.....che l’adulto diventi una presenza è una questione che si risolve solo nel rapporto con Cristo. In altre parole: Gesù ha risolto il problema delle nostre tattiche di equilibrio diventando una presenza, perché questo fatto dà all’adulto
tutto il campo possibile per esserci e per porsi con tutta la sua libertà.
E questo non lo decide il ragazzo che ho di fronte, lo decido io! Io,
con la mia presenza, posso costantemente sfidare la ragione e la libertà
del ragazzo, e nello stesso tempo posso dargli tutto lo spazio, tutto il
tempo di cui la sua libertà ha bisogno......
Incontro di don Julián Carrón
col Direttivo nazionale CLE
Milano, 28 febbraio 2010
Franco Nembrini.
Questa mattina ci siamo ritrovati per un’assemblea il cui odg recitava così: «Cosa ha suggerito alla tua vita personale ed alla vita della tua comunità il richiamo di Carrón di questi ultimi mesi (Scuola di comunità, Assemblea Responsabili, Esercizi del Clu)?». Mi permetto di sintetizzare l’esito del lavoro in tre domande. La prima
è questa: in questi due anni, da quando abbiamo iniziato il lavoro con te, degli “io” hanno cominciato a prendere posizione, a muoversi in un certo modo, così come tu ci hai richiamato, e, in fondo, queste ottanta persone che hai davanti sono l’esito di questo cambiamento fatto insieme,di diverse amicizie molto feconde che sono nate tra noi. Rispetto all’ambiente, rispetto al mondo, rispetto ai ragazzi che incontriamo, ai colleghi che incontriamo, è come se fossimo davanti a tanti Zaccheo e
a tante Maddalena, dove tu capisci che il problema non può più essere quello di un aggiustamento morale: farli diventare dei bravi ragazzi.Ma questa tentazione resta, nel senso che è una scorciatoia che si affaccia sempre nella vita degli insegnanti. La scorciatoia è chiedere al ragazzo di ritenere sufficiente per lui l’adesione alla vita del movimento nella sua forma associativa, risparmiandogli tutto il cammino della libertà.
Julián Carrón.
Reagisco subito a questo, e vi domando: che esperienza
avete di questa proposta, che verifica fate? Perché il problema è questo: nelle condizioni in cui siamo, storicamente, come possono i ragazzi aderire a una cosa così ridotta? Come può bastare questo per un’adesione reale che duri nel tempo? Se diciamo che ci troviamo davanti dei ragazzi con cui non occorre solo aggiustare qualcosa, ma che sono totalmente per aria, come può esserci scorciatoia? Non so se
trovate una scorciatoia per far loro imparare qualcosa quando non ne hanno la voglia. L’avevo già visto io stesso quando ero preside di unascuola e mi si presentò una persona per vendere delle tecniche di studio; io le dissi: «Guardi, il dramma dei miei studenti è che non hanno voglia di studiare; la tecnica che lei cerca di vendermi risponde a questo?Risposta: «No». Il problema è che davanti a noi manca il soggetto. E quando non c’è dobbiamo anzitutto evocare il soggetto a cui fare
la proposta.
Cinetta.
Ti racconto questo episodio, che mi ha molto segnata. Un
ragazzo della mia scuola ha incontrato il movimento. È uno con una
forza strabiliante, molto intelligente, vivo, tanto che ha trascinato un
sacco di gente. Quest’estate fa le vacanze di Gs, dove è protagonista, va
alMeeting a lavorare, torna dalMeeting, cade in un certo giro e comincia
a non venire più. E io mi sono sorpresa a non scandalizzarmi, sono
andata a prenderlo in macchina, l’ho portato nel bar più bello del mio
quartiere, e gli ho detto: «Guarda, io amo la tua libertà più di qualsiasi
cosa, però voglio essere con te perché ho bisogno di te. Come va il tuo
rapporto con quello che hai incontrato, come va il tuo rapporto con
Cristo?». E lui: «Io Cristo l’ho visto vivo, non posso negarlo, ma raramente
». Io sono rimasta provocatissima, sono tornata a casa e gli ho
scritto - perché lì per lì non avevo parole -: «Se qualcuno ci avesse sentito
parlare sarebbe stato più impressionato dal tuo “l’ho visto vivo” o
dal “raramente”»? Capisco che questo è il fondo della questione. Pesa
di più il riconoscimento di un attimo, che in lui si è anche reiterato nel
tempo, o il dubbio presente? Però dentro questa cosa vedo che la sua
libertà continua a essere sacra.
Carrón.
Questo ragazzo ha ricevuto la proposta, l’ha vista in atto.
Quindi è un problema di libertà. Tu puoi continuare a chiamarlo e invitarlo,
come fai con un amico. Quante volte vi ho fatto l’esempio: quanti sorrisi ha bisogno di fare la mamma per provocare il primo sorriso del bambino? Libera tu, libero lui. Ma tu hai qualcosa nella vita che ti impedisce di prendere qualsiasi scorciatoia, questo è il punto! Tu non puoi organizzare altre cose per lui, perché non ci sta, non ci sta! Allora, la tua libertà è continuare a cercarlo, secondo una modalità adeguata, con prudenza. Perché se tu lo stufi, ti manda a quel paese; questo è il
dramma che viviamo davanti a quelli che incontriamo.
Nembrini.
La questione è proprio questo dramma…
Carrón.
Tutti ce l’abbiamo! Tutti abbiamo incontrato persone così,
grandi, giovani, ragazzi e questo è il dramma, no? La questione è che
noi possiamo diventare una presenza lì dove siamo, testimoniando agli
altri il nostro sorriso e dando a essi tutto il tempo di cui hanno bisogno
perché la loro libertà si muova, non lasciandoli soli con la loro libertà,
ma continuando a provocarli. Quando ho scoperto questo, per me è
stata la liberazione, perché in classe potevo costantemente essere me
stesso davanti ai ragazzi e dar loro tutto il tempo di cui avevano bisogno
per decidere. Con tutti i miei limiti, se nella mia presenza c’era
qualcosa da vedere, lo potevano vedere; e se non c’era, anche se io dicevo
che c’era, non c’era niente da vedere per loro. Perché il problema -
come dice don Giussani - è essere una presenza. Il problema dei giovani
è il problema degli adulti: che l’adulto diventi una presenza.
Altrimenti siamo sempre lì a discutere fin dove lasciare liberi i ragazzi
e fin dove intervenire, e cerchiamo quegli strani equilibri perché in
realtà non sappiamo come risolvere la cosa.Mentre che l’adulto diventi
una presenza è una questione che si risolve solo nel rapporto con
Cristo. In altre parole: Gesù ha risolto il problema delle nostre tattiche
di equilibrio diventando una presenza, perché questo fatto dà all’adulto
tutto il campo possibile per esserci e per porsi con tutta la sua libertà.
E questo non lo decide il ragazzo che ho di fronte, lo decido io! Io,
con la mia presenza, posso costantemente sfidare la ragione e la libertà
del ragazzo, e nello stesso tempo posso dargli tutto lo spazio, tutto il
tempo di cui la sua libertà ha bisogno - e per ognuno questo spazio è
totalmente diverso, non è uno schema matematico, perché ridurrebbe
l’io a un meccanismo -. Siamo davanti al mistero dell’altro: o ci mettiamo
bene in testa questo o cercheremo sempre qualsiasi cosa per entrare
nella libertà dell’altro. Ma non è possibile: l’altro è un mistero, non
un meccanismo.
Nembrini.
Per “scorciatoia” intendevo questo meccanismo, l’idea
che il problema sia risolto perché sono riuscito a fare entrare il ragazzo
nella “macchina”.
Carrón.
E questo ragazzo, che è entrato nella “macchina”, quanto
dura? È la domanda che vi ho fatto all’inizio, perché o questo ragazzo è
creato secondo un disegno che non è il nostro e al quale noi dobbiamo
piegarci, oppure saremo sempre nella paura. Perché, in fondo, noi
abbiamo paura che il ragazzo si faccia del male. E così siamo al cuore
della questione. Potete girarci intorno quanto volete, ma il vostro pro- blema è che avete paura, perché ilMistero ha corso il rischio di lasciare le persone libere (è l’aspetto antropologico del problema dell’Inferno). E questo scandalizza noi, che perciò abbiamo paura. Ma il Mistero questa paura non l’ha! Siamo noi a non essere in grado di stare di fronte al dramma della libertà. Il che non vuol dire disinteressarsi dell’altro; nessuno prenda questa come una giustificazione della
pigrizia. Anzi, occorre fare tutto il possibile, sfidare l’altro in tutti i modi. Ma l’altro rimane libero, piaccia o non piaccia, perché non l’ho fatto io.
La questione è se noi siamo in grado di trasmettere lo sguardo di Cristo: allora potremo sfidare gli altri fino al midollo, ed essi cederanno davanti a una presenza. E questo non dipende soltanto dai gesti che noi facciamo, ma dalla diversità con cui li facciamo! È vero gesto ciò che rende presente Cristo oggi. A volte diamo per scontato di fare tutto bene; ma siete proprio sicuri di essere il volto del Mistero per coloro che incontrate? Io no.O è lamia buona intenzione a rendermi una presenza? Ed è, poi, colpa del ragazzo che non capisce?Ma siamomatti! E
noi, non dobbiamo cambiare niente? Non dobbiamo fare personalmente una strada affinché, poi, si trasmetta questa diversità? No, noi abbiamo già fatto tutto giusto, abbiamo fatto tutti i gesti adeguati, e riconoscerLo è un problema degli altri! Calma, amici. Questo spetta dirlo a chi ci incontra. È il ragazzo che incontriamo che deve dirlo, non noi. Noi siamo sicuri che è successo qualcosa solo - solo! - quando l’altro risponde, altrimenti potrebbe essere una nostra immaginazione. L’adesione dell’altro è un aspetto della verifica che noi stiamo facendo
un cammino di rapporto col Signore. Perché vuol dire che è stata risvegliata tutta la sua libertà e tutta la sua affezione per aderire. E solo allora, solo in quel momento posso essere veramente certo. Ma che altro modo abbiamo di saperlo, se non questo? Il Mistero ha messo nelle mani di ogni persona che incontriamo il criterio di giudizio - per questo ha corso il “rischio” di crearla libera -, e perciò la questione del cuore sarà sempre presente. E voi lo vedete molto più di chiunque nel ragazzo. Il criterio ce l’ha lui! Perché? Perché è lui che deve decidere davanti a questa corrispondenza che scopre. Questo non è una questione particolare ,
- della pag. 325, nota 48 di unlibro -, ma appartiene al nocciolo dell’impostazione di Giussani, al
PerCorso, da Il senso religioso a Perché la Chiesa: inizia parlando dell’esperienza,
del cuore come criterio di giudizio, lo riprende quando spiega come uno può stare davanti alla concezione che Gesù ha della vita, e finisce dicendo che tutta la proposta della Chiesa si sottomette al giudizio della persona. Sì o no? Giussani è veramente consapevole che questo è un dialogomisterioso tra due libertà. O noi capiamo questo o cerchiamo scorciatoie, che non servono. Perché è inutile, tu puoi farlo partecipare alle iniziative, ma il suo cuore non è preso. È quel che
dice Giussani parlando dell’incontro di Giovanni e Andrea: «Pietro attraverso quello sguardo si trova afferrato fin dentro il suo carattere, rubesco, granitico»
1. Il problema è questo: non che partecipi,ma che si senta afferrato. Poi può succedere che questo avvenga in maniera “intermittente”. È un problema di tempo quando questo essere afferrato fiorisce: uno può averlo visto e non farci i conti o rifiutarlo per anni, fin quando un avvenimento gli fa capire tutta la portata di quello che è successo. E noi non sappiamo quando quel seme produrrà frutto.
Cinetta.
Quindi è un continuo rischio nostro…
Carrón.
Assolutamente!
Cinetta.
Come la madre che sorride al bambino. E la madre continua a sorridere per una certezza.
Carrón.
Questa è la questione: se noi siamo certi di questo! Questo è l’amore commosso del Mistero.
Andrea.
Tre settimane fa ho ricevuto una lettera da una ragazza che è stata mia studentessa - io insegno religione - per tre anni. Però quest’anno - lei fa la quarta - non lo è più. Era una delle ragazze che ascoltava le mie lezioni con attenzione maggiore, molto più dei ragazzi di Gs, ma lei non veniva a Gs. Io l’ho sempre invitata, senza mai esagerare, a venire con Gs, e non èmai venuta. Invece è venuta alla vacanza di quest’estate; io non l’avevo invitata, però l’avviso le è arrivato e lei è
venuta. È stata talmente contenta che ha chiesto ai genitori di rimanere su anche i giorni dopo, alla vacanza del gruppo medie. Tre settimane fa mi ha scritto una lettera bellissima, dove racconta l’incontro che ha fatto quest’estate: «Io non pensavo di trovare una cosa così bella», e
cercando di descrivere dice: «Mi sono sentita accolta così come sono, perché avevo questa sensazione: che ogni volta che voi parlavate, sembrava proprio che parlaste a me. Mi chiedevo: come fanno quelli lì a sapere tutto quello che io penso?». In questa lettera dice che ha una
domanda sulle sue amicizie, quelle vecchie, non sa bene come fare.Allora le ho detto: «Guarda come è vera la cosa che hai incontrato quest’estate!È talmente vera che ti fa porre una domanda perfino sulla cosa più intoccabile per te, le tue amicizie.Guarda com’è reale quello che hai incontrato! Te ne rendi conto?». E poi le ho chiesto: «Ma perché tu mi hai scritto questa lettera adesso, a febbraio?». Lei mi ha guardato e mi ha detto: «Perché quella cosa di quest’estate mi manca».
Carrón.
Questa è la questione.
Stefano.
A me è capitato un ragazzo che ha perso il padre, morto anni fa di Aids, quando lui aveva cinque anni. Quando mi ha chiesto perché l’ho invitato a un nostro gesto, gli ho detto: «Perché tu hai una ferita». Pian piano si è reso conto che il dramma della morte di suo padre lui non l’aveva mai affrontato. Ha iniziato a chiedere di lui, e da quel momento non è più fermo. Perché dico questo? Perché la compagnia non deve mai diventare anestesia rispetto alla ferita!
Carrón.
Se uno non capisce che cos’è la vita, non arriva a questo livello di sfida. Uno deve avere una familiarità con la vita per questo.Nella misura in cui uno vive la vita, ha una familiarità, può sapere dove si trovano veramente i nodi da sciogliere. Allora è inutile insistere.Come quando hai incastrato un piede e ti dicono: «Corri! Corri!»… La questione è disincastrarlo, perché allora correrai! Trovare la modalità -se il Signore ci dà la luce - per fare la mossa giusta per disincastrarlo:questa è la vera sfida! Perché allora correrai.
Albertino.
Fare esperienza di questa certezza vuol dire, appunto,innanzitutto la conversione mia, essere certo di essere stato preso.Ma nello stesso tempo, proprio perché sono certo, aver bisogno che si
riveli.
Carrón.
Che cosa vuol dire? Che la nostra mossa non nasce dall’esito!Nasce dall’essere stati guardati così! La questione è che, invece, tante volte la nostra mossa nasce dal tentativo di successo. E quando non c’è secondo le nostre misure, la smettiamo. Perché avevamo un progetto!
I ragazzi, che sono più intelligenti di noi, lo sanno benissimo. La questione è: qual è la sorgente della mossa? Se loro percepiscono che è una mossa veramente gratuita, come stiamo imparando nella Scuola di comunità, che è veramente per amore puro! Perché è questo che commuove
l’altro. Ho qui un brano della pianista russa Maria Judina:«Proprio nel mio gruppo c’era un rompiscatole, un ragazzino di otto onove anni, praticamente senza famiglia, che viveva presso parenti che non amava e da cui non era amato, di nome Akinfa; era indisponente,stuzzicava tutti, prendeva in giro i bambini ebrei, si azzuffava e così via.Noi tutti, e soprattutto io che ne avevo la responsabilità, lo esortavamocon la parola e con l’esempio [non solo con la parola!], ma una volta
Akinfa passò tutti i limiti: picchiò uno dei compagni, prese a male parole gli adulti, commise un furtarello e così fu decretata la sua espulsione.Quando venne il momento di eseguire la condanna, ilmomento del distacco, io, non so come, scoppiai a piangere, e a questo punto avvenne la seconda nascita di Akinfa: scoppiò a piangere anche lui, chieseperdono a tutti, rese la refurtiva e da quel momentomi seguiva sempreovunque nel campo come un fedele cagnolino, spiegava a tutti che in vita sua non aveva mai visto che una maestra piangesse per un suo
alunno, che piangesse, per dirlo con le sue parole, “sull’anima e sulla vita di un monello”; proprio questo era il senso del suo stupore e del desiderio di rimettersi sulla strada».Questo non è per i ragazzi,ma per noi. È per noi!Allora, più questo è familiare nella nostra vita, più ci rendiamo
conto che non è un problema di età, di tecniche, ma è lo stesso per ciascuno.
Jenny.
Mi sono commossa quando hai letto questo brano, perché mi è capitata una cosa simile quest’anno. Il primo giorno sono entrata in classe e un ragazzo è uscito sbattendo la porta, e io non capivo perché. È sceso giù e stava per picchiare anche la preside. È un ragazzo pieno di problemi, è diventato il caso più difficile della scuola, ha un sacco di richiami e sospensioni…Però che cos’è successo? Che il primo giorno l’ho rincorso, e ho scoperto che era “sbottato” perché l’avevo separato - dato che parlava - da un suo compagno di banco, che è un suo caro amico, e questa cosa lo aveva fatto reagire. Allora il giorno dopo l’ho fermato, ci siamo messi a parlare,mi ha raccontato la sua storia:ha i genitori divorziati, vive in un quartiere degradato. Però cos’è
successo? Che dopo quella mmossa io l’ho invitato, e lui è venuto in sede con noi qualche volta, il mercoledì. Soprattutto, mi ha colpito, è venuto alla nostra Giornata d’inizio: è stato a sentire tutto il tempo e mi ha cercato alla fine. Mi ha detto: «Professoressa, grazie per le cose belle
che oggi ho sentito». E lì ho pensato: questo è considerato da tutti malissimo, ma ha un cuore! Intanto ha continuato a prendere sospensioni,l’abbiamo allontanato per quindici giorni perché sbatte le porte,risponde male ai professori… Qualche giorno fa mi ferma il vicepreside
per dirmi: «Guarda, l’abbiamo sospeso un’altra volta per una settimana.Per me dev’essere cacciato». E io ho detto: «Vero, ne ha fattetroppe, basta».Mi ha sentito una collega, mi ha fermata e mi ha detto:«Scusa,ma io so che tu hai un buon rapporto con lui». Questa cosa mi
ha sorpreso, subito è nata una ferita terribile in me. Perché quando era venuto il vicepreside avevo reagito così pensando che il mio dovere l’avevo fatto, quindi il punto adesso era cacciarlo.Quella cosa che mi ha detto la collega, invece - a parte che mi ha addolorata molto perché ho capito che io stavo chiudendo la questione -, mi ha fatto render conto che io non sto facendo memoria del fatto che Uno con me non ha mai chiuso la partita. Uno mi ha amata gratuitamente, nonostante i miei errori. Come è facile dimenticarsene! Quindi ti ringrazio, perché capisco che il punto è che non posso misurare, mentre io ho misurato quel giorno.
Carrón.
Ma a volte puoi arrivare a dover cacciare! Io ho dovuto cacciare uno, quando ero preside. Tutti i professori erano lì, tutti, coi riflettori puntati, a dire: «Vedrai che non ha il coraggio di mandarlo via». E l’homandato via!Ma lo spettacolo è stato che quel ragazzo è andato in un’altra scuola,ma nell’intervallo veniva a stare con noi!Noi generiamo un legame che ci consente di fare questo! Senza rompere il rapporto. Io non potevo non farlo, perché altrimenti non avrei più potuto guidare la scuola, oggettivamente parlando. Ma il problema non è che devi fare questo, ma che legame si è stabilito. Se il legame che si è stabilito è più forte del fatto di cacciarlo, niente lo interrompe. Poi, l’anno successivo,l’ho accettato di nuovo a scuola. E lui, cui nessuno dava un centesimo, ha finito l’università, ha una laurea e ora fa il professore. Ecco la questione:
è questo tipo di legame che ci consente di non risparmiare la libertà a nessuno. Altrimenti siamo incastrati in queste vicende quando dobbiamo guidare, per esempio, una scuola.
Nembrini.
Mi sembra che per molti tra noi il passaggio che tu ci indichi con tanta insistenza, dal “fare il movimento” a “vivere il movimento”,da questi esempi inizia a vedersi. Prima hai parlato, però, diuna “pazienza educativa”, pazienza e tempo. La cosa su cui -mi sembra siamo sfidati adesso è il fatto che abbiamo capito che non si tratta di“far diventare di Gs i ragazzi” e così garantirsi l’organizzazione, la scorciatoia di cui parlavamo prima. Ma cosa vuol dire che questo esige,
come per ogni incontro, per ogni singolo ragazzo, un’intelligenza, una pazienza, un tempo? Tutto quel rispetto per la libertà del ragazzo ci aiuti a dettagliarlo nell’azione educativa quotidiana?
Carrón.
La questione è amonte: noi di che cosa viviamo? Cioè, perché Dio ha questo tempo e questa pazienza? Non ditemi: «Perché è Dio», è troppo facile. Per il Mistero della Trinità! Perché Essi vivono pienamente una vita, di una pienezza che non sorge dagli esiti, dal risultato, e che può dare all’altro tutto il tempo di cui ha bisogno. E questo si vede, esistenzialmente parlando, nella famiglia. Quando i genitori hanno questa pienezza oggettiva, che non li fa dipendere dal ricatto
del bambino, hanno la possibilità di dargli lo spazio di cui ha bisogno.Se noi non viviamo questa pienezza, ci troviamo in affanno. Per questo il lavoro sulla “carità” che stiamo facendo nella Scuola di comunità non è banale. Per arrivare a essere caritatevole con gli altri, esistenzialmente
parlando, tu devi anzitutto soffermarti su come il Mistero fa con noi.E questo vuol dire che o noi viviamo una pienezza affettiva - e chi ce la dà? dove la troviamo, dove la rintracciamo? - che ci consente di dare tutto il tempo, tutto lo spazio, con pazienza, all’altro perché faccia la sua strada secondo un disegno che non è il nostro, o, per l’impazienza di non arrivare, incominciamo a fare errori. Ma è un problema mio! È come se io avessi bisogno che l’altro risponda, perché altrimenti penso di non avere una giustificazione per il mio fare. Ma la giustificazione del mio fare è in Colui che ho incontrato, che mi rende libero da quello che faccio. Perché il fare nasce dalla sovrabbondanza di quello che ho! È in questo - attenzione, sono spie che vi indico sempre - che capiamo se facciamo questa esperienza o no: l’impazienza. Quando ci prende l’impazienza, quando vogliamo affrettare i tempi, passando sopra la libertà dell’altro o arrabbiandoci con l’altro - come se questo cambiasse qualcosa -, è perché vogliamo imporre un ritmo nostro invece di piegarci al ritmo di Dio. Capite la differenza?Ma questa è un’altra storia. È inutile che facciate propositi di fare i bravi professori e di avere pazienza: è inutile! Perché qui si vede veramente che occorre ripartire da capo, facendo il cristianesimo. E per questo non bastano gli appelli
alla nostra generosità, alla nostra pazienza. Perché noi non l’abbiamo,tranne se viviamo di una pienezza che ci è data in anticipo, e che ci viene data costantemente, non solo all’inizio, che ci alimenta costantemente,che è il cibo della vita! Senza del quale non possiamo vivere.
Allora, è questo che ci consente di dare tutto il tempo di cui ha bisogno il ragazzo per decidere, senza fretta. Ricordo quando sono arrivato a Milano, una sensazione che avvertivo era che tutti mi mettevano fretta:«Devi intervenire di qua, devi far così di là». «No! Il ritmo lo decido
io, perché sono io che devo obbedire al Mistero. Tu fai quello che vuoi,ma io decido del mio, perché questa è la mia modalità di obbedire al Mistero». Perché io, tante volte, per intervenire devo pensare per mesi alla modalità di farlo, per aiutare l’altro, perché l’altro non si difenda,
per fare in un modo che sia adeguato. E tante volte sbaglio, figuratevi…Tutti dobbiamo trovare la modalità per dire una parola, per fare un gesto. Non c’è niente di meccanico, per carità! Io non ho “visioni” durante le quali mi vengono comunicate le soluzioni. Ogni volta per me è un dramma. Per questo dico: come si declina esistenzialmente?Devi aspettare, devi ascoltare, devi pensare: devi vivere! E, a un certo momento, il Mistero suggerisce: adesso sì, questa è la forma, è questa la modalità più consona. E tu lo verifichi nella reazione dell’altro. Ma noi pensiamo che, siccome siamo grandi, coi ragazzi abbiamo già la formula. Non so voi, ma io no. Io non ho la formula magica. E questo è un dramma, o meglio: è un amore, è una passione per l’altro. Per questo, come ricorda spesso il Papa,Dio non è mai sconfitto, perché se non trova una soluzione, ne trova un’altra, poi un’altra… E questa è una pazienza.Non è aspettare senza far niente. È un aspettare pieno di attività,di lavoro, di riflessione, pieno di attenzione a quello che accade.
Come posso aspettare senza spazientirmi? Sapendo che c’è una positività ultima, che c’è Uno che ci ha creato e che è morto per noi. Punto!Se io divento nervoso, se ho bisogno che l’altro mi risponda per respirare,allora mi affretto, comincio a violentare l’altro, non lo rispetto secondo il suo ritmo. Invece devo obbedire alla modalità del Mistero:se devo aspettare un istante, aspetto un istante; se devo aspettaremesi, aspetto mesi. Non è per niente meccanico, per niente “spirituale”, no, è un lavoro.
Nembrini.
Come si fa ad avere contemporaneamente a cuore, da un lato, se stessi e questa voglia di essere dentro luoghi e rapporti dove si fa esperienza di quel che hai detto e, dall’altro, la situazione che Dio ti ha dato e la responsabilità che, comunque, bisogna vivere? Perché a volte sembra che le due cose si contraddicano o si oppongano: se ho cura dime stesso, è come se dovessi lasciar perdere la realtà che Dio mi ha affidato; per avere cura della realtà che mi è affidata sembra che
debba mettere da parte me stesso. Si capisce questa apparente contraddizione?
Carrón.
Io non so come facciate voi, ma come potete avere cura della vostra realtà senza avere cura di voi stessi? Come potete curare i vostri figli senza essere voi contenti? Sono dei contrasti che io faccio fatica a capire; dico questo, non perché non ci siano questi contrasti, ma perché la chiarezza occorre guadagnarla dall’interno di essi. Tu come fai a guidare questa realtà che ti è data nelle mani, o a fare il preside e l’insegnante, o a essere papà, se non curi te stesso? Sarebbe come dire, per assurdo: come posso andare a fare lezione e aver cura di mangiare?
Se non mangi, non fai lezione; nessuno mette in contrapposizione il mangiare con il fare lezione, giusto? Il mangiare è decisivo per essere in grado di fare lezione. La cura di noi stessi, il modo in cui viviamo,è la condizione per capire qual è il metodo adeguato per guardare i ragazzi e per rispondere ai loro interrogativi. La ragione ha una varietà sterminata di modi di muoversi. La questione è: da dove nasce la mossa giusta? Esattamente questo è quello che don Giussani intende quando dice che Cristo è venuto per educare il nostro senso religioso,non per risparmiarcelo, ma per metterci nella posizione adeguata per affrontarlo.Non ce lo risolve Lui,ma ci mette nella posizione giusta per risolverlo. Per questo esiste la nostra amicizia, per questo siamo cristiani, perché non possiamo rispondere da soli; non facciamo Cl se non per rispondere a questo. Vediamo che tanti nostri colleghi sono assolutamente smarriti,mentre quello che noi abbiamo incontrato ci mette nelle condizioni più adeguate, nella misura in cui lo viviamo per affrontare adeguatamente il problema (non per darci la formula magica per risolverlo, che non c’è). E questo don Giussani ce lo ha insegnato sempre, ha scritto un intero capitolo di Perché la Chiesa solo per questo: la Chiesa non ha come scopo quello di risolvere i problemi,ma di metterci
nelle condizioni adeguate per affrontarli. E questo come lo fa?Facendoci vivere la vita cristiana, perché se uno vive il rapporto con Cristo, allora è nelle condizioni migliori per affrontare i problemi che tutti devono affrontare, anche a scuola. E in questo non vi sostituisce
nessuno e non potete sostituire nessuno, non so se riesco a spiegarmi…
Nembrini.
Cioè tu dici: se ci sei tu così, allora il problema non nasce neanche.
Carrón.
Attento. Nasce, perché il problema c’è e devi affrontarlo.Ma la questione diventa come tu puoi affrontarlo nelle migliori condizioni insieme a Cristo, perché sarà sempre un tentativo. E perché è ragionevole essere cristiano, se Egli non ci risolve i problemi? Qual è la convenienza umana per noi? Perché vivendo così si genera di più questo soggetto che siamo noi; e la vera questione educativa è la generazione del soggetto come presenza. Il problema dei ragazzi è lo stesso
problema nostro, è il problema del segreto del mondo che è l’Incarnazione: è successo qualcosa che ha introdotto una presenza diversa e nello stesso tempo una pazienza diversa con gli altri, ma soprattutto la pazienza con noi. Io lo dicevo sempre nella mia scuola quando arrivavano gli insegnanti novelli: «Calma, datti il tempo. Non chiederti se i ragazzi ti temono o ti prendono in giro, non lasciarti innervosire da questi fattori. Occorre aspettare che tu abbia esperienza
per poter stare di fronte a loro, non ti puoi risparmiare niente del percorso che devi fare, e non accanirti con i ragazzi. Non è un problema dei ragazzi, il problema è che tu devi imparare, devi darti il tempo per maturare, per vedere come entrare nell’agone, per avere una padronanza
della classe senza scomporti». E questo è il problema della crescita di ciascuno come professore, come educatore, o no? Tutti abbiamo vissuto questo, uno non lo può saltare; è questo che succede nel nostro crescere, e anche nel nostro crescere come educatore. Per questo se accettiamo che anche noi, come i ragazzi, dobbiamo darci il tempo per metterci al lavoro, allora progrediremo nella conoscenza dinoi e degli altri.
Nembrini.
La domanda era stata posta nel senso che a volte capita che darsi questo tempo per diventare grandi, concedersi il privilegio di certi rapporti che ci fanno crescere, è come se volesse dire fregarsene dei ragazzi e delle cose.Come se ci fosse da aspettare non so quale livello di maturità per poi entrare nella realtà.
Carrón.
Questo è inutile, perché tu domani devi fare lezione. Non puoi dire: «Adesso aspetto di maturare, domani salto la lezione», e nel frattempo il preside continua a pagarti lo stipendio… Ma io vi chiedo:perché siamo qua, perché mi date il vostro tempo, perché fate la Scuola
di comunità, perché andate agli Esercizi, perché perdete il tempo?Dobbiamo imparare a vivere il rapporto intrinseco che c’è tra tutti questi strumenti, come tentativo amicale di vita, e il nostro mestiere. Una cosa analoga - per farvi ancora un esempio - mi capita con i novizi del Gruppo Adulto, che a volte lamentano un problema nel rapporto tra la vocazione e la loro famiglia d’origine; e io dico loro: «Ma se non capite che il bene dei vostri genitori coincide con la vostra vocazione, voi siete persi. Se io avessi questo problema, sarei a Madrid con mia mamma, a
farle compagnia; ma io questo problema non ce l’ho, perché a mia mamma do tutto: la modalità con cui accompagno mia mamma al Destino è rispondere a Cristo. Se non capisco che io per la mia mamma do tutto rispondendo alla modalità con cui Cristo mi chiede la vita, allora non ho capito che cos’è la vocazione. Dare la vita a Cristo: è questo che la aiuta di più a guardare il Destino; anche se la andassi a trovare ogni mese, non saprei dire con più chiarezza che cosa è la vita e cos’è il Destino, non le vorrei così bene». Queste contrapposizioni in cui tante volte ci incastriamo non esistono, ma ci sembrano reali perché non capiamo qual è il rapporto intrinseco tra le cose.
Marcello.
Sento in me la tentazione del ruolo: a un certo punto, ti ritrovi ad avere la preoccupazione di gestire quel che hai davanti.Nasce da ciò che dicevi prima? Perché io questa decadenza la sperimento spesso.
Carrón.
Se tu devi organizzare una vacanza, la devi organizzare,devi gestirla; la questione è che, nella misura in cui tu cresci in questa esperienza e cresce il soggetto, tu la gestisci,ma in un altromodo. Non devi aspettare a far lezione quando avrai esperienza; come fai a fare esperienza senza fare lezione? Questa contrapposizione non esiste;come puoi fare esperienza senza fare lezione? Ma per non ridurti soltanto a interpretare un ruolo, devi fare una strada; nella misura in cui
tu fai questa strada, invece di prevalere il ruolo prevale la tua persona,prevale il modo nuovo che sta entrando dentro di te e che ti fa gestire la realtà in un altro modo; quella novità che è comunicata alla radice del tuo essere comincia a vedersi nel modo di agire, di manipolare le
cose e allora incomincia a vincere sul dualismo. Perché è la mia persona che si vede nel modo di guardare, di entrare in rapporto con tutto,anche nel modo di organizzare un gesto. Si impara rischiando, è un tentativo ironico; per questo è meglio se lo facciamo insieme, se ci aiutiamo
con semplicità, perché quattro occhi vedono più di due. È semplice a comunione!Ma sarà più semplice se ci aiutiamo tutti senza presunzione.Ché se in un gesto ciascuno può dare il proprio contributo,esso si arricchisce, rischia meno di essere unilaterale, risulta più completo.
Mi spiego? Allora, se tu hai un’idea e me la comunichi, è come are a me la possibilità di contribuire alla tua idea; e se tu ritieni liberamente he quello che ti dico può esserti utile, saresti scemo a non avvalertene. L’alternativa è tra semplicità e presunzione. Se siamo isponibili a collaborare così, sapendo che noi siamo dei poveracci,diventa più facile tutto; abbiamo bisogno del contributo degli altri; chela generazione sia comunionale è un bene, non è una disgrazia; non è
il pedaggio da pagare perché si è di Cl, ma è un bene. Se tu avessi soldi da investire, ti piacerebbe avere un consiglio per non investire nel modo sbagliato e non perderli?
Nembrini.
La terza domanda la direi così: è come se rimanesse ancora lontana una passione per la scuola come luogo, anche nei suoi apetti istituzionali e politici. Ci mobilitiamo giustamente per il terremoto di Haiti e non ci accorgiamo che, magari, viene terremotata la nostra scuola da cambi di programmi o di orari, o di spazi di libertà…Ed è come se questo aspetto della nostra professione facessimo fatica a sentirlo interessante e a giudicarlo, come se riguardasse solo qualcuno che ha il “pallino”.
Carrón.
Qual è la nostra concezione della fede? La fede ha a chevedere con tutto, perfino con la politica? La politica non ci è indifferente,non perché noi ci aspettiamo la soluzione dei problemi dalla politica;noi ci aspettiamo la risposta solo da Cristo e dalla sua Chiesa.
Punto. A noi interessa la politica per salvaguardare uno spazio di libertà perché la Chiesa viva. E perciò uno che ha a cuore quello che ci ècapitato non può non interessarsi alla politica; ha a che vedere con la fede, non è un “pallino” politico. E quando questo non si capisce, come spesso non si capisce, allora si lascia perdere l’impegno, tant’è vero che incominciamo a vedere tra di noi alcuni sintomi dello stesso disinteresseper la politica che vediamo generalmente diffuso. Niente ha una vita a sé, e per questo è importante il nesso con ogni aspetto del reale: staccato,perde d’interesse. Esattamente come in politica, dove prevale laconfusione e il disinteresse avanza - che è poi quello che vuole il potere,perché così è più facile manipolarci -. Se uno non vive questo nesso,il problema non è che non capisce la politica, ma che la sua esperienza di fede non gli fa capire tutta la realtà, fino alla politica. Applicate tutto questo alle questioni della politica strettamente scolastica, e troverete la diagnosi: ci interessa per la passione per quello che facciamo, per iragazzi che abbiamo davanti, per le famiglie cui rispondiamo. Se noi non arriviamo a questo, vuol dire che la fede non è in grado di farci interessare anche a questo particolare, e questo è un problema educativo,cioè riguarda la nostra concezione della fede. Se voi vivete una
concezione di fede “privata”, senza pretesa di incidenza pubblica, allora state soccombendo non a un errore di valutazione su una riforma scolastica,bensì a un’ideologizzazione del cristianesimo, che lo fa diventare impotente! Per questo la nostra preoccupazione è che la nostra educazione
(la Scuola di comunità, la caritativa) incida fin lì, per verificare che Cristo è l’unica salvezza di tutte le cose.
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