.....La Chiesa, invece, annuncia proprio che l’umanità realizzata - in tutte le sue dimensioni, compresa l’esigenza di eternità e la misteriosa salvezza dal male di cui ogni esistenza è intrecciata - è possibile. E non lo dice come auspicio o imperativo morale; lo dice mostrando l’esempio in cui questo è avvenuto: un uomo con nome e cognome, vissuto negli stessi anni in cui sono vissuto io, che ha respirato la mentalità, affrontato le difficoltà, sofferto i drammi che sono toccati anche a me.
Insomma, la beatificazione è un grande gesto di stima sull’uomo. Confermata dal fatto che la pienezza dell’umano non è considerata come l’esito di una particolare abilità della persona indicata ad esempio, ma di una cosa molto più semplice. «Beata te perché hai creduto»....
Pigi Colognesi lunedì 9 maggio 2011
Chiedo scusa se torno ancora sulla beatificazione di Giovanni Paolo II; abbiamo già letto fin troppi commenti. Ma quando eravamo là a Roma, quel giorno, cosa abbiamo visto? Lasciamo per un momento da parte gli elementi per così dire di contorno: l’enorme folla, la parata di autorità ecclesiastiche e civili, le veglie di preghiera e le fatiche per arrivare a prendere un posto.
In che cosa è consistita, in sé, la beatificazione? Un gesto molto semplice, quasi prosaico. Il vescovo della diocesi in cui il candidato beato è morto ha salito i gradini che lo separavano dal seggio papale, ha preso il microfono e ha detto al Papa che la vita di un certo battezzato di nome Karol Wojtyla merita attenzione e ha spiegato il perché raccontandone i momenti principali. In conclusione, è stata una vita degna di essere ricordata come una vita riuscita, «beata» appunto.
E il Papa ha risposto che sì, quella vita d’uomo poteva proprio dirsi beata. Fine della cerimonia di beatificazione. In questo semplicissimo scambio di battute la Chiesa dimostra però un coraggio eccezionale. Dice che è possibile, oggi, essere uomini autentici, veri; essere un uomo guardando il quale si possa affermare senza ironia ma con sorpresa: «Beato lui». Il santo, in fondo, non è nient’altro che questo: un uomo vero.
Chi altro osa proporre una simile speranza alla nostra vita? Quando va bene, ci raccomandano di accontentarci di primeggiare in qualche settore dell’esistenza, ci suggeriscono di tenerci fisicamente in forma e di tentare di “star bene con noi stessi”, di evitare troppe complicazioni nella ricerca di amore, giustizia, verità. Il mondo, ci dicono, è una giungla, il tempo scorre inesorabile, le attese vengono sistematicamente deluse. Non è mica possibile essere veramente e compiutamente uomini. E che diamine, abbassiamo la mira: l’uomo vero è una chimera.
La Chiesa, invece, annuncia proprio che l’umanità realizzata - in tutte le sue dimensioni, compresa l’esigenza di eternità e la misteriosa salvezza dal male di cui ogni esistenza è intrecciata - è possibile. E non lo dice come auspicio o imperativo morale; lo dice mostrando l’esempio in cui questo è avvenuto: un uomo con nome e cognome, vissuto negli stessi anni in cui sono vissuto io, che ha respirato la mentalità, affrontato le difficoltà, sofferto i drammi che sono toccati anche a me.
Insomma, la beatificazione è un grande gesto di stima sull’uomo. Confermata dal fatto che la pienezza dell’umano non è considerata come l’esito di una particolare abilità della persona indicata ad esempio, ma di una cosa molto più semplice. «Beata te perché hai creduto» è la frase con cui il vangelo descrive Maria, la capostipite della schiera dei santi, e che Benedetto XVI ha usato per spiegare la pienezza umana del nuovo beato.
Nessun titanismo eroico da supereroe, ma la semplicità della fede. E quando abbiamo applaudito alla proclamazione del nuovo beato, in fondo, abbiamo esultato per la rinnovata, dolce speranza che riguarda la misera e grande umanità di ciascuno di noi.
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