Massimo Camisasca
ILSUSSIDIARIO.NET
giovedì 26 novembre 2009
L’arte e gli artisti hanno da sempre interessato la Chiesa. È per una ragione che ha attinenza profonda con il cuore stesso del Cristianesimo. Esso non è nient’altro che questo: Dio prende la carne di un uomo per raggiungere gli uomini di ogni tempo e di ogni spazio.
Da allora, dall’Incarnazione, la sorte di Dio e quella degli uomini sono definitivamente congiunte. A dire il vero, tutto ciò era già manifesto nell’atto creativo di Dio. Egli, che rimane trascendente e irraggiungibile, Colui che non può essere guardato in volto dall’uomo, che non può essere compreso dai concetti umani, assume un volto d’uomo e si esprime con le parole degli uomini.
L’Islam, per sottolineare l’assoluta trascendenza di Dio, nega ogni possibilità all’arte figurativa di rappresentarlo. Nelle moschee non ci sono immagini. Solo le parole del Corano, che descrivono meravigliosi arabeschi che, in verità, potrebbero da lontano far pensare a oggetti, a case, financo a persone. Ma tutto infine si risolve nella distanza assoluta di fronte all’Eterno.
La Chiesa ha dovuto sostenere la lotta iconoclasta. Di fronte a una possibile idolatria nei confronti delle icone, nell’VIII secolo, il Papa dovette precisare: “No all’adorazione delle immagini, sì alla rappresentazione del divino attraverso forme umane”. Negare questo avrebbe voluto dire colpire al cuore il mistero stesso dell’incarnazione.
Per tutte queste ragioni, la storia dell’arte occidentale, fin dal secondo e terzo secolo, è segnata dal racconto degli eventi della storia della salvezza. Dal Buon Pastore delle catacombe nascerà una serie infinita di artisti. Solo rammentare alcuni di questi nomi ci dà la percezione dell’imponenza di ciò che è nato, nel campo dell’arte e non solo della pittura, ma anche della musica e dell’architettura, dal Verbo fatto carne.
Le diverse sensibilità possono essere più attratte da Giotto o dall’Angelico, da Simone Martini o da Duccio di Boninsegna, da Piero della Francesca o da Masaccio, da Raffaello o da Michelangelo, da Tiziano o… A un certo punto, però, la catena si interrompe. Non manca una continuità di temi, ma essa si fa sempre più esteriore, formale, manieristica, ai temi cristiani si sovrappongono quelli pagani. Bisogna allora tornare all’arte e agli artisti, ma per un’altra strada: non più attraverso i temi della storia sacra, ma attraverso i temi della vita, attraverso i drammi dell’esistenza, di cui parole, suoni e dipinti portano ricca testimonianza.
Se il Settecento e l’Ottocento hanno in un certo senso segnato una cesura profonda con il passato dal punto di vista tematico, è rimasta la grande capacità degli artisti di catturare le domande dell’uomo. Se non hanno più ritratto Dio, hanno continuato a parlare dell’esistenza e delle sue questioni fondamentali. Si è aperto così un altro filone fecondo di incontro tra la Chiesa e gli artisti, che le iniziative di Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno cercato di catturare.
Paolo VI ha operato il miracolo di un riavvicinamento. Si è curvato con umiltà sugli artisti per dire loro: «Abbiamo bisogno di voi». Da sempre sensibile all’arte contemporanea, ha creato in Vaticano una vera e propria collezione di opere create dai più grandi artisti del nostro tempo. Arrivò a dire che bisogna far coincidere il sacerdozio con l’arte
Giovanni Paolo II ha scritto una lettera agli artisti in occasione dell’anno giubilare del Duemila. Forse non era ancora il tempo per un nuovo incontro fisico. Questo l’ha voluto Benedetto XVI. Nella cappella Sistina, dunque, non solo si sono ritrovati Pietro e tanti interpreti dell’arte del nostro tempo. Essi si sono incontrati nel luogo in cui si eleggono i Papi, con il Perugino, il Botticelli, il Ghirlandaio. Con Michelangelo, con la storia del mondo come alleanza tra Dio e l’uomo.
A tutti questi fatti si è ricollegato Benedetto XVI. Fatti che riguardano la sua stessa vicenda personale, la sua sensibilità, la sua teologia, che mette la carità e la bellezza come strade inscindibili del cammino verso la verità. Non è un caso che i due grandi maestri di Ratzinger siano stati sant’Agostino e san Bonaventura.
Profeticamente Paolo VI aveva detto, alla fine del Concilio: «Il mondo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione». Sempre di più il pontificato di Benedetto XVI, con una sua peculiarità evidente, mi sembra riprendere i temi fondamentali del pontificato montiniano.
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