venerdì 10 aprile 2009

AL DI LA' DELLA CRONACA

Marina Corradi per Avvenire dell'8 aprile:

C'è qualcosa,nelle cronache di dolore dall'Abruzzo, che si insinua come tra le righe. Qualcosa come una nota diversa in tanta morte, in tanta devastazione. Improvvisamente, qui e là, fra le parole gettate concitatamente nei microfoni dagli scampati, una nota che stona nella desolazione, è quando una mamma racconta come è stata salvata la sua bambina da dei vicini sconosciuti che si sono arrampicati sui cornicioni per arrivare a quella stanza. La bambina è salva, dorme. La madre non si capacita:Hanno dei figli anche loro, e hanno rischiato la vita per la mia. Angeli sono, come devo chiamarli?



C'è qualcosa, in questa mole ferrigna di strazio che sommerge dai telegiornali, che ci stupisce, è la vecchia di 98 anni che sotto le rovine della sua casa ha aspettato quietamente i soccorsi, lavorando all'uncinetto, in quel ritmo antico delle mani che tramano e legano:s imile allo svolgersi fra le dita della corona del rosario. O il giocatore dell'Aquila rugby, ventenne,un colosso,c he in quell'alba di macerie si è caricato sulle spalle una donna e poi suo marito - salvi dalla loro casa crollata -. E su quelle grandi spalle si è poi lasciato caricare, come in un giogo accettato, malati in sedia a rotelle, materassi e fornelli - poveri resti per sopravvivere. Con quelle mani come badili, con quelle spalle da rugbista, instancabile a spalare per gente mai vista. E questo ci stupisce dall'Aquila, molto più delle polemiche e le accuse e la consueta rabbia. Ci stupisce che in una simile esplosione di dolore e di male gi uomini reagiscano. Come un pugile che incassato un formidabile colpo e alle corde si riscuote e torna a combattere. Che si raccolga così la sfida del dolore, introduce un fiato di meraviglia nell'abitudine stanca con cui spesso guardiamo a noi stessi e agli altri. Cos'è che spinge degli uomini a rischiare la vita per uno sconosciuto,a svangare nel fango la notte intera, senza sentirsi stanchi? Sembra che sia lo stesso dolore a sfidare. E riapre dimenticati pozzi interiori, e nello schiaffo provoca: c'è una sorgente li sotto che avevamo dimenticato di avere. Generosa, gratuita: come straniera,i n un mondo che normalmente non dà niente per niente.

Si chiama questa sorgente, parlando cristiano, speranza. Quella speranza che Charles Peguy definì una <>. Quel non arrendersi,anche quando tutto sembra perduto. L'improvviso scoprire che il vicino di cui non sai il nome, vale tanto da sfidare la massa minacciosa dei muri spezzati e incombenti, per salvare la sua bambina. Come se quel vicino fosse un fratello. Come se davvero,alla radice, fossimo tutti fratelli; è un altra Italia quella che s'è vista in tv e sui giornali in questi due giorni. Nella gente d'Abruzzo e nelle colonne dei mezzi di soccorso che già all'alba di lunedì si mettevano in marcia da ogni parte d'Italia verso L'Aquila. Nei volontari e nelle offerte di case, di viveri, di pannolini. Nelle cento sottoscrizioni aperte,e indicate da tutte, tutte le tv e i giornali. In questo tempo di crisi. Dove fino a ieri l'Italia sembrava, cupa e depressa, chiusa nelle sue paure e partigiane rivendicazioni. La sfida del dolore, come un manrovescio, ha rilevato un paese spesso ignoto agli italiani stessi.
Una faccia generosa che rischia che non calcola. Un'Italia amante della vita . In questa settimana di Passione e di morte, ci ha stupito, ci ha lasciato muti la madre che raccontava di quegli angeli che le han salvato la figlia; e il gigante dell'Aquila Rugby, accanito, ansante quella notte, su tutt'altra meta.

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