...«Nella loro esistenza non
possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita cosiddetta “spirituale”, con i suoi valori e
con le sue esigenze; e dall’altra, la vita cosiddetta “secolare”, ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei
rapporti sociali, dell’impegno politico e della cultura. Il tralcio, radicato nella vite che è Cristo,
porta i suoi frutti in ogni settore dell’attività e dell’esistenza. Infatti, tutti i vari campi della vita
laicale rientrano nel disegno di Dio, che li vuole come “luogo storico” del rivelarsi e del realizzarsi
della carità di Gesù Cristo a gloria del Padre e a servizio dei fratelli. Ogni attività, ogni situazione,
ogni impegno concreto – come, ad esempio, la competenza e la solidarietà nel lavoro, l’amore e la
dedizione nella famiglia e nell’educazione dei figli, il servizio sociale e politico, la proposta della
verità nell’ambito della cultura – sono occasioni provvidenziali per un “continuo esercizio della
fede, della speranza e della carità”» (Esortazione Apostolica Christifideles laici, n. 59).....
Appunti dall’intervento di Julián Carrón
alla Scuola di comunità del 30 gennaio 2013
Voglio proporre cinque punti come percorso per addentrarci nella situazione politica attuale.
1) Il nostro bisogno. Siamo chiamati a votare. Sappiamo già chi votare? Di fronte alla situazione
attuale, la cosa che ci facilita di più è partire ciascuno dal proprio bisogno, che è bisogno di
chiarezza, di comprendere i dati della situazione, il che non è assolutamente scontato. Innanzitutto,
dunque, occorre questa umiltà, perché questa volta, data la complessità della situazione, i conti non
tornano immediatamente. Ma questo bisogno relativo a come vivere la circostanza delle elezioni,
noi lo viviamo come un soggetto che ha la fede, un soggetto cristiano, ecclesiale. Da qui il secondo
punto.
2) La fede e la sua verifica. Come l’esperienza della fede che vivo mi aiuta ad affrontare questo
bisogno di raggiungere una chiarezza? Ciascuno di noi ha un punto di verifica della pertinenza della
fede alla esigenza di chiarezza circa le elezioni: come ha accolto e usato la Nota di Cl del 2 gennaio.
In tanti sono passati sopra i primi due punti della Nota (in sintesi, il primo punto afferma che «il
primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana viva è la sua stessa esistenza», il
secondo che «la comunità cristiana non può non tendere ad avere una sua idea e un suo metodo
d’affronto dei problemi comuni, sia pratici che teorici, da offrire come sua specifica collaborazione
a tutto il resto della società»), dandoli per scontati, perché quello che premeva loro era arrivare in
fretta a decifrare per chi votare. In questa impostazione troviamo un esempio di quello che dice don
Giussani (l’ho citato nella Lettera alla Fraternità al termine dell’ultimo Sinodo): «Per molti di noi
che la salvezza sia Gesù Cristo e che la liberazione della vita e dell’uomo, qui e nell’aldilà, sia
legata continuamente all’incontro con lui è diventato un richiamo “spirituale”. Il concreto sarebbe
altro: è l’impegno sindacale, è far passare certi diritti, è la organizzazione, […] e perciò le riunioni,
ma non come espressioni di una esigenza di vita, piuttosto come mortificazione della vita, peso e
pedaggio da pagare ad una appartenenza che ci trova ancora inspiegabilmente in fila» (Il rischio
educativo, SEI, Torino 1995, p. 61). Che Gesù Cristo sia la salvezza è un richiamo spirituale, il
concreto sarebbe altro. Per cui l’importante non è tutto quello che viene prima, ma per chi devo
votare (come traduzione banale del “concreto”). Il resto sarebbe un richiamo spirituale: «Certo, van
bene il primo e il secondo punto della Nota, ma quel che mi interessa è che qualcuno mi dia
l’indicazione di voto». Non ci accorgiamo che in questo modo stiamo svuotando la fede come
contenuto di un’esperienza!
Cosa si nasconde infatti dietro questa posizione? La sfiducia che dall’esperienza del movimento
possa nascere un soggetto capace di giudizio critico e di azione consapevole, fino alla politica: la
sfiducia, cioè, che la fede possa generare un soggetto realmente in grado di esercitare una
responsabilità, di giudicare e di prendere posizione da sé, anche in politica. Ma questo sarebbe il
fallimento dell’esperienza cristiana!
E questa, secondo me, è la grande utilità della circostanza che dobbiamo affrontare: anche le
elezioni sono per la nostra maturazione, perché ciò che è in questione è se la fede vissuta è in grado
di darci un contributo per affrontare la vita, se è pertinente alle esigenze della vita, come dice la
Nota, cioè se è in grado di educare perfino al giudizio politico oppure no. Altrimenti noi peschiamo
fuori dall’esperienza i criteri per vivere la vita, compresa la politica. Insomma: è in gioco la
ragionevolezza della fede. Questo tornante elettorale è di nuovo una possibilità per la verifica della
fede, nel senso di vedere in atto che contributo dà la fede, vissuta come esperienza reale, ad
affrontare le circostanze della vita. Mi scrive una di voi che, vedendo come qualcuno davanti a
questa situazione cominciava già a chiamare l’“esperto”, reagiva così: «Al di là dell’intenzione di
chi ha avanzato questa proposta di chiamare uno che se ne intende, non ti nascondo come
ascoltandola mi sono sentita soffocare e immediatamente ho pensato: ma possibile che abbiamo
sempre bisogno degli ordini di scuderia, che qualcuno ci dica cosa fare? E ho iniziato a chiedermi: e
perché non tentare un dialogo tra noi sul lavoro che abbiamo iniziato a fare a partire dal giudizio
della Nota? Perché le ragioni dell’agire dobbiamo sempre pescarle fuori dall’esperienza? Abbiamo
bisogno sempre del guru che finalmente ci convinca o possiamo farcela anche da noi?».
La nostra esperienza ci consente di fare questo o no? Se l’esperienza cristiana non è in grado di
generare un soggetto con una consapevolezza chiara, matura, sviluppata a partire dall’esperienza
stessa, abbiamo già perso, chiunque vinca le elezioni! «E mi sono domandata: ma io, allora, quando
seguo veramente? Ecco, di schianto ho avvertito tutto il peso della tua accorata insistenza sulla
questione del seguire e della riduzione che ne faccio. Il cercare conferme fuori dalla propria
esperienza è legatissimo al ridurre la sequela alla ripetizione: di un discorso altrui o
all’organizzazione o al personalismo o al fare i gesti». Questo mi conduce al terzo punto.
3) La Nota di Comunione e Liberazione. Essa esprime proprio questo, cioè che la fede, non svuotata
del suo significato, per il fatto stesso di porsi nel reale non può non avere a che fare con tutto, anche
con la politica. È questo che dobbiamo cercare di chiarirci. Vediamo fra noi persone in grado di
stare davanti alla morte della moglie o di un figlio, al punto che rimaniamo tutti a bocca aperta, e
poi diciamo che davanti alla politica siamo smarriti! Come è possibile? Il movimento è in grado di
educare a stare davanti alla morte e non è in grado di educare a stare davanti alla politica? La morte
non ci viene risparmiata, e se noi ci risparmiamo il giudizio sulla vita, sulla morte e sulla politica, se
ci risparmiamo il percorso che ci conduce a esso, mai potremo essere educati. Per questo il Mistero
non ci risparmia alcunché. E noi non siamo amici tra noi se ci evitiamo la provocazione che questa
circostanza elettorale rivolge a ciascuno; al contrario, siamo amici se ci aiutiamo a prendere sul
serio il nostro bisogno e a dire, in prima persona: «Io lo vivo così, tu che cosa dici? Perché mi
interessa il tuo giudizio».
All’interno di questo impegno con il contenuto della Nota, poi, si incontrano numerosi spunti, come
il volantino della Cdo, che rappresenta un contributo a un chiarimento sulla situazione, così come ci
possono offrire spunti l’intervento di un politico o un dato dell’economia, per poter continuare a
fare quel lavoro che riguarda la comunità cristiana in quanto tale (in vista di «una sua idea ed un suo
metodo di affronto dei problemi comuni»), in continuità con il quale ognuno è chiamato ad
assumersi una responsabilità personale. Perché altrimenti ci affidiamo a criteri e metodi che
nascono altrove o al guru di turno che ci dice che cosa fare. Conseguenza: più il soggetto è
sostituito da altro, più si deprime, si rattrappisce. Invece, meno viene sostituito, più viene fuori
come soggetto. Come mi diceva uno di voi: «Mi sono attivato come mai mi era capitato prima!
Urge che io dia un giudizio, per me ora è chiaro, e desiderato». E veniamo al quarto punto.
4) La questione dell’unità e della politica. Vorrei leggervi un passaggio del libro dell’allora
cardinale Ratzinger Fede, Verità, Tolleranza, che mi sembra decisivo per capire: «Nell’ambito
politico […] non esiste un’opzione politica che sia l’unica giusta [questa è la laicità: non esiste
un’opzione politica che sia l’unica giusta]. L’elemento relativo, la costruzione della convivenza
umana ordinata secondo libertà, non può essere assoluto [si tratta di tentativi contingenti, per loro
natura opinabili, aperti a nuovi sviluppi, sempre rivedibili] – il crederlo fu appunto l’errore del
marxismo e delle teologie politiche. Però [attenzione: questo non vuol dire abbracciare il
relativismo assoluto, come se si trattasse di un “liberi tutti”, di una «scelta religiosa», perché una
cosa sarebbe uguale all’altra] anche nella sfera politica con il relativismo totale non se ne viene a
capo. V’è dell’ingiustizia che non può diventare mai giustizia […]; v’è giustizia che non può
divenire mai ingiustizia. Di conseguenza non si può disconoscere un certo diritto al relativismo
nell’area politico-sociale. Il problema sta nel suo concepire se stesso come illimitato [invece di
intenderlo come non assoluto]» (p. 122). 3
Così si capisce il decisivo passaggio della Nota dottrinale sull’impegno dei cattolici in politica,
promulgata nel 2002 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede: «Non è compito della Chiesa
formulare soluzioni concrete – e meno ancora soluzioni uniche – per questioni temporali che Dio ha
lasciato al libero e responsabile giudizio di ciascuno, anche se è suo diritto e dovere pronunciare
giudizi morali su realtà temporali quando ciò sia richiesto dalla fede o dalla legge morale. Se il
cristiano è tenuto ad “ammettere la legittima molteplicità e diversità delle opzioni temporali”, egli è
ugualmente chiamato a dissentire da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale,
nociva per la stessa vita democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di
principi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono
“negoziabili”. Sul piano della militanza politica concreta, occorre notare che il carattere contingente
di alcune scelte in materia sociale, il fatto che spesso siano moralmente possibili diverse strategie
per realizzare o garantire uno stesso valore sostanziale di fondo, la possibilità di interpretare in
maniera diversa alcuni principi basilari della teoria politica, nonché la complessità tecnica di buona
parte dei problemi politici, spiegano il fatto che generalmente vi possa essere una pluralità di partiti
all’interno dei quali i cattolici possono scegliere di militare per esercitare – particolarmente
attraverso la rappresentanza parlamentare – il loro diritto-dovere nella costruzione della vita civile
del loro Paese. Questa ovvia constatazione non può essere confusa però con un indistinto pluralismo
nella scelta dei principi morali e dei valori sostanziali a cui si fa riferimento» (II, 3).
Questa è la parola della Chiesa, che giudica lo specifico della realtà politica e il proprio rapporto
con essa. In nome della fede puoi forse imporre a tutti la tua opzione politica? Per questo, chiedere
che il movimento “scenda in campo” dicendo chi votare significa saltare tutto quanto abbiamo
appena richiamato. Immaginate che, non raggiungendo la pur desiderabile unità nella scelta politica,
i cattolici chiedessero al Papa o al presidente di una conferenza episcopale nazionale di scendere in
campo dicendo chi votare! È evidente perché la Chiesa non fa, salvo una situazione d’emergenza,
una cosa del genere: se noi vogliamo salvaguardare la nostra identità ecclesiale a questo livello, non
possiamo non tenere conto di questo, aiutandoci a capire quanto sia decisivo. Così come non
mandiamo gli “ispettori” in ciascuna opera che sorge a partire dall’appartenenza ecclesiale.
Ma allora, se non si “scende in campo” con una indicazione di voto vuol dire che siamo divisi?
Rispondo con una lettera che ho ricevuto da un universitario: «Ti volevo raccontare un fatto molto
semplice accaduto in questi giorni a riguardo della sfida che ci hai rivolto di verifica della fede
attraverso la Nota del movimento sulla situazione politica. Giovedì scorso è venuto per la prima
volta a Scuola di comunità un ragazzo che ci ha conosciuto da una settimana. La Scuola di comunità
è stata tutta sul paragone con la Nota del movimento. È stata un’ora veramente esplosiva: un sacco
di domande, di botta e risposta di amici vivaci, desiderosi di entrare in merito alle questioni per
scoprire qualcosa per sé, non in modo analitico ma verificando nell’esperienza quel primo punto
fondamentale della Nota: “Il primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana viva è la
sua stessa esistenza”. Ci chiedevamo: è vero che la comunità cristiana, per il solo fatto di esserci,
pone la presenza che cambia, che incide nella storia? Cosa cambia il cuore e quindi cosa cambia il
mondo? Nonostante questa forte provocazione, guardando il ragazzo che era venuto per la prima
volta, io da moralista pensavo: chissà cosa penserà, magari si aspettava un’ora spirituale, che si
parlasse dei Vangeli, invece sente parlare tutto il tempo di gente che guarda la circostanza delle
elezioni politiche per crescere. Dentro di me pensavo: rimarrà scandalizzato e non verrà più. Quel
che mi ha stupito è stato che il giorno dopo mi hanno raccontato le reazioni di questo nuovo amico a
questi giorni con noi. Ha detto: “Comunque, quel che mi stupisce è che io immagino la Chiesa
come tante regole da rispettare, invece leggendo la Nota e guardandovi mi accorgo che tra voi c’è
una compagnia che non ha paura di sfidare tutta la vostra libertà, che voi siete liberi e che ve la
giocate fino in fondo personalmente fino al voto politico”. Sono rimasto spiazzato dal fatto che lui
con semplicità si è accorto meglio di me che veramente l’unità della nostra esperienza è prima,
prima di qualsiasi mossa, prima di qualsiasi crocetta sulla scheda, che l’unità vera è possibile se c’è
uno che unisce, uno che non ha paura di sfidarmi, anzi, che vuole sfidarmi perché ha a cuore la mia
crescita più della compattezza politica. Questa unità è una presenza, tanto che permette a uno che 4
non ci conosce e che ha idee diverse dalle nostre di riconoscere che in questa compagnia vale la
pena starci, che qui c’è quella promessa di cui parlavi dopo il Sinodo. Ha chiesto di poter venire alla
Scuola di comunità mercoledì sera. Ti ringrazio perché questa circostanza elettorale per niente
limpida, spesso da me considerata come una situazione da sopportare tappandosi il naso, sta
diventando occasione di educazione in cui è amata la mia libertà fino all’ultima implicazione, il
voto, e in cui a tema veramente c’è la mia esperienza cristiana, c’è la mia fede, ma non la fede come
alibi per disinteressarmi delle cose concrete, bensì l’incontro cristiano come la cosa più concreta per
entrare libero e desideroso e affamato. La mattina mi alzo e mi chiedo: oggi cosa aspetto
veramente? Cosa cerco? Io aspetto lo sguardo di Cristo che ha a cuore tutta la mia umanità. Solo
questo mi rende libero».
5) Scopo dell’educazione. «Scopo della educazione è quello di formare un uomo nuovo; perciò i
fattori attivi della educazione debbono tendere a far sì che l’educando agisca sempre più da sé [cioè,
che non dipenda passivamente da altri, ma affronti sempre più da sé l’ambiente, cioè le sfide della
vita]. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre più a contatto con tutti i fattori dell’ambiente,
dall’altro lasciargli sempre più la responsabilità della scelta» (L. Giussani, Il rischio educativo,
Rizzoli, Milano 2005, pp. 103-104). Non facciamo il contrario! Non togliamo il rischio della scelta,
come se avessimo già risolto noi la questione! Già la politica è svuotata di ogni partecipazione; resta
soltanto la possibilità di andare a votare, ma se anche questa decisione ce la risparmiamo (o se la
vogliamo risparmiare agli altri), che tipo di educazione stiamo dando? Invece di riempire di
contenuto il punto uno della Nota, da cui trarre tutta la chiarezza per il punto due, noi di fatto
svuoteremmo educativamente l’uno e il due scivolando subito sul punto tre. Se questo fosse lo
scopo del movimento, a me non interesserebbe.
Per questo a me sembra che questa tornata elettorale sia un’occasione preziosa, in questo Anno
della Fede, per capire la natura stessa della fede. Come ho già detto nell’intervista al Corriere della
sera di un anno fa, noi teniamo a una esperienza di fede che ha a che vedere con tutto, fino alla
politica, proprio per la natura della fede. Ma affermare questo non implica “saltare” quel relativismo
di cui parlava Ratzinger, che è della natura stessa della politica. Aiutarci a capire questo può essere
un passo importante, perché qui ci giochiamo la natura stessa dell’esperienza cristiana.
Ascoltate cosa ci dice il beato Giovanni Paolo II nella Christifideles Laici: «Nella loro esistenza non
possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita cosiddetta “spirituale”, con i suoi valori e
con le sue esigenze; e dall’altra, la vita cosiddetta “secolare”, ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei
rapporti sociali, dell’impegno politico e della cultura. Il tralcio, radicato nella vite che è Cristo,
porta i suoi frutti in ogni settore dell’attività e dell’esistenza. Infatti, tutti i vari campi della vita
laicale rientrano nel disegno di Dio, che li vuole come “luogo storico” del rivelarsi e del realizzarsi
della carità di Gesù Cristo a gloria del Padre e a servizio dei fratelli. Ogni attività, ogni situazione,
ogni impegno concreto – come, ad esempio, la competenza e la solidarietà nel lavoro, l’amore e la
dedizione nella famiglia e nell’educazione dei figli, il servizio sociale e politico, la proposta della
verità nell’ambito della cultura – sono occasioni provvidenziali per un “continuo esercizio della
fede, della speranza e della carità”» (Esortazione Apostolica Christifideles laici, n. 59).
Per questo partire dal nostro bisogno di chiarezza aiuta, in tutte le discussioni, a sfidarci l’un l’altro
a un uso non razionalistico della ragione, ponendo domande, dando ragione della nostra scelta, per
vedere se è in grado di stare in piedi davanti alle obiezioni di chi − come me − è alla ricerca del
bene comune. Allora forse scopriremmo che quello che pensiamo di aver capito non è così evidente,
che forse non abbiamo capito, che occorre ripartire dal punto uno, due, tre della Nota. Riempirli di
carne, di ragioni, di esperienze. E se incontriamo alcuni che non hanno fatto questo percorso perché
pensano che tutto è già risolto, non è che rifacciamo loro la lezione; no, occorre entrare in merito a
quello che dice uno, a quello che dice un altro sfidando con le ragioni, i dati, la loro posizione, per
aiutarci insieme a fare chiarezza. Ma se non facciamo noi per primi il percorso, se non prendiamo
sul serio le domande (per esempio: «Ma siamo veramente sicuri di sapere come stanno le cose?»,
«Abbiamo avuto presente questo o quel fattore?»), non ci aiutiamo. Non è che il primo che passa 5
per la strada, chiunque sia, mi può dire che è tutto chiaro senza darmi le ragioni, perché in questa
materia l’unico argomento di autorità sono le ragioni che porti. In questo ambito, possiamo dire per
analogia, non c’è un «diritto rivelato» (neanche per i più esperti), neppure la Chiesa ce l’ha.
Guardate cosa ha detto Benedetto XVI nel famoso discorso del Bundestag: «Ogni persona che ha
responsabilità deve cercare lei stessa i criteri per il proprio orientamento». E perché deve farlo?
Perché «contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai [mai!] imposto allo
Stato e alla società un diritto rivelato. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali fonti vere
del diritto […], riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti [che poi è la chiave, secondo me,
di tutto quanto] la ragione e la natura nella loro correlazione» (Benedetto XVI, Discorso al
Parlamento Federale di Berlino, 22 settembre 2011), riconoscendo cioè come fonte di conoscenza
l’esperienza (per questo Giussani ha insistito sempre che «la realtà si rende trasparente» nella
esperienza). Se la fonte per decidere non viene dall’esperienza stessa che facciamo nella comunità
cristiana, noi stiamo riconoscendo di fatto che la fede non è capace di generare un soggetto in grado
di chiarirsi su queste cose, e inevitabilmente la fonte del giudizio la prenderemo altrove, al di fuori
della fede.
Così torniamo all’origine del movimento. Perché questo ha fatto don Giussani: «Non sono qui
perché voi riteniate come vostre le idee che vi do io, ma per insegnarvi un metodo vero per
giudicare le cose che io vi dirò» (Il rischio educativo, p. 20). Quale era il metodo? L’esperienza:
paragonare tutto con le esigenze del cuore. Se non arriviamo a questo, a me degli schieramenti non
interessa niente, perché vorrebbe dire che noi alla fine attingiamo i criteri per la scelta elettorale al
di fuori dell’esperienza stessa che facciamo. È questo che è in gioco oggi. Se l’esperienza della fede
ci aiuta a raggiungere un giudizio, pur contingente, anche in politica, questo giudizio, pieno di
ragioni, può diventare l’inizio di un dialogo con gli altri. È solo in questa comunicazione delle
proprie ragioni che manteniamo quella tensione «nella ricerca dell’unità» anche nella politica in
funzione della testimonianza della fede, di cui don Giussani ci ha sempre parlato.
Ma questo è il problema educativo nostro, questo è il problema del movimento, perché per noi il
tornante elettorale è un’occasione per dire che cos’è la fede e che il contributo della fede ha anche
un valore civile e politico, altrimenti noi finiamo col considerare la fede un richiamo spirituale, una
cosa interna − “per noi” −, ma poi nell’agone politico dobbiamo usare altri criteri. Questo è il nostro
principale contributo culturale in questo frangente: il porsi di un soggetto ecclesiale. È molto
significativo l’esempio che don Giussani propone riguardo al primo livello della Nota: «La
moltiplicazione e la dilatazione di comunità cristiane vitali e autentiche non può che determinare la
nascita e lo sviluppo di un movimento il cui influsso sulla società civile tende inevitabilmente ad
essere di sempre maggior rilievo […]. Se è lecito ancora paragonare le cose piccole con quelle
grandi, vorrei richiamare qui l’esempio del movimento benedettino. […] Questo movimento giunse
fino a influenzare “il codice della vita civile di allora” grazie al moltiplicarsi, a centinaia e migliaia,
della sue comunità di preghiera e di lavoro, attorno alle quali la vita civile stessa si ricoagulava e
riprendeva consistenza» (L. Giussani, Il Movimento di Comunione e Liberazione, Jaca Book,
Milano 1987, p. 119). Altro che scelta religiosa! Invece, quanto più il cristianesimo è svuotato del
suo spessore storico, vale a dire quanto più la fede è vissuta in modo ridotto, rifiutata nella sua
capacità di investire la totalità del soggetto, tanto più si riversano sulla “politica” (in senso stretto)
le nostre aspettative di cambiamento, di incidenza. Come mi diceva sempre un amico, nessuno di
noi ricorda chi era il re al tempo di san Benedetto, ma tutti si ricordano di san Benedetto. Questa è
l’incidenza storica della comunità cristiana.
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