.....Per me, che Giussani non l’ho mai visto, quest’uomo
conosciuto soltanto nella sua eredità di affetti e parole è stato un
ricostruttore: ha riedificato quella struttura umana cristiana che molti della
mia generazione avevano perduto. Ci ha detto che è vero ciò in cui credevano i
padri dei padri; che ha un senso sposarsi per sempre, e avere dei figli, e
continuare la storia. (Come il restauro di un tesoro sommerso, ossidato dal
tempo, confuso nella memoria).
E il fiore del monte Faloria? Beh, quel fiore
è una faccenda fondamentale. Perché la bellezza, ho imparato nei libri di
Giussani, è segno, che potentemente rimanda all’Altro. Orma sui nostri sentieri,
lasciata per chi liberamente voglia riconoscerla. O apparentemente abbandonata
in terre senza nessuno, come quella genziana. Gratuitamente, verginalmente
adorante il suo creatore. Come forse infantilmente avevo intuito – fedele a una
domanda originaria – quel giorno in montagna. E poi dimenticato. Quel prete mai
incontrato mi ha spiegato che tutto è ancora e sempre vero. Da quell’istante che
ha tagliato la storia, con il vagito di un bambino.......
Tempi 22 Febbraio 2010
«Per me che non l’ho mai visto, quest’uomo conosciuto soltanto nella sua eredità ha riedificato quella struttura umana cristiana che la mia generazione aveva perduto». Marina Corradi ricorda il fondatore di Cl
di Marina Corradi
Avrò avuto nove anni quando un giorno, guardando in giù dal finestrino di una funivia delle Dolomiti, notai un fiore viola, solo, bellissimo, abbarbicato sulle rocce a picco, sospeso sull’abisso. È strano come certe cose apparentemente insignificanti ti restino in mente: mi ricordo che mi domandai che senso avesse quel fiore così bello, in una piega della roccia in cui non lo avrebbe visto mai nessuno. Però non posi neppure la domanda agli adulti che erano con me. Non ero certa che fosse una domanda sensata.
Quel fiore del monte Faloria, nella mia memoria, è legato a don Luigi Giussani. Benché io Giussani non l’abbia mai conosciuto. L’ho solo letto, ho solo incontrato gente che lo ha seguito. Sono una “figlia” indiretta, come potrebbero esserlo i ragazzi di oggi, che la sua faccia non l’hanno vista mai.
Dunque, quel fiore era in realtà una faccenda importante. Col suo splendore gratuito speso su un anfratto irraggiungibile, interrogava sulla bellezza, e sul significato della bellezza. E perché poi una bambina doveva restarne tanto stupita e stranamente commossa? In fondo era solo un fiore. Passarono tanti anni da quel giorno in funivia. A venticinque anni io ero il tipico prodotto della cultura in cui ero vissuta. Sprezzante verso la Chiesa, acre verso ciò che del cristianesimo mi era stato tramandato: brandelli di un catechismo moralista e triste, di un pio appello a essere “buoni”, senza che se ne capisse la ragione. Nulla che potesse interessarmi. Senonché ero triste, e a volte quasi disperata: l’educato nichilismo in cui vivevo non mi bastava. Don Giussani, attraverso la voce di alcuni dei suoi, nei suoi libri, è stato per me l’uomo capace di ribaltare l’idea che mi ero fatta del cristianesimo. Di rovesciarla, riportandola all’essenza rivoluzionaria dell’origine. Che è: Dio si è fatto uomo. Verbum caro factum est. Duemila anni fa è nato un bambino che era il figlio di Dio. Ha predicato, è stato amato, è morto in croce ed è risorto. Tutto comincia da una storia di carne, tutto è concreto. Non è un’idea, non è un nobile “valore”: è un uomo, è quell’uomo, il cristianesimo.
Si dirà che tanti nella storia della Chiesa hanno ripetuto la stessa cosa. Certo, ma nei nostri anni, e soprattutto per i figli dei borghesi come me, Giussani ha saputo ridirlo con una straordinaria efficacia. Parlava la lingua giusta. Capiva da quali delusioni venivamo, si era accorto prima degli altri, ascoltando gli studenti del Berchet negli anni Cinquanta, di quanto formale e vuoto era diventato ormai, per molti, il cristianesimo. E il ripartire dal fatto, dal nascere di quell’uomo nella carne, comporta la pretesa cristiana di incidere pienamente nella storia: di avere a che fare con tutto ciò che l’uomo fa. Quindici anni fa andai a intervistare un intellettuale laico allora molto in voga. Si parlava di smarrimento dei giovani, e dei soliti “valori” perduti. Tutto in astratto: perché, come disse il professore con sussiego, «Dio, se anche c’è, non c’entra». Ecco, ho amato Giussani proprio perché era il contrario di quell’intellettuale noioso e annoiante, e inutile col suo invocare vaghe utopistiche etiche. Ho amato Giussani con il suo Cristo di carne e ossa, con la sua orgogliosa pretesa di un Dio che c’entra con ogni uomo, con ogni istante della vita. Quel Cristo che è «tutto in tutti», come scriveva Paolo, nel vigore delle origini.
E però, insieme a questa totalità di pretesa, altrettanto grande è in Giussani l’amore per la libertà. Educava – mi hanno raccontato i suoi amici – ad aderire nella pienezza della ragione. Mai per conformismo, moralismo, abitudine. Ammettendo dunque implicitamente la possibilità di rifiutare, di sbagliare, di andarsene: perché siamo liberi. E di ritornare: perché il nostro Dio è misericordioso.
La ragione usata fino al culmine
Ha insegnato a usare la ragione fino al suo culmine: l’ammettere che c’è qualcosa che la supera, l’ammettere che siamo “fatti da”, che siamo creature. Questione determinante, in un tempo che fa dell’autosufficienza dell’uomo il proprio vero dogma. È il crinale che ci divide oggi: siamo creature o padroni assoluti di noi? A quanti ragazzi, allontanati da un cristianesimo che aveva ridotto la sua speranza a una morale, Giussani ha saputo dire, ha trovato le parole per dire che siamo “figli”. Figli di un padre che ci ha dato una vocazione: cioè un compito. Che dunque siamo qui a fare qualcosa di importante, non a ingannare il tempo. Che non andiamo verso il nulla, ma verso un destino. E che quel destino, qualsiasi siano le circostanze, è buono. Per me, che Giussani non l’ho mai visto, quest’uomo conosciuto soltanto nella sua eredità di affetti e parole è stato un ricostruttore: ha riedificato quella struttura umana cristiana che molti della mia generazione avevano perduto. Ci ha detto che è vero ciò in cui credevano i padri dei padri; che ha un senso sposarsi per sempre, e avere dei figli, e continuare la storia. (Come il restauro di un tesoro sommerso, ossidato dal tempo, confuso nella memoria).
E il fiore del monte Faloria? Beh, quel fiore è una faccenda fondamentale. Perché la bellezza, ho imparato nei libri di Giussani, è segno, che potentemente rimanda all’Altro. Orma sui nostri sentieri, lasciata per chi liberamente voglia riconoscerla. O apparentemente abbandonata in terre senza nessuno, come quella genziana. Gratuitamente, verginalmente adorante il suo creatore. Come forse infantilmente avevo intuito – fedele a una domanda originaria – quel giorno in montagna. E poi dimenticato. Quel prete mai incontrato mi ha spiegato che tutto è ancora e sempre vero. Da quell’istante che ha tagliato la storia, con il vagito di un bambino.
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