, di cui la mia giornata è piena, contro cui io lotto in continuazione ma producendo
poco, viene intaccata da questo fatto, e così inizio a poter guardare la realtà in un modo vero così
come io, anche per effetto di questo limite, non riuscirei a guardare.
La stessa identica esperienza: perché se non fosse così, il cristianesimo non continuerebbe. Una
cosa sarebbe quel che hanno avuto Giovanni e Andrea, e un’altra cosa quello che facciamo noi. Non
potremmo verificare la fede, sarebbe un’altra cosa quella che staremmo qui a verificare, non la fede
cristiana così come si è rivelata nella storia.
Faccio il consulente informatico. Qualche mese fa sono andato in un ufficio e c’era un quadro che
mi ha molto colpito: erano due pezzi di legno colorati in modo diverso, uno era azzurro, uno era
verde, accostati l’uno all’altro, e la linea che formavano era verticale. A legare queste due forme
c’era un laccio di scarpe, anche abbastanza lacero. Allora ho chiesto di chi era quel quadro e poi
sono andato a conoscere il pittore, un signore che lavora nella ragioneria della stessa struttura. E
lui mi ha detto che quelle erano due forme diverse, come il corpo e l’anima, il mare e la terra, e
quel laccio era il suo tentativo di appiccicargli un significato, di legarli insieme. Allora la prima
cosa che mi è venuta in mente è stato Congdon. Congdon da un certo momento incomincia a fare i
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quadri con una linea, ma questa linea è orizzontale e divide il cielo dalla terra, e quella linea lì che
li divide e li unisce è Cristo. Mosso da questa cosa, gli ho regalato il libro su Ermanno lo storpio,
appunto per dirgli che ciò che mi rende possibile la verità e la bellezza della vita è Cristo. Da lì ho
desiderato che in ogni circostanza potessi entrare in rapporto con gli altri non nascondendo il mio
essere cristiano. Questa cosa mi fa venire in mente la frase di Alexis Carrel che c’è scritta nel
primo capitolo del libro: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta
osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Osservare non è semplicemente vedere;
molte volte il mio capo in ufficio mi dice: «Sei una rottura di scatole, perché quando vanno gli altri
non ci sono problemi, quando vai tu ci sono». Probabilmente perché osservo troppo. Allora il
problema è: ma perché uno osserva troppo? Perché uno è mosso così? Ogni cosa – io lo faccio
sulla contabilità – per me è come se dichiarasse questa bellezza; il fatto che una cosa sia storta,
venga male, di fatto è una minore bellezza. La cosa di cui mi sto accorgendo è che l’unica cosa che
può permettermi di mantenere viva questa osservazione è la preghiera. Però, molto spesso, ho in
me sentimenti contrastanti rispetto alla preghiera (e li vedo anche nei miei amici), cioè sento la
paura, la vergogna, a volte anche la rabbia: «Ma perché devo pregare Te?». Però capisco che
senza un rimanere aggrappato con le unghie e con i denti a quello, uno non….
In che cosa ti ha corretto la Scuola di comunità di stasera?
Che cosa mi ha corretto?
Come se niente fosse accaduto durante tutto il percorso di questa sera!
Il punto è che…
Tu, in quello che dici, stai partendo dal senso religioso o stai partendo dalla fede?
Cosa intendi dire?
Appunto. Rilancio la domanda, perché che cosa abbiamo detto che è quello che desta l’io? Un
incontro, cioè la Sua presenza, capisci? E la domanda che dobbiamo fare è di riconoscerLo. Qual è
l’origine della preghiera? Che noi siamo lì tutti tesi con questo desiderio, con questa domanda di
riconoscere Lui all’opera, come Giovanni e Andrea. Questo è decisivo perché altrimenti, come dici
tu, pregare è staccato dalla Sua presenza ora. La preghiera è domanda e supplica di questo, è
memoria, cioè riconoscimento della Sua presenza che ci ridesta ora. Per questo la forma in cui tu sei
ridestato a lasciar cadere la cataratta è riconoscere quella presenza storica che è la risposta alla
nostra preghiera che si chiama Cristo, contemporaneo qui e ora, il quale ti dà la possibilità di
guardare tutto in un modo diverso. Chiaro? Grazie.
Abbiamo già cominciato a intravedere qual è la promessa del percorso che stiamo per incominciare.
La prossima volta cominciamo con la prima premessa: «Realismo». Con le tre premesse don
Giussani ci fa capire quali sono i fattori decisivi di una vera conoscenza – come dicevamo adesso –,
di un vero rapporto con il reale, in modo tale da conoscerlo, come diceva prima una persona:
«Desidero tanto questa semplicità, questa apertura che mi consenta di cogliere il reale». E qual è il
metodo che don Giussani ci propone? Lo possiamo dire sinteticamente: il cammino al vero è
un’esperienza. Il metodo che lui ci offre è l’esperienza, e noi dobbiamo essere consapevoli di questo
perché di solito, come dice don Giussani, la maggior parte delle persone si affida, per rispondere
alle preoccupazioni che ha, a quello che dicono gli altri: Aristotele, Platone, Kant. E noi possiamo
aggiungere anche: don Giussani. Ma questo sarebbe contro il metodo imposto proprio da don
Giussani, perché don Giussani ha detto ai ragazzi fin dalla prima ora di religione: «Non sono qui
perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per
giudicare le cose che io vi dirò». Questa è l’impostazione, cioè il metodo che lui ci propone:
l’esperienza. Immaginate che cosa significherebbe per ragazzi di sedici anni il fatto che un
professore desse loro il metodo per giudicare perfino quello che lui stesso dirà! Nessuno fa questo.
Che esaltazione dell’umano e che certezza che quello che lui dirà sarà vero! Potranno riconoscerlo
loro. Ma lo riconosceranno soltanto se useranno questo metodo, perché questo metodo non è “un”
metodo tra gli altri, ma è “il” metodo, perché l’esperienza, come dice don Giussani, è l’emergere
della realtà alla coscienza dell’uomo, è il divenire trasparente della realtà. Per esempio, se
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dobbiamo capire che cos’è l’amore, il Signore non ci fa una lezione sull’amore, ci fa nascere in una
famiglia o ci fa innamorare. Per farci capire che cos’è il risveglio dell’io, si fa carne, si fa
incontrare, come abbiamo sentito oggi, perché altrimenti non avremmo saputo di che cosa stiamo
parlando.
Per questo noi dobbiamo essere “feroci” – e vi giuro che io lo sarò – su questo metodo, perché
altrimenti di venire qui a sentire i pensieri degli uni o degli altri o miei non ci interessa niente; ci
interessa che ognuno che interviene racconti un’esperienza. Per questo, per poter fare un’esperienza
occorre – come vedremo bene – un criterio che è il cuore, e quanto più sarà cosciente di queste
esigenze ed evidenze originali, tanto più saprà giudicare, e questo giudicare sarà l’inizio di una
liberazione, di una novità nella vita, perché cominceremo a capire.
Allora vi propongo una traccia per il lavoro di questi quindici giorni – perché non si potrà più
intervenire se non ci si sottomette al metodo dell’esperienza –: quando avete fatto esperienza,
quando vi è capitato di sorprendere questa liberazione in un giudizio? Don Giussani dice, infatti,
che giudicare è l’inizio della liberazione.
Scuola di comunità. Si terrà mercoledì 23 febbraio alle ore 21.30 sul capitolo primo «Prima
premessa. Realismo» (da p. 3 a p. 15).
Ricordo che la partecipazione a questa Scuola di comunità è totalmente libera, come ho detto
sempre. Se ciascuno percepisce che c’è un altro luogo che lo facilita di più, deve seguirlo. In
secondo luogo, questo incontro non sostituisce i gruppi già esistenti di ripresa della Scuola di
comunità. Ripeto: questa è una proposta libera, ma tutti coloro che vogliono devono essere in grado
di potervi partecipare.
In tutto il mondo in questo periodo verranno celebrate le Messe per il VI anniversario della morte
di don Giussani e il XXIX del riconoscimento pontificio della Fraternità, riconoscimento
incoraggiato e approvato da Giovanni Paolo II.
Quest’anno la gratitudine a Dio è ancora più grande per la beatificazione di Giovanni Paolo II,
come ho scritto nella lettera a tutta la Fraternità ricordando anche il suo profondo legame con don
Giussani. Nella lettera ho scritto – tra l’altro – che «non possiamo trovare un modo più adeguato di
mostrare questa nostra riconoscenza che continuare a seguire il suo autorevole richiamo: “Non
permettete mai che nella vostra partecipazione alberghi il tarlo dell’abitudine, della ‘routine’, della
vecchiaia! Rinnovate continuamente la scoperta del carisma che vi ha affascinati ed esso vi
condurrà più potentemente a rendervi servitori di quell’unica potestà che è Cristo Signore!”».
Sul sito di CL potete trovare l’elenco delle città dove verranno celebrate le Messe. A Milano la
Messa sarà celebrata dall’Arcivescovo lunedì 28 febbraio, alle ore 21, in Duomo.
Per il 1° maggio a Roma non abbiamo ancora notizie precise sugli orari e le modalità di
svolgimento della beatificazione di Giovanni Paolo II. Non appena arriveranno ve le
comunicheremo.
Siccome molti lo hanno chiesto, precisiamo che gli Esercizi della Fraternità si concluderanno in
salone il sabato sera prima di cena. La partenza per Roma verrà poi decisa e organizzata in modo
autonomo da ogni gruppo. Questo vale anche per gli adulti non presenti a Rimini, per gli
universitari e per GS.
C’è un’importante variazione anche per quanto riguarda gli Esercizi degli adulti e giovani
lavoratori. La nuova data degli Esercizi è 6-8 maggio e si terranno a RIMINI.
Ricordo anche che questi esercizi sono innanzitutto per le persone non iscritte alla Fraternità e
possono essere l’occasione per invitare nuovi amici.
Preghiamo.
Veni Sancte Spiritus
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