Antonio Socci
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venerdì 17 luglio 2009
In Spagna l’hanno chiamata “generación ni-ni”, una ricerca pubblicata di recente su El País dice che vi fanno parte il 54 per cento dei giovani spagnoli tra i 18 e i 35 anni. E il nostro paese, ma la cosa dopo tutto non può stupire, non ne è immune. I dati, resi noti dal Corriere, del Rapporto giovani 2008 confermano che il male è anche nostro: un milione e 900mila giovani tra i 25 e i 35 anni non studia e non lavora. Non lo ritengono necessario, semplicemente. Basta loro vivere nel limbo tra studio e occupazione, senza impegnarsi seriamente con alcuna ipotesi di vita. Ma è sufficiente la sociologia a dirci perché? Ilsussidiario.net lo ha chiesto ad Antonio Socci.
Quali sono le origini storiche che hanno portato al deludente risultato di una generazione “né né”?
In primo luogo ci tengo a precisare che personalmente sono un po’ diffidente verso le “scoperte del giorno”. La stampa vive spesso di queste invenzioni. I fenomeni sociali veri, profondi e importanti di questo genere non nascono come funghi dall’oggi al domani. Questo tipo di situazione descritta dal El País mi sembra un fenomeno noto e stranoto, conosciuto da anni e che riguarda la condizione giovanile tout court, anche se nei diversi decenni magari si è tradotta e declinata in differenti maniere. Sono convinto che dagli anni ’70 in poi si abbia sempre più avuto a che fare da una parte con la questione della disoccupazione o dell’impatto con il mondo del lavoro, e, dall’altra, con il fatto che le famiglie italiane sono un ammortizzatore sociale molto importante che permette una permanenza abbastanza (forse troppo) prolungata in un luogo stabile.
Però i numeri di questo fenomeno ci sono e parlano chiaro.
Io non credo che il fenomeno sia delle dimensioni denunciate. Con quale criterio si può verificare lo stato delle singole motivazioni? Però certamente la tendenza denunciata c’è. Non è una tendenza che riguarda soltanto i giovani, ma è una posizione dilagante. È quel modo di concepire l’esistenza che Teilhard de Chardin definiva «il venire meno del gusto del vivere», una posizione che ha connotati diversi ma non è che sia meno presente o meno drammatica nei ceti sociali cosiddetti “rampanti”, così desiderosi di mordere la vita che tirano di cocaina in continuazione per lavorare ancora di più. Sono due facce della stessa medaglia che hanno alla loro radice la fine della paternità, la delegittimazione di tutti coloro che propongono un senso della vita e un motivo per vivere.
Sintomi di questo modo di concepire l’impegno con la vita erano presenti anche nelle generazioni passate o quest’ultime erano affette da altre “malattie sociali”?
Trovo che tutta la generazione degli anni ’70, divenuta oggi classe dirigente, fosse minata da un tarlo, da un veleno pericoloso che ha prodotto devastazioni: il veleno dell’ideologia. Un’intossicazione che ha in qualche modo continuato a mietere vittime anche fra le fila delle generazioni successive, come ha scritto benissimo in un libro molto bello Stefano Borselli, Addio a Lotta Continua. Borselli fa un bilancio drammatico in cui usa parole che la generazione sessantottina non ama sentire e che ha addirittura “cancellato” dalla cultura. Parla di pentimento, di perdono e di quella generazione che ha prodotto tutto e il contrario di tutto.
I giornali legano il fenomeno anche alla crisi economica in atto, secondo lei questa sta davvero esercitando un ruolo rilevante nello scoraggiare le ultime generazioni?
Su questa analisi non sono assolutamente d’accordo, e anche qui mi sorge il sospetto che sia funzionale a coprire il vuoto lasciato da un’assenza di spiegazioni profonde. Il primo a tirar fuori il problema di questa generazione è stato, con un’uscita alquanto infelice, il ministro Padoa Schioppa quando apostrofò i giovani in difficoltà economiche con il termine “bamboccioni”. Tra l’altro era un momento in cui da un punto di vista statistico la disoccupazione italiana era ai minimi storici. Già allora si ricorse, da parte di chi difese l’attuale generazione, a motivi economici per giustificare il fenomeno. Giusto ma non esauriente. Perché perfino un marziano riuscirebbe ad accorgersi che i sintomi di questo atteggiamento sfiduciato nei confronti della realtà affondano nella storia sociale. Dai presupposti ideologici di cui ho parlato non si poteva che sfociare in simili reazioni.
I giornali parlano anche di una carenza di motivazioni. Secondo lei è questione più di accidia o di ignavia?
Quando si va a toccare la sfera personale, delle delusioni, delle solitudini o anche solo delle domande, è sempre molto difficile generalizzare. Ognuno fa storia a sé. Certo anche se il non fare nulla fosse una via di fuga, occorre ricordare che la delusione e la sconfitta fanno parte anche della vita di chi non ha problemi sul lavoro, rientrano nella dimensione esistenziale di tutti. L’unica vera emergenza è l’enorme difficoltà che queste generazioni hanno ad incontrare persone che comunichino un senso per la vita e un gusto per la vita. È come se la cultura contemporanea e dominante fosse strutturata in qualche modo proprio per impedire che queste presenze siano incontrabili o per delegittimarle, renderle, se si vuole, invisibili.
Qual è stato l’errore educativo, se c’è stato, che ha causato questa reazione sociale?
C’è al giorno d’oggi un prolungamento della vita in famiglia senza che questo implichi una qualche adesione a una serie di regole, a un codice. Ormai è da tempo che le famiglie sono molto deboli dal punto di vista educativo. In tutta questa vicenda ci sono anche fenomeni positivi, come la tenuta sociale della famiglia, che di fatto è il fattore fondamentale del welfare state gestito sul privato, una specie di sussidiarietà non riconosciuta.
All’esterno, oltre ai retaggi ideologici che ho sopra descritto, c’è una carenza di proposte. Tutti parlano di emergenza educativa, ma la differenza fra chi ne parla e quello che ha insegnato Luigi Giussani consiste nel fatto che a fianco della preoccupazione educativa di questi stava una proposta che affascina e non un una teoria pedagogica o un piano pastorale.
Una studentessa intervistata dal Corriere ha ammesso di essere una nullafacente aggiungendo la frase “io sto bene così”. Le sembra possibile essere soddisfatti di una simile posizione umana?
Se non sbaglio quella ragazza ha un figlio. Secondo me molto spesso la coscienza che una persona ha di sé non rende giustizia a quello che concretamente è. Quella ragazza vive l’esperienza di un amore e questo non significa essere una nullafacente. La vita inevitabilmente richiama all’urgenza di sé, alla propria umanità e alle proprie domande.
Direi che questa categoria di nullafacenti denunciata dai media rientra a pieno titolo sotto l’accezione di una parola che oggi comprende tutta l’umanità: siamo “anestetizzati”. Per fortuna la vita per com’è continua a risvegliarci in diverse maniere, a volte drammatiche, a volte belle, ma sempre cariche di stupore. Partire dallo stupore, ossia dal domandarsi perché si è al mondo, è il primo passo per uscire dall’anestesia.
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