Appunti dalla Sintesi di Julián Carrón
all’Equipe degli universitari di Comunione e Liberazione
Milano, 26 marzo 2011
Don Giussani ha colto il punto cruciale. «Perla mia formazione in famiglia e in seminario prima, per la mia meditazione dopo, mi ero profondamente persuaso che una fede che non potesse essere reperta e trovata nell’esperienza presente, confermata da essa, utile a rispondere alle sue esigenze, non sarebbe statauna fede in grado di resistere in un mondodove tutto, tutto, diceva e dice l’opposto» (Il
rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 20).
Per questo egli ha sempre insistito sulla necessità per ciascuno di noi di partire dall’esperienza, di mettere a fuoco costantemente
l’esperienza. Altrimenti nessuno potrà resistere in un mondo in cui tutto, proprio tutto,dice il contrario. È la stessa necessità che in
altri termini è segnalata nelle prime pagine de Il senso religioso, come abbiamo scoperto rileggendo insieme il testo in questi mesi: «Se non si partisse dall’indagine esistenziale, sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, a un altro. Il che, se non fosse conferma,arricchimento o contestazione a seguito
di una riflessione già personalmente intrapresa, renderebbe l’opinione altrui supplenza di un lavoro che mi compete e veicolo d’opinioneinevitabilmente alienante» (Il senso religioso,Rizzoli, Milano 2010, p. 6). Don Giussani vuole farci diventare adulti, soggetti capaci di giudizio,non ci vuole alienati. È molto significativo,
perciò, quello che ci dice in un altro passo de Il rischio educativo: «Scopo della educazione è quello di formare un uomo nuovo; perciò i fattori attivi della educazione debbono tendere a far sì che l’educando agisca sempre più da sé, e sempre più da sé affrontil’ambiente. Occorrerà quindi da un lato metterlo sempre più a contatto con tutti i fattori dell’ambiente, dall’altro lasciargli sempre più
la responsabilità della scelta, seguendo una linea evolutiva determinata dalla coscienza che il ragazzo dovrà essere capace di “far da sé”di fronte a tutto. Il metodo educativo di guidarel’adolescente all’incontro personale esempre più autonomo con tutta la realtà che lo circonda, va tanto più applicato, quanto più il ragazzo si fa adulto. L’equilibrio dell’educatore svela qui la sua definitiva importanza.
L’evolversi infatti dell’autonomia del ragazzo
rappresenta per l’intelligenza e il cuore - e anche
per l’amor proprio - dell’educatore un “rischio”.
D’altra parte è proprio dal rischio del
confronto che si genera nel giovane una sua
personalità nel rapporto con tutte le cose; la
sua libertà cioè “diviene”» (Il rischio educativo,
pp. 103-104). È questo che motiva l’insistenza
continua sul giudizio, sulla necessità
di un paragone tra quello che viviamo e il cuore.
E si tratta di un lavoro tanto semplice quanto
impopolare, come abbiamo visto. È molto
facile, infatti, ripetere delle formule o andare
di frase in frase, pur giusta, o appellarsi a un
altro perché mi dia il supplemento di certezza
che non ho. Ma, come vi dico sempre, dovete
decidere se diventare adulti o no, cioè se
fare un’esperienza che vi consenta di stare nel
reale in forza del giudizio che emerge dall’esperienza
stessa, oppure essere sempre più
in balia di tutte le paure appena il reale non
coincide con l’immagine che si ha in testa.
2. L’INEVITABILITÀ DEL GIUDIZIO
La prima cosa che è emersa con chiarezza stamattina
è che noi giudichiamo sempre. Da che
cosa si vede? Dal fatto, per esempio, che abbiamo
paura, che siamo smarriti, oppure, al
contrario, che sperimentiamo una libertà, vediamo
in noi una capacità d’intelligenza diversa.
Dietro tutti questi stati d’animo o effetti - chiamateli
come volete - in fondo c’è sempre un giudizio:
può essere un giudizio che uno non confessa
neanche a se stesso, ma c’è, la vita lo “canta”
in ogni momento. Il bello del frangente che
stiamo vivendo è che sentiamo sempre più insopportabile
non fare i conti con il giudizio: giudicare
comincia a diventare un’urgenza esistenziale.
È dunque accaduto un passaggio: dal
concepire il giudizio come qualcosa di appiccicato,
una complicazione ulteriore, qualcosa
di cui in fondo non c’è bisogno, di cui possiamo
fare a meno senza che capiti niente di particolare,
al concepire e vivere il giudizio come
una urgenza esistenziale. Partiamo da alcuni
esempi di questa mattina.
Vi ricordate quello che ha detto il nostro amico,
raccontando della morte di sua nonna e delle
ultime settimane trascorse con lei? «Le volte
in cui mi sono trovato a fare la notte in ospedale,
mi ha preso - diceva - una paura feroce
che tutto quello che di lei avevo davanti, e di riflesso
anche di me, potesse scomparire nel nulla.
Perciò facevo di tutto per scappare via da certe
domande sulla vita, sulla consistenza di me,
e appena potevo scappavo via anche dall’ospedale.
I giorni successivi c’è stato un tentativo
iniziale di nascondere quello che era successo,
ma poi non ce l’ho più fatta: erano domande
che continuavano a risorgermi. Mi sono
finalmente accorto di qual era stato il problema:
è inevitabile nella vita fare un paragone tra
quello che succede e qualcosa di sé, ma io di
fronte a mia nonna il paragone lo facevo con
la paura che avevo e inevitabilmente…». È qui
che io ho obbiettato: «No, il paragone non lo
facevi con la paura, perché la paura era già il
segno o l’effetto di un paragone che avevi compiuto
tra quello che stava succedendo a tua nonna
e le tue esigenze». La paura non era l’origine,
ma la conseguenza del giudizio che lui aveva
dato, vale a dire la conseguenza di un paragone
tra le sue esigenze e quello che stava succedendo.
E l’esito era che quello che stava succedendo
- la malattia e la morte - per lui era tutto.
Ma è proprio questo che dobbiamo mettere
in questione: quello che stava succedendo davanti
ai suoi occhi, o meglio, quello che lui vedeva
era tutto? Noi diamo per scontato di sì, by
default, senza nemmeno rendercene conto, e poi
pensiamo che il paragone sia con la paura. No,
la paura è la conseguenza di un giudizio, e la
vera resistenza è a mettere in discussione il giudizio,
il nostro giudizio sul reale, su quello che
c’è, ovvero se ci sia o non ci sia qualcosa d’altro.
Davanti a una situazione in cui la nostra
esigenza dell’eterno - riferita alla persona a cui
vogliamo bene - è senza risposta, ci viene una
grande paura, com’è normale che sia (questo
dice, perciò, che siamo normali). Se quello che
vedi è tutto quello che c’è, la conseguenza ultima
è la paura. Ma la questione sta qui: è vero
o no questo giudizio? Da che cosa si vede che»
MAGGIO 2011 III
non è vero? Cominciamo dai sintomi. Da
che cosa possiamo partire per vedere se un giudizio
è vero? Un giudizio vero che cosa implica?
La liberazione. Un giudizio vero libera, e quel
giudizio non libera. Abbiamo dunque l’evidenza
nell’esperienza di un giudizio vero o falso.
Subito dopo ha aggiunto: «Dopo questi
giorni, che sono stati drammatici per me, ho
capito veramente che o Cristo è tutto oppure
io soccombo». E io ho replicato di nuovo: prima
di dire se Cristo è tutto o non è tutto, devo
poter dire se c’è o non c’è. Se non c’è, infatti,
posso anche dire che è tutto, ma la mia vita non
sta in piedi; e non ci vuole uno tsunami per farla
crollare, basta un “discorde accento”. C’è o
non c’è? Dobbiamo renderci conto che questo
è un problema di conoscenza. Ci conviene affrontarlo,
altrimenti abbiamo sempre il sospetto
di essere noi a inventare l’oggetto della fede.
Come sai che non è una proiezione tua quello
che stai dicendo davanti al problema della
morte - una proiezione che fai perché non sapresti
come gestire il problema altrimenti -?
Queste sono le domande che ci troviamo davanti,
che vengono a te e vengono a me, che
chiunque ci “rinfaccia”. Se non arriviamo a dire
perché non è possibile che sia una proiezione,
abbiamo sempre dentro il virus, il dubbio, il sospetto
che in fondo in fondo la fede sia una creazione
nostra, non un riconoscimento. Sei tu che
t’inventi e progetti la risposta? La fede è una proiezione
o è un riconoscimento?
Riprendo un altro intervento di stamattina,
che ha posto in luce un altro aspetto della stessa
questione. «Mentre tornavo a casa mi chiama
un amico per dirmi che a una famiglia di
nostri amici era nato il terzo figlio con una grave
malformazione al cuore (già la prima figlia
era nata con gravissimi problemi). L’annuncio
di questo fatto naturalmente mi ha scosso, però
mi ha scosso di più un’altra cosa: la telefonata
con questo mio caro amico si è svolta tutta
in uno strano imbarazzo, dovuto al fatto che,
annunciandomi l’accaduto, non aveva avuto il
coraggio di dire, in fondo in fondo, quello che
pensava; continuava a girare intorno al problema,
ma se ci fosse stato un fumetto che avesse
svelato il suo pensiero ci sarebbe stato scritto:
“È una ingiustizia”». Vedete? Dietro tutto,
sempre vi è un giudizio, volenti o nolenti. È impossibile
non giudicare. Dietro la paura di chi
è intervenuto stamattina, vi era un giudizio; allo
stesso modo, nel racconto dell’amico, che lo dicesse
o non lo dicesse, lui ha sentito a pelle che
c’era, nascosto al fondo, un giudizio.
La vera questione, amici, non è che non diamo
giudizi; la vera questione è se noi decidiamo
di guardare in faccia questi giudizi che comunque
diamo e abbiamo il coraggio di cominciare
a dire: «Ma è vero o non è vero questo
giudizio che ho dato?». I giudizi, infatti, li
diamo sempre. Da che cosa si vede? Dall’esperienza
che facciamo, dagli effetti che accadono
in noi, tanto è vero che il primo che ci
sente raccontare subito percepisce l’imbarazzo.
La vita “canta” che c’è un giudizio: in un senso
o in un altro, ma c’è, sempre. È impossibile
vivere anche un solo istante, come ci fa osservare
don Giussani, senza che uno dica perché
in fondo in fondo vale la pena vivere quel-
l’istante, non c’è minuto in cui uno non affermi
qualcosa di ultimo.
Proseguiva l’intervento: «È iniziata in me una
lotta, perché trovavo insopportabile quella telefonata.
Ho incominciato a dire a me stesso:
“Ma questo fatto è un’ingiustizia?”». Ecco, questa
è l’urgenza di giudicare. Basta che uno senta
qualcosa che preme nella vita per avvertire
tutta l’urgenza di giudicare. È insopportabile
non arrivare a un giudizio vero. Quando non
avvertiamo questa “insopportabilità”, vuol
dire che la nostra umanità è venuta meno, che
ci stiamo avvicinando all’essere di un sasso: il
problema non è che giudicare sia un’aggiunta
per gente con qualche sfizio, ma che ci avviciniamo
ai sassi. Quando uno è uomo e sta
lealmente davanti al reale, non giudicare è insopportabile.
Il giudizio non è qualcosa di appiccicato,
per gente che non ha altro da fare se
non complicarsi la vita, come tante volte in fondo
pensiamo (diciamo questo del giudizio così
come l’amico diceva che era un’ingiustizia la
malformazione). Pensiamo che il giudizio sia
una monumentale complicazione, che ci impedisce
di goderci la vita... fino a quando la vita
urge! Allora le cose cambiano. Ma che la vita
cominci a urgere dentro di noi che cosa significa?
Di che cosa è segno? Significa che qualche
barlume di umanità incomincia a ridestarsi.
«In questa lotta mi sono immaginato di stare
di fronte all’amica che ha avuto il figlio e che
lei mi domandasse: “Ma tu cosa dici di questo
fatto, è un’ingiustizia?”, e mi sono trovato ingaggiato
a dare ragione dell’esperienza che faccio
». A volte il nostro contributo più semplice
e decisivo è porre la domanda che l’altro non
ha il coraggio di porre. Sembra niente, sembra
banale, ma porre la domanda giusta, vera, è il
primo contributo che diamo all’altro: non è risolvergli
il problema, ma incominciare a porre
la domanda. «È iniziato quello che a me sembra
il giudicare, cioè ho cominciato a reperire»
nella mia esperienza quello che mi poteva
far dire che quella non era un’ingiustizia. E di
fatti ce ne sono moltissimi, dal primo incontro
fino alla Scuola di comunità del giorno prima,
in cui tu, alla fine, rileggendo il Volantone
di Pasqua, che cosa hai fatto se non riannunciarmi
che questo fatto non è un’ingiustizia?
Perché se Cristo è risorto questo fatto non
è un’ingiustizia. A questo punto ho visto una
lotta in me, la paura cioè di dire una cosa esagerata:
Cristo è risorto! Ma mi rendevo conto
che quell’affermazione che avevi fatto alla tua
Scuola di comunità: “Cristo risorto o è un avvenimento
o non è”, così come “il mio riconoscimento
di Cristo o è adesso o non è”, stabiliva
la differenza radicale e mi si è impressa.
Così tornando a casa mi sono detto: “Glielo
devo dire, lo devo dire al mio amico”. Perciò
gli ho subito scritto un messaggio: “A ogni
modo, Cristo è risorto”. E che Cristo sia risorto
è una cosa che la nostra esperienza documenta
costantemente, e noi non possiamo partire
se non da questo dato, altrimenti siamo scorretti,
siamo parziali». Vedete? Tante volte le cose
pur giuste che ci diciamo ci sembrano esagerate.
Anche dopo aver sperimentato, dire «Cristo
è risorto» ci sembra esagerato. Noi dobbiamo
fare i conti con ogni sfumatura che lasci
un’ombra in noi. Se quando dico «Cristo è
risorto» sento un’ombra e non la guardo in faccia,
l’ombra diventa il giudizio. Possiamo poi
dire tutte le sacrosante parole che vogliamo, ma
quello che resta è l’ombra. E da che cosa si vede?
Dal fatto che determina il mio io nel presente.
Per questo, vedere come il proprio umano
vibri, accorgersi - come dice don Giussani con
un’espressione bellissima - di quale sia il «sentimento
dell’io» che abbiamo è rivelativo:
sembra quasi banale, invece dal sentimento dell’io
si capisce che cosa prevale in noi, qual è il
giudizio ultimo, si vede se, pur dicendo «Cristo
è risorto», prevale in fondo: «È esagerato»
(non abbiamo il coraggio di dire: «È falso», semplicemente
diciamo: «È esagerato»), e questo
determina il nostro modo di stare nel reale, di
percepire noi stessi. Qui si vede la decisività di
ciò che ho sottolineato nella Scuola di comunità:
se uno non fa un’esperienza, se il cristianesimo,
se la fede non è un’esperienza presente
- presente! -, non è qualcosa che trova la sua
conferma in una esperienza, non potrà resistere
non solo davanti allo tsunami, ma alla minima
circostanza avversa.
3. L’INIZIO DELLA LIBERAZIONEEcco allora il punto che emerge dall’esperienza
che avete documentato: incominciamo
a sentire dentro di noi che un certo modo del
vivere è insopportabile, che non riusciamo ad
andare avanti senza giudicare consapevolmente.
Questa, amici, è una bella promessa per
tutti noi. Se infatti il giudizio è l’inizio della liberazione,
incominciare a percepire l’urgenza
di giudicare è l’alba dell’inizio della liberazione.
Si prospettano giorni felici, se siamo leali
con questa urgenza, se sperimentiamo sempre
di più quella insopportabilità dentro di noi. Attenzione,
avvertire l’insopportabilità non è una
“problematizzazione”, ma l’inizio di un’umanità
più grande, un segno del risveglio del nostro
io, e per questo è positivo: è il segno dell’umano,
perché dovrebbe essere sempre così,
tanto siamo determinati da quell’insieme di esigenze
e di evidenze che chiamiamo cuore
(anche se, come sappiamo, la consapevolezza
di tali esigenze ed evidenze può essere offuscata).
Se dunque noi giudichiamo sempre, la questione
- com’è emersa con chiarezza questa mattina
- è se è vero o non è vero il giudizio che diamo.
E dobbiamo verificare se quello che ci diciamo
è vero davanti allo tsunami, davanti alla
morte, davanti alla malattia, davanti alla noia.
Dobbiamo fare i conti con ogni ombra che incombe
su di noi. Amici, vi ho detto altre volte:
noi non siamo condannati a vivere la vita sopportando
le ombre, non siamo condannati a vivere
l’incombenza delle preoccupazioni senza
giudicarle. Anzi, proprio per quell’insopportabilità
che sentiamo dentro, capiamo fino a che
punto giudicare è decisivo ed è una liberazione.
Sappiamo, infatti, che abbiamo giudicato proprio
dalla liberazione che vediamo vibrare dentro
di noi, e non perché abbiamo detto la frase
giusta. Uno può dire la frase giusta e non aver
giudicato, e perciò non essere liberato.
Ho ritrovato gli appunti di un’assemblea che
don Giussani tenne nel 1986, in cui parla del
giudizio e affronta di petto la nostra questione:
«Guardate che il giudizio è l’avvenimento
dell’uomo che inizia; il giudizio è l’avvenimento
dell’uomo che si forma e che si completa poi
nell’azione affettiva. Tutti riconosciamo che Cristo
è la realtà [la frase giusta]; ma non penetra
dentro l’esistenza, questo. Non è un vero giudizio,
è un’idea non è un giudizio; è un’idea su
cui si costruisce un’ideologia e una prassi secondo
essa, come è per la maggior parte della
leadership del movimento [lo dice così, en passant...].
È un’idea - quella della fede, del cristianesimo - su cui si costruisce un’ideologia
più o meno evoluta culturalmente e quindi
che determina delle scelte pratiche. Ma la fede,
cioè il riconoscimento di questa presenza,
non diventa un giudizio, nel senso vero del termine,
quello che usa la Bibbia. [E fa un esempio:]
Ecco, tu stai andando in macchina su una
strada di montagna, vedi da lontano, da un chilometro,
che rotola un gran masso e si ferma
sulla strada. Tu dici: “C’è un masso sulla strada!”,
e arresti in fretta la macchina. Il giudizio
è qualcosa che ha una energia e una consistenza,
che sfida il resto della vita. Il vero giudizio è qualcosa
che ha una consistenza e una forza che
mette in scacco il resto, che cambia. Magari non
ci riesce, ma tu senti la spinta dentro, la senti.
Mentre, come tu dici: “Cristo è la realtà”, non
ti spinge niente dentro, non senti il ‘tum tum’
dei minatori che stanno facendo saltar le mine
o dell’ariete che vuol sbrecciare il tuo muro; al
momento non ci riesce, ma con gli anni non
può non riuscire. E questo è il significato di una
vita come lavoro, come cammino; mentre per
moltissimi fra noi non c’è cammino. Perché ci
sono tutte queste idee astratte, che non fanno
‘pum pum’ dentro, non sfidano niente. Uno
può sbagliare mille volte al giorno, ma c’è il dolore
che non lo lascia, non può lasciarlo. E c’è
la ripresa, quindi, perché il dolore è una ripresa.
Che Cristo, che questo Uomo è la realtà, io non
posso capire come - perché dovrei essere Dio
-, ma capisco che cosa vuol dire e lo riconosco:
che tutto deve essere determinato e cambiato
da questa Presenza. Ecco, è un giudizio, questo,
se mi cambia, se mi sfida, se sfida la carne
e le ossa: “A te anela la mia carne, come terra
deserta, arida, senz’acqua”. “A te anela la mia
carne”: questo è il giudizio; ed è questo giudizio
che cambia il mondo. Questa è la penitenza,
la metanoia; questa è la conversione».
Il giudizio mette in moto la conversione. Da
qui si vede se la fede è un giudizio reale o è la
ripetizione meccanica di una formula: è un giudizio
reale, se mi cambia. Per questo don
Giussani ritorna sempre a Giovanni e Andrea.
Se infatti non accade per noi quello che è accaduto
per Giovanni e Andrea, che sono stati
cambiati dall’incontro e dal riconoscimento di
quella presenza, non stiamo parlando della stessa
cosa; anche se ripetiamo le frasi che descrivono
Giovanni e Andrea, non stiamo facendo
la stessa esperienza di Giovanni e Andrea.
Il giudizio per loro fu non la ripetizione
di una formula, ma l’essere afferrati fino al
punto d’essere cambiati. Si capisce allora perché
la fede cristiana non può essere una creazione:
la fede è un riconoscimento e non una
creazione perché Giovanni e Andrea non potevano
generare da sé, neanche per un minuto,
quell’essere afferrati. Fu una sorpresa: si sentirono
afferrati, calamitati. E quell’essere afferrati,
quel giudizio, dominò tutta la loro vita
in ogni momento.
Se il giudizio che si chiama fede domina la vita
lo si vede dal fatto che questo essere afferrati è
ciò che viene fuori nel modo con cui affrontiamo
tutte le circostanze della vita; viene
fuori by default, come dicono, come quando
uno, qualunque esperienza faccia, qualunque
cosa gli capiti, è invaso dalla memoria di qualcosa
a cui tiene, di una presenza a cui tiene. Allora,
si vede che il rapporto con la Sua presenza
domina perché riappare con evidenza in ogni
esperienza, non me lo invento quando ho bisogno,
non me lo creo davanti alle circostanze
drammatiche del vivere, mi viene in mente,
mi s’impone, davanti a tutte le circostanze,
belle o brutte che siano. A volte sono più significative
quando sono belle perché sono meno
a “rischio di invenzione”; quando sono brutte,
siccome deve esserci qualche senso, uno può
correre il rischio di inventare un senso. Quando
la vita è piena questo rischio viene meno:
quel riconoscimento s’impone, quella memoria
insorge, perché non posso guardare il tramonto,
o la bellezza delle montagne, o una serata
insieme, senza che venga fuori quell’urgenza,
quella tensione esasperata a dire il Suo
nome. Per questo sono i fatti semplici che ci raccontiamo,
di cui gli altri si sorprendono ancora
più di noi, è l’esperienza che noi stessi fac-
MAGGIO 2011 IX
PAGINA UNO
L’URGENZA DEL GIUDIZIO
»
ciamo di essi che ci conferma che non stiamo
creando noi l’oggetto della fede, che la fede
è l’attuarsi sano della ragione di fronte a quei
fatti. Se io non riconosco la Sua presenza, se non
riconosco la realtà di quei fatti fino a dire il Suo
nome, non posso dare ragione di essi, dei fatti
che vedo e che vedono tutti.
A volte sorge la domanda: «Ma come mai,
dopo certi momenti, in cui riconosco la Sua
presenza con chiarezza solare, decado?», e viene
come uno scandalo. Rispondo con quello
che ci ha testimoniato don Giussani nell’ultimo
punto del suo intervento a Roma, davanti
al Papa, nel 1998. È qualcosa su cui noi,
che viviamo nella storia e che vediamo il nostro
continuo “decadere”, dobbiamo ritornare
sempre.
«L’infedeltà sempre insorge nel nostro cuore
anche di fronte alle cose più belle e più vere,
in cui, davanti all’umanità di Dio e alla originale
semplicità dell’uomo, l’uomo può venire
meno per debolezza e preconcetto mondano,
come Giuda e Pietro. Pure l’esperienza personale
dell’infedeltà che sempre insorge, rivelando
l’imperfezione di ogni gesto umano,
urge la continua memoria di Cristo. Al grido
disperato del pastore Brand nell’omonimo
dramma di Ibsen (“Rispondimi, o Dio, nell’ora
in cui la morte m’inghiotte: non è dunque sufficiente
tutta la volontà di un uomo per conseguire
una sola parte di salvezza?”) risponde
l’umile positività di santa Teresa del Bambin
Gesù che scrive: “Quando sono caritatevole è
solo Gesù che agisce in me”. Tutto ciò significa
che la libertà dell’uomo, sempre implicata
dal Mistero, ha come suprema, inattaccabile
forma espressiva, la preghiera. Per questo la libertà
si pone, secondo tutta la sua vera natura,
come domanda di adesione all’Essere,
perciò a Cristo. Anche dentro l’incapacità, dentro
la debolezza grande dell’uomo, è destinata
a perdurare l’affezione a Cristo. In questo
senso Cristo, Luce e Forza per ogni suo seguace,
è il riflesso adeguato di quella parola con cui
il Mistero appare nel suo rapporto ultimo con
la creatura, come misericordia: Dives in Misericordia.
Il mistero della misericordia sfonda
ogni immagine umana di tranquillità o di
disperazione; anche il sentimento di perdono
è dentro questo mistero di Cristo. Questo l’abbraccio
ultimo del Mistero, contro cui l’uomo
- anche il più lontano e il più perverso o il più
oscurato, il più tenebroso - non può opporre
niente, non può opporre obiezione: può disertarlo,
ma disertando se stesso e il proprio
bene. Il Mistero come misericordia resta l’ultima
parola anche su tutte le brutte possibilità
della storia. Per cui l’esistenza si esprime,
come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero
protagonista della storia è il mendicante: Cristo
mendicante del cuore dell’uomo e il cuore
dell’uomo mendicante di Cristo» (L. Giussani,
«Nella semplicità del mio cuore lietamente
Ti ho dato tutto», Roma, 30 maggio 1998. Pubblicato
in L. Giussani - S. Alberto - J. Prades,
Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli,
Milano 1998, pp. VI-VII).
X MAGGIO 2011
PAGINA UNO
L’URGENZA DEL GIUDIZIO
»
4. CRISTO RISORTO: UN GIUDIZIO SU DI NOI E SULLA
STORIA
Nella misura in cui tutto questo diventa veramente
esperienza, possiamo capire la portata
che l’annuncio cristiano ha per noi stessi e proporlo
come giudizio al mondo: quello che serve
a noi, per la sua oggettività, è quello che serve
al mondo. Per questo il Volantone di Pasqua
di quest’anno ritorna nuovamente all’origine.
Com’è nato il Volantone? Come un giudizio sulla
storia e su di noi. Che cosa diciamo davanti
allo tsunami o davanti alla guerra o davanti
all’indebolirsi dell’io, cioè davanti a quella
mancanza di giudizio in cui si sente il venir
meno dell’umano? Il nostro giudizio è il contenuto
del Volantone, che pone due questioni
fondamentali.
a) L’affermazione del fatto: Cristo è risorto.
Se il cristianesimo è meno di questo, non vale
la pena, non è più cristianesimo; esso sarebbe
ridotto semplicemente al patrimonio che una
grande personalità umana ci ha lasciato. E che
cosa ce ne faremmo di questo patrimonio davanti
allo tsunami? Come dice il Papa, saremmo
«abbandonati a noi stessi», alla nostra assoluta
incapacità. «Solo se Gesù è risorto, è avvenuto
qualcosa di veramente nuovo che cambia
il mondo e la situazione dell’uomo. Allora
Egli, Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo
fidare».
b) Ma perché questa affermazione sia un giudizio,
nel senso detto prima, occorre che ci sia
una esperienza nel presente. Per questo abbiamo
ripreso un testo di don Giussani: «Ciò che si sa
[che Cristo è risorto] o ciò che si ha diventa
esperienza se quello che si sa o si ha è qual-
MAGGIO 2011 XI
»
cosa che ci viene dato adesso [ora]: c’è una
mano che ce lo porge ora, c’è un volto che viene
avanti ora, c’è del sangue che scorre ora, c’è
una risurrezione che avviene ora. Fuori di questo
“ora” non c’è niente! Il nostro io non può
essere mosso, commosso, cioè cambiato, se non
da una contemporaneità: un avvenimento.
Cristo è qualcosa che mi sta accadendo [ora]».
In che cosa lo vedo? Nel fatto che io posso stare
davanti al reale senza paura, che posso
guardare tutto senza essere ultimamente vinto.
Se non sono vinto, non è perché posso dare
tutte le spiegazioni, bensì per qualcosa che mi
sta accadendo ora e che impedisce che la mia
ragione sia presa dalla paura e diventi misura
facendomi sembrare - come ci testimoniava il
nostro amico davanti alla nonna morente - che
tutto quello che io non riesco a capire non c’è
e non ha senso. L’affezione a Cristo che sta accadendo
ora, a Cristo presenza contemporanea,
facilita alla ragione la fedeltà alla sua vera natura
di ragione: apertura alla realtà. Qualsiasi
altro giudizio è falso, semplicemente falso,
perché elimina questo fattore.
Ciò che ci salva non è una deduzione, è un
evento che accade ora: Cristo è qualcosa che mi
sta accadendo ora. Per questo mi cambia, determina
il mio presente, è il fattore più determinante
il mio presente, più potente di qualsiasi
tsunami, di qualsiasi dolore, di qualsiasi malattia,
di qualsiasi morte, perché non me lo posso
togliere di dosso ora.
Noi potremo comunicare questa speranza a
tutti, diffondendo il Volantone in università, se
prima di tutto sarà un lavoro per noi, altrimenti
daremo la dottrina giusta senza partecipare noi
della novità che porta. Ma niente si comunica
se non come esperienza: perciò possiamo dare
il nostro contributo agli altri solo se cediamo noi
all’avvenimento che Cristo è ora, se siamo così
semplici da fare esperienza di ciò che ci viene dato
ora. Gli altri, dopo, decideranno con la loro libertà.
Questo Volantone è la grazia che ci capita
ora. Ma chi, per stare davanti a tutto quello
che accade, ha la possibilità di avere tra le mani
uno strumento così decisivo, che ci offre allo stesso
tempo un metodo, una strada, un cammino
da percorrere perché quello che ci diciamo diventi
nostro, senza scoraggiarci per quello che
ancora manca, ma già partecipando alla vittoria
che incominciamo ad assaporare? La diffusione
di questo Volantone è un’occasione stupenda
per tutti noi, è lo strumento più adeguato
al nostro momento storico per partecipare alla
vittoria che Cristo è nella storia. Comunicarla agli
altri e vedere che cosa accade conviene a tutti, per
non perderci la conferma della verità delle parole
che lì troviamo scritte. Non abbiamo altra
cosa più grande da dire al mondo. Per questo mi
sembra sia una sfida strepitosa per ciascuno.
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