giovedì 3 aprile 2008

LA MIA VITA FINISCE MA I SOGNI NO

È pieno di vita, la prova provata che dei sogni può restare qualcosa anche quando si è arrivati alla fine della corsa. E che non conta realizzarli davvero. Per usare le ultime parole di Pausch, e ultime, in questo caso, non è un aggettivo qualunque: «Avete capito la finta di gambe? La lezione non è su come realizzare i vostri sogni. Ma su come vivere la vostra vita. Se la vivrete nella maniera giusta... saranno i vostri sogni a raggiungervi».

«Una cosa che ho imparato» le ho ribattuto, «è che quando i genitori dicono certe cose ai figli, questi cercano giustamente conferme dal mondo esterno. Se faccio ridere e applaudire una platea al momento giusto, agli occhi dei nostri figli avrò dato solennità al mio discorso». Jai ha sorriso: a me, il suo showman moribondo - e finalmente ha ceduto.

È un docente di 47 anni, ha un cancro, dei bimbi piccoli. Allora ha dovuto trovare il modo di restar loro vicino...
Tratto da Il Giornale del 2 aprile 2008



Randy Pausch è un professore universitario di informatica mediamente bravo, insegnava alla Carnagie Mellon University. Essendo anche un sognatore ha progettato realtà virtuali e collaborato con la Disney. È un uomo che porta bene i suoi quarantasette anni sotto l’abbronzatura e che ha una bella moglie e tre figli. Ma sin qui, non ci sarebbe nulla di speciale, nessun motivo di parlare di lui.

Randy Paush ha una malattia incurabile, un cancro che gli ha riempito il fegato di metastasi. E anche in questo caso, purtroppo, non ci sarebbe niente di speciale, perché sono molte le persone che vengono colpite da malattie che non lasciano scampo. Sono drammi comuni, ferocemente comuni.

Randy Paush, però, ha fatto qualcosa che molti non trovano la forza, o il modo, di fare. Appena ha saputo della sua malattia ha cercato un sistema per lasciare una testimonianza, un messaggio a chi resta. Soprattutto ai suoi figli. Lo ha fatto nel modo che più gli veniva congeniale. Essendo un professore, ha deciso di fare un’ultima lezione. Non di informatica. Nemmeno, e sarebbe stato comprensibile il contrario, sulla morte. Una lezione sulla vita piuttosto, su come appare a guardarla dai suoi lembi.

Così si è presentato in un’aula, gremita da più di quattrocento persone e qualche telecamera, armato di questo titolo: Realizzare davvero i sogni dell’infanzia. Una «prolusione» accademica, senza commiserazione, piena di gag, di battute, di ironia e con un unico scopo: «Rinchiudere tutto me stesso in una bottiglia che poi un giorno i miei figli avrebbero aperto». E così per più di un’ora ha raccontato di sé, dei suoi sogni di ragazzino, delle cose che lo hanno aiutato a crescere, di quello che considera giusto e di quello che considera sbagliato. Ha raccontato gli episodi della sua vita più importanti, aiutato da centinaia di slide, ripetendo che l’importante è avere sogni e cercare di realizzarli.

Il filmato di questi settantacinque minuti, costellati di applausi, sono finiti su internet. Dove li hanno guardati milioni di persone, commosse da un uomo capace di dire: «Non so come si fa a non divertirsi. Sto per morire e mi diverto. E ho intenzione di divertirmi per ogni singolo giorno che mi resta. Perché non c’è altro modo di vivere». Visto l’inaspettato successo, con l’aiuto del giornalista Jeffrey Zaslow, il testo della lezione è stato ampliato, arricchito. È diventato un libro che uscirà in quattordici Paesi. In Italia è in libreria da oggi e si intitola: L’ultima lezione. La vita spiegata da un uomo che muore (Rizzoli, pagg. 233, euro 15, trad. L. Carrozzo, F. S. Chiapponi, F. Coratelli).

Il testo mantiene la spontaneità, che non è incoscienza, della lezione. È pieno di vita, la prova provata che dei sogni può restare qualcosa anche quando si è arrivati alla fine della corsa. E che non conta realizzarli davvero. Per usare le ultime parole di Pausch, e ultime, in questo caso, non è un aggettivo qualunque: «Avete capito la finta di gambe? La lezione non è su come realizzare i vostri sogni. Ma su come vivere la vostra vita. Se la vivrete nella maniera giusta... saranno i vostri sogni a raggiungervi».

Il prof che fa lezione con la propria morte
Il singolare video testamento di Randy Pausch è diventato un libro: « È un discorso su quanto apprezzi l’esistenza, sebbene me ne resti davvero poca»

Molti professori intitolano le loro conferenze L’ultima lezione. Probabilmente avrete partecipato anche voi a una o più di esse. È ormai una pratica comune nei college. Ai professori si chiede di immaginare la propria scomparsa e di ripensare alle cose che ritengono più importanti.

A quell’epoca mi avevano già diagnosticato un cancro al pancreas, ma restavo ottimista. Potevo essere tra quei pochi fortunati che riescono a sopravvivere.

A metà agosto mi hanno detto che bisognava mandare in stampa la locandina della conferenza; dovevo decidere l’argomento. Quella stessa settimana mi hanno dato la notizia: la cura cui mi stavo sottoponendo non funzionava. Mi restavano pochi mesi di vita. Sapevo che avrei potuto disdire la lezione. Avrebbero capito.

«Si aspetteranno che rinunci» ho detto a mia moglie Jai. «E io invece voglio farla davvero». Jai mi ha sempre incoraggiato, ha sempre saputo condividere ogni mio entusiasmo, ma su quest’ultima lezione nutriva qualche dubbio.

Ma l’idea della lezione non mi usciva dalla testa. Ero arrivato a concepirla come il canto del cigno della mia carriera, un modo per dire addio alla mia «famiglia di lavoro». Mi ritrovavo persino a immaginare quella lezione come un battitore a fine carriera che si prepara a scaraventare l’ultima palla in curva. Mi era sempre piaciuta la scena finale del Migliore, quando il vecchio e ferito Roy Hobbs riesce miracolosamente in quel magico fuoricampo.

C’era anche altro che bolliva in pentola. Avevo cominciato a considerare la lezione come un viatico per catapultarmi in quel futuro che non avrei vissuto. Ho fatto notare a Jai l’età dei bambini: cinque anni, due e uno. «Senti» le ho detto, «penso che Dylan, avendo cinque anni, conserverà un ricordo di me. Ma quanto sarà reale? Cosa ci ricordiamo effettivamente io e te di quando avevamo cinque anni? Dylan avrà memoria di quando giocavo con lui o delle cose che ci facevano divertire? Nella migliore delle ipotesi sarà un vago ricordo. E che dire di Logan e Chloe? Probabilmente non ne avranno nessuno. Specialmente Chloe. E non solo: quando i bambini avranno forse dodici o tredici anni attraverseranno la fase in cui sentiranno il bisogno di sapere e chiederanno: “Chi era mio padre? Com’era?”. Questa lezione potrebbe essere parte della risposta».

Jai mi ha ascoltato, poi mi ha rivolto una domanda ovvia: «Se ci sono cose che vuoi dire ai bambini, o consigli che vuoi dar loro, perché non metti la videocamera su un cavalletto e ti riprendi qui in salotto?».

Forse questa osservazione colpiva nel segno. Ma forse no. Come un leone nella giungla, il mio habitat naturale era ancora il campus universitario, davanti agli studenti. «Una cosa che ho imparato» le ho ribattuto, «è che quando i genitori dicono certe cose ai figli, questi cercano giustamente conferme dal mondo esterno. Se faccio ridere e applaudire una platea al momento giusto, agli occhi dei nostri figli avrò dato solennità al mio discorso». Jai ha sorriso: a me, il suo showman moribondo - e finalmente ha ceduto.

Ho sempre ragionato per immagini, quindi sapevo che la lezione si sarebbe snodata senza testo - senza copione. Ho messo insieme trecento immagini della mia famiglia, dei miei studenti e colleghi, con una decina di illustrazioni insolite che potessero rendere l’idea dei sogni dell’infanzia.

Dopo avere invitato i presenti a sedersi, li ho ringraziati per essere intervenuti, ho fatto un paio di battute e poi ho detto: «Se ci fosse fra voi qualcuno entrato per caso che non conosce i retroscena, non si preoccupi; mio padre mi ha insegnato che un elefante nel salotto non passa inosservato, meglio presentarlo. Se date un’occhiata alle mie Tac noterete circa dieci metastasi al fegato. I medici mi hanno detto che mi restano dai tre ai sei mesi di ottima salute. Questo un mese fa».

«Va bene» ho detto «tutto qua. Non c’è proprio niente da fare. Possiamo solo decidere come reagire. Non possiamo cambiare le carte in tavola, ma soltanto giocare al meglio la mano».

Fra le risate e gli applausi sorpresi della platea mi sembrava quasi di sentire tutti liberarsi della propria ansia. Non si trattava semplicemente di un moribondo qualsiasi.

Si trattava di me. Potevo cominciare.

Uno dei miei primissimi sogni d’infanzia era essere il ragazzo più figo di ogni luna park o fiera cui andassi. Ho sempre saputo come riuscirci. Individuare il più figo è sempre stato facile: era quello che si aggirava con il peluche più grosso... Non avete mai usato un peluche per corteggiare una donna? Io sì... E l’ho sposata!

... provate, provate con un luogo comune. Mi piacciono i luoghi comuni. La maggior parte. Ho grande rispetto per i vecchi stereotipi. Per come la vedo, la ragione per cui così spesso si ripropongono gli stereotipi è perché raramente sbagliano.

Chi mi conosce a volte si lamenta del fatto che per me le cose sono o bianche o nere. In effetti, qualche mio collega potrebbe dire: «Se cerchi un consiglio netto, o bianco o nero, vai da Randy. Ma se cerchi un’idea o un consiglio che abbia una qualche sfumatura, non è lui la persona giusta». Okay. Ammetto di essere colpevole, e da giovane ero peggio. Dicevo che la mia scatola di pastelli conteneva solo due colori: bianco e nero. Credo sia questo il motivo per cui mi piace l’informatica, perché quasi tutto o è vero o è falso. Invecchiando, però, ho imparato a capire che una buona scatola di pastelli ha più colori.

Poi ho detto loro che il discorso non era rivolto solo ai presenti in aula. «È pensato per i miei figli». Ho cliccato sull’ultima slide: era una mia foto in cui sto in piedi vicino alle altalene con in braccio Logan sorridente, a destra, e la dolce Chloe, a sinistra. Dylan è seduto felice sulle mie spalle.



Nessun commento: