.....Non si capisce come si possa varare una legge su basi così opache e inquietanti.
È giusto tener conto delle legittime preoccupazioni delle famiglie, ma anche di quelle che considerano con terrore la tendenza a bollare i bambini in difficoltà come disturbati. Vorrei concludere con un’osservazione su cui sono certo di trovare il sostegno del dottor Molteni. È da augurarsi che a nessuno venga in mente l’idea di proporre screening e schedature di massa dei nostri bambini. Perché allora sì che saremmo oltre ogni limite accettabile. I censimenti di massa volti al “miglioramento” della popolazione hanno un chiaro precedente: l’eugenetica dei clinici fascisti degli anni Trenta.....
«Siamo tutti diversamente normali oppure oggi Leopardi sarebbe da psicofarmaci? Per il bene delle famiglie, qui urge chiarire dove sta il confine tra sano e patologico», replica il professor Israel al dottor Molteni
di Giorgio Israel
A lato: una precisa immagine del Pensiero Dominante leopardiano la forniscono certe torri irlandesi.
Gentile dottor Molteni, la sua lettera è attraversata da una divisione netta. Nella prima parte lei sostiene, più radicalmente di me, concetti che condivido: parla di medicalizzazione della vita, di definizioni che allargano smisuratamente la platea dei “disabili”, di pretese assurde di imporre standard, del prepotere degli esperti.
Nel mio recente libro Per una medicina umanistica ho difeso una medicina che guardi alle persone, che risponda al “sentirsi malato” e non si concentri soltanto sull’“essere malato” (la malattia del medico), ricordando con Canguilhem che «è innanzitutto perché gli uomini si sentono malati che esiste la medicina». Il medico ha il compito precipuo di rispondere a una richiesta di aiuto, con l’arsenale scientifico di cui dispone, e non di imporre un’idea astratta di normalità. Difatti, la normalità è soltanto in parte un fatto oggettivo, bensì anche l’espressione di una visione, di un progetto, di norme che emanano dal soggetto.
Poi però lei cambia passo e si chiede perché la sanità debba curare solo le malattie. Qui emerge una contraddizione. Se la distinzione tra normale e patologico è fluttuante ed è persino difficile dare una definizione di malattia, la medicina può demarcare il proprio campo solo in un modo: partendo dalla domanda di aiuto di chi “si sente” malato e occupandosi di patologie acclarate. Con quali pretese la medicina può dilagare fuori da questi confini? Per scoprire patologie invisibili in una vita normale? Sono noti i rischi degli eccessi analitici. Per preservare i sani da malattie possibili? Forse, ma astenendosi dagli eccessi di zelo di cui è esempio la crescente tendenza a considerare l’alimentazione come una cura e non più come un piacere. Per perseguire uno stato ottimale e la felicità delle persone? Sarebbe il colmo dell’aberrazione. Come lei giustamente dice, la felicità è qualcosa di complesso e non quantificabile. Aggiungo, non oggettivabile. Chi e con quale diritto può decidere cosa sia la felicità per me? Non potrei voler vivere triste, felicemente triste? Giacomo Leopardi avrebbe dovuto essere per forza giocondo secondo i parametri di felicità definiti da una commissione? Di passaggio, colpisce la progressiva sparizione della parola “tristezza”. Se uno è triste si dice che è “depresso” e per lui è già pronto il blister di ansiolitici.
Misurare la felicità è totalitario
Lei difende l’ingresso della medicina nel campo dell’apprendimento, con l’argomento che anche la scuola deborda dall’istruzione all’educazione. Ma questo esempio è fallace. La scuola educa soprattutto fornendo conoscenza e capacità di conoscere, in base a un principio fondamentale: la conoscenza è libertà. A scuola ci si addestra anche alla convivenza, al lavoro, alla competizione, al merito. Niente più. Se la scuola va oltre e pretende di fornire un’educazione globale, etica, morale, e persino affettiva e amorosa (l’“educazione all’affettività”), travalica pericolosamente il suo compito. Nella tenaglia tra una medicina che deborda nel campo della “normalità”, dell’apprendimento e del perseguimento della felicità, e una scuola che educa globalmente la persona, vengono schiacciate e distrutte la persona e la famiglia. È la situazione che lei bene descrive parlando della trasformazione illusoria della felicità in obiettivo quantificabile e misurabile, che travolge tutti, atei e credenti. Anche se i più travolti sono quei credenti che, dimenticando il Signore del roveto ardente a favore del vitello d’oro, credono che la felicità sia un fatto di “benessere”, magari materiale o neuronale, e sviliscono il ruolo educativo della famiglia.
I pilastri di una società libera sono il principio di John Stuart Mill secondo cui «ciascuno è l’unico autentico guardiano della propria salute sia fisica sia mentale e spirituale», la scuola nel senso anzidetto, la famiglia come luogo primario dell’educazione affettiva e morale. Una società in cui persone e famiglie sono sotto il controllo delle strutture educative e sanitarie è malata di totalitarismo. I confini vanno quindi mantenuti e una sanità che esonda conduce a quella medicalizzazione della vita che lei giustamente deplora.
Il discorso sul tema specifico del ruolo della medicina nei disturbi di apprendimento sarebbe lungo e mi limito a poche osservazioni. Se è vero, come lei dice, che le linee guida hanno modificato il valore di normalità del colesterolo (e aggiungerei della pressione) al punto da evidenziare la scarsa oggettività di quei criteri, mi sfugge come si possa attribuire maggiore attendibilità ai test dei Dsa o dell’Ahdh e non vi sia anche qui un rischio di espandere la platea dei disturbati.
Quantomeno, nel caso del colesterolo o della pressione, siamo di fronte a grandezze fisiche misurabili, mentre nel secondo caso di misurabile non c’è assolutamente nulla, se la parola “misura” ha ancora un senso scientifico. Prendiamo un caso su cui ritengo di poter dire qualcosa: la cosiddetta discalculia. Come diagnosticarla? Esaminando direttamente i processi cognitivi connessi? Esistono, al riguardo, visioni assai diverse e controverse. Quando poi assistiamo alle idee confuse di certi “esperti” circa la differenza tra numero, parole e simboli e circa i processi di calcolo mentale, c’è da tremare al pensiero di cadere in simili mani. Per giungere a qualche conclusione occorrerebbe un’infinita prudenza, la valutazione di tanti fattori personali e ambientali, un’accurata anamnesi, e la somma di più competenze – iniziando con l’insegnante per passare soltanto in ultimissima istanza al “consulto” dello psichiatra – prima di classificare un bambino come Dsa. Fare diagnosi “materiali”, per esempio con la risonanza magnetica? Di male in peggio perché l’abisso che intercorre tra processi neuronali e processi mentali è enorme e non autorizza a dedurre conclusioni dall’analisi dei primi. Lei sa bene – come tutti gli studiosi seri, non quelli da rotocalco – che troppo spesso la risonanza magnetica viene usata per deduzioni fantasiose, basate su esperimenti non riproducibili e sul mappaggio di compiti elementari che nulla hanno a che fare con la complessità dei comportamenti umani, per non dire dei pensieri.
Le opache definizioni del ddl
Emerge inoltre una contraddizione clamorosa. Il disegno di legge sui Dsa parla di “disturbi” «in presenza di capacità cognitive adeguate e in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali». Su questa base, chi parla di malattie viene trattato da sciocco (come se il prefisso dis- non significasse la negazione di uno stato di normalità, in una visione qualitativa dell’organismo che pone una barriera nettissima tra normalità e patologia). Poi però molti esperti si affrettano a parlare di “disfunzioni di moduli neuronali”, di “alterazione dei circuiti cerebrali” e altro. Viene da dire: mettetevi d’accordo. Questa situazione pasticciata è frutto della tensione tra le famiglie che comprensibilmente vogliono che i loro bambini ricevano cure speciali senza essere considerati anormali, e chi (meno comprensibilmente) mira a espandere la platea dei disabili includendovi i Dsa. Non si capisce come si possa varare una legge su basi così opache e inquietanti.
È giusto tener conto delle legittime preoccupazioni delle famiglie, ma anche di quelle che considerano con terrore la tendenza a bollare i bambini in difficoltà come disturbati. Vorrei concludere con un’osservazione su cui sono certo di trovare il sostegno del dottor Molteni. È da augurarsi che a nessuno venga in mente l’idea di proporre screening e schedature di massa dei nostri bambini. Perché allora sì che saremmo oltre ogni limite accettabile. I censimenti di massa volti al “miglioramento” della popolazione hanno un chiaro precedente: l’eugenetica dei clinici fascisti degli anni Trenta.
Nessun commento:
Posta un commento