Lunedì 12 Dicembre 2011 09:58
Recensione dal mondo dei blog: Perlesparse
Il grande campo della vita
La prima volta che ho sentito, anni fa, la parola hospice, quello che immediatamente mi è venuto in mente è stato che, ancora una volta, si era trovato un sinonimo apparentemente più gentile per nascondere una realtà che non ci piace.
Un po’ come accade con diversamente abile et similia.
Quando mi ha accennato al suo nuovo libro Il grande campo della vita – Storie da Hospice mi son chiesta se il mio amico Fabio Cavallari, come per Vivi – dove si racconta della voglia di vita di persone la cui esistenza, secondo molti, sarebbe degna solo della morte, di essere accompagnata alla morte il prima possibile e "disturbando" il meno possibile il mondo dei c.d. sani – sarebbe riuscito a trasformare in un inno alla vita quello che in genere è considerato l’anticamera della morte.
Certo, già il titolo la dice tutta: Il grande campo della vita. Vita! Parola così chiara, luminosa, piena… io quando la pronuncio ho sempre una sensazione positiva: la vita può essere problematica, dura, finanche dolorosa, ma è vita. Anzi, se proprio voglio dare un senso negativo io dico "vitaccia" (i dispregiativi esistono per questo, no?), alla parola "vita" ho difficoltà ad associare perfino gli aggettivi negativi.
Ecco, per un attimo mi son chiesta come si potesse conciliare quel "vita" nel titolo del libro con il sottotitolo – Storie da Hospice – scritto appena sotto: nonostante il sinonimo gentile tutti sappiamo cos’è un hospice, e pensando ad un hospice non è la vita – almeno nel senso pienamente positivo che intendo io – la prima cosa che viene in mente. Ovvio che è scattata anche la curiosità, però anche una specie di dubbio: a fare un titolo d’effetto è relativamente facile, ma poi bisogna vedere come te la cavi, caro Fabio, con la vita di chi sta in un hospice…
Ebbene, le poche pagine che sono riuscita finora a leggere mi hanno convinto che anche stavolta Fabio è riuscito a raccontare la vita, nel senso positivo che intendo io, quella vita a cui non si addicono gli aggettivi negativi, oserei dire che, ancora una volta e in maniera inaspettata, Fabio ha scritto un inno alla vita.
Forse, almeno nell’intenzione iniziale, questo libro voleva celebrare i dieci anni di una struttura sanitaria – l’Hospice dell’ospedale Luigi Sacco di Milano – ritenuta esemplare e nel contempo spiegare cos’è un hospice, come nasce, qual è il lavoro del personale medico e paramedico e quello – altrettanto essenziale – dei volontari ("un ruolo unico e senza uguali"): l’aver scelto la forma della narrazione, il raccontare storie vere, facce e persone concrete – che come tali diventano protagonisti e quindi, come in una rappresentazione teatrale, con il loro volto e con la loro storia relegano in secondo piano la scena, che fa solo da contorno – non toglie nulla anzi esalta il lavoro che si compie all'interno di questa struttura..
Come accennavo prima non ho ancora trovato il tempo per una lettura sistematica, una pagina dopo l’altra, del libro, però – fosse solo per la curiosità ingenerata dal titolo e per l’affetto verso l’amico Fabio – più volte l’ho preso e ho letto qualche pagina, qua e là: attraverso i volontari e gli ospiti Fabio quasi prende per mano il lettore e lo accompagna nell’hospice, e il racconto s’intreccia con le notizie sul lavoro che viene svolto nella struttura, che quindi non è mai in secondo piano, anzi.
Ed è attraverso il racconto della vita degli ospiti e dei volontari che alcune delle affermazioni contenute nel libro assumono concretezza: come si potrebbe dire "Tutto ciò fa dell’hospice un luogo di amicizia" se non perché lo vedi e lo vivi? Come potrebbe essere credibile la frase "In dieci anni di hospice nessuno ha mai sentito dire a un malato terminale che desiderava la morte" se non fosse testimoniata da quei racconti? Come si potrebbe capire il valore delle cure palliative se non guardando la dinamica di questi rapporti?
La cioccolata e la Juve di Giovanni, le partite a scala quaranta di Antonio, le tradizioni, i portafortuna e gli intrugli alle erbe della cinese Hatsuyo sono "passioni" che hanno infiammato la loro vita da "sani", e continuano a farlo persino nell’hospice, spesso attraverso e grazie alla compagnia dei volontari come Susanna, Marta, Angela, che camminano in punta di piedi per non far rumore e bussano piano per non disturbare quelli che la burocrazia sanitaria definisce "malati terminali", capaci però di farsi smuovere da una nevicata che certo non cambia nulla a uno che, come Danilo, sta inchiodato in un letto, eppure lo convince a lasciare finalmente entrare un po’ di luce nella stanza fino a quel momento tenuta perennemente in penombra.
Se non è un inno alla vita questo….
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