sarebbe necessario far conoscere il cartello riportato qui sotto alla stragrande maggioranza della popolazione italiana!!
Quest'argomento mi interessa particolarmente perche' di fronte ad un malato in stato vegetativo le persone che si incontrano si sentono piu' libere di esprimere un loro giudizio.
Perche' dico questo? perche' molti buon pensanti non si trovano ugualmente liberi di fronte ad un disabile grave o meglio handicappato.
Questa liberta' gia' non esiste di fronte al bambino"solo down" immaginiamoci poi quando si trattano handicap meno conosciuti.
Qualche giorno fa abbiamo incontrato,la mamma di Giulia,(spesso avete trovato notizie di loro sul mio blog)abitano a Bruxelles sede del parlamento europeo dove i due genitori lavorano.
Ci raccontavano di come la disabilita' in Belgio venga affrontata con modalita' completamente diverse.
La disabilita' dovrebbe scomparire ,e se non si riesce ad eliminarla alle radici (prima della nascita)lo stato interviene ,ti aiuta ,ti supporta a condizione che tu decida di internare tuo figlio.
E' disposto a mantenere tuo figlio,a dargli terapie gratuite ma ti pone questa condizione.
In Belgio quindi e' piu' chiaro che una famiglia che decide di tenere suo figlio a casa viva una condizione di isolamento e solitudine.
La mamma di Giulia e' da ormai quattro anni e mezzo che non riesce ad avere una notte per poter dormire,(la comprendo anche se con Giovanni ho perso solo 4 anni di notti )ma non puo' condividere questa fatica ,nemmeno a parole perche' non potrebbe essere compresa.Ci sono gli istituti perche' non portarla li'.
Potrebbe sembrare cosi' una situazione piu' assurda della nostra.
Sicuramente a livello cartaceo si.
Concretamente non so quanto diverso sia vivere la stessa situazione fra noi.
C'e' un'apertura teorica questo si.
Ma anche fra noi che ci siamo ritrovati a Rho sabato e che abbiamo partecipato ad un cosi' grandioso meeting quanti guardano i disabili con occhi diversi da quello che la societa' propone?
Malati cronici, chi decide la «qualità della vita»?
Eutanasia - lun 1 ott
Intervista al neurologo Gianluigi Gigli di Viviana Daloiso
Tratto da AVVENIRE del 20 settembre 2007
È moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua al paziente in stato vegetativo? Può essere interrotta quando medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza?
L’11 luglio del 2005 la Conferenza episcopale statunitense si rivolse alla Congregazione per la dottrina della fede con queste spinose domande. Domande che facevano seguito alla clamorosa vicenda della morte di Terry Schiavo, avvenuta qualche mese prima in seguito alla sospensione della nutrizione. Oggi le risposte della Santa Sede mettono in discussione la condotta dei medici statunitensi, e non solo. Ne abbiamo parlato con Gianluigi Gigli, ordinario di Neurologia all’Università di Udine e neurologo presso l’Azienda ospedaliera Santa Maria della Misericordia di Udine.
Professor Gigli, da medico come ha accolto quanto affermato dalla Congregazione?
«Con estrema soddisfazione. Quello che viene chiarito costituisce la possibilità per i medici di porre fine ad una lenta e silenziosa deriva che si stava creando: quella dell’assolutizzazione del principio di autodeterminazione, che porta a reclamare la piena disponibilità del "bene-vita". Vale la pena ricordare che il documento vaticano risponde alle domande poste dai vescovi degli Usa, dove ormai da anni nutrizione e idratazione vengono considerati trattamenti medici (non più assistenza di base) e in quanto tali possono essere rifiutati dal paziente o da chi, interpretandone le presunte volontà, ne fa le veci. Da questo punto di vista il caso di Terry Schiavo è solo la punta dell’iceberg, portata alla ribalta delle cronache perché si verificò una situazione di difformità tra la volontà di una parte e dell’altra: in realtà quella della sospensione dell’idratazione e della nutrizione assistite è una pratica che andava e va avanti negli Stati Uniti. Ora ci sono i presupposti perché le cose cambino».
Anche in Italia, però, c’è chi sostiene che quello di decidere sulla sospensione dell’idratazione e della nutrizione di un paziente in stato vegetativo è un diritto.
«Il nostro Codice deontologico dice che sono i medici a dover valutare fino a che punto alcuni trattamenti siano di beneficio. Prendiamo, per esempio, un malato terminale: se non è più in grado di assimilare un liquido o quest’ultimo gli crea danni fisici e disagi, si smette di somministrarlo. Il problema è che quando abbiamo a che fare con condizioni di cronicità, come il più delle volte avviene con pazienti in stato vegetativo, ci troviamo in una situazione diversa. Questi ultimi non sono malati terminali: si trovano in una condizione di grave disabilità, a seguito di un evento acuto, che come tale nel tempo deve essere rispettata, a cominciare dalla somministrazione di cibo e acqua, essenziali per mantenere in vita quei pazienti. Se smettessimo di nutrirli e idratarli non staremmo togliendo loro l’acqua perché incapaci di assimilarla o perché faccia loro del male, ma semplicemente per un giudizio di qualità sulla vita di quei pazienti, perché abbiamo deciso che è meglio per tutti che quei pazienti muoiano».
Quindi quanto indicato dalla Congregazione per la dottrina della fede è in linea col Codice deontologico dei medici.
«Sì, ma il giudizio dipende dai princìpi a partire dai quali quel Codice viene interpretato. Se credo che a un paziente in stato vegetativo vada riconosciuta la sua dignità umana fondamentale, necessariamente riconoscerò come un beneficio possibile tutto ciò che ne prolunghi e favorisca la vita, in primis il cibo e l’acqua. Se invece stabilisco che un paziente in stato vegetativo non possiede più dignità umana, che la sua vita non è più tale da un punto di vista "qualitativo" e che è meglio farlo morire, allora nessun trattamento potrà essergli di beneficio e io non sarò tenuto ad agire».
Senza contare che queste premesse spianerebbero la strada al testamento biologico. . .
«Esatto, in fondo è in quella direzione che si muove il polverone sollevato in Italia in seguito alle dichiarazioni della Congregazione. Se si accetta il principio che a decidere sulla vita dei pazienti in stato vegetativo sia qualcun’altro, e che quei pazienti debbano morire perché così è "meglio" per loro, il passo successivo, sempre in base a quel principio, è che il paziente stesso possa decidere meglio e prima».
Invece?
«Invece, come ricorda bene a noi medici la nota vaticana, un paziente in "stato vegetativo permanente" è una persona, cui sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate. Un obbligo a cui come medici non possiamo e non dobbiamo sottrarci».
Nessun commento:
Posta un commento