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Milano, 17 novembre 2010
Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 381-394.
• Canto “Ballata dell’uomo vecchio”
• Canto “Who stood up for Stephen”
• Gloria
Cominciamo oggi il capitolo sul sacrificio. Anzitutto don Giussani fa una premessa che aiuta a rispondere ad alcune delle domande che sono arrivate.
Mi chiede una di voi: «La cosa più importante per me ora è capire come partecipare davvero alla Scuola di comunità, come dobbiamo
prepararci a quel momento di assemblea e come dobbiamo vivere quel gesto perché sia davvero
nostro e proponibile a tutti». Nella premessa ci viene offerto qualche suggerimento, qualche
indicazione per la strada. La prima: «Bisogna ripetere le cose, e anche ripetendole sembra che non
si capiscano». Non è che uno capisce subito le cose e «ripetendole [lo dico perché non si scoraggi
nessuno] sembra che si capiscano di meno, che è una forma di impazienza. [...] Ma se la cosa è vera
e uno ci resiste e ripete e punta gli occhi, a un certo punto è come [...] l’alba, e uno incomincia a
capire». Ciascuno deve decidere se prendere sul serio questo suggerimento del don Gius o meno,
perché noi pensiamo di arrivare subito a capire senza ripetere, facendo diventare subito nostre le
cose; e poi uno, inevitabilmente, si scoraggia. Invece è ripetendo – è una ripetizione che è come
prendere in mano l’ipotesi che la Scuola di comunità offre per entrare nel reale – che, a un certo
momento, incomincia a intravedersi l’alba e allora «il trionfo della verità sta nel fondo del cuore».
Uno capisce perché si rende conto lui, nel fondo del cuore. E poi, nella pagina successiva,
sottolinea: «Uno vorrebbe far capire subito, [...] vorrebbe che l’altro non facesse le fatiche che deve
fare», come il padre e la madre che guardando il figlio piccolo vorrebbero che facesse la strada
senza fatica. Guardate che non dobbiamo passare sopra queste cose, perché è quello che pensiamo
noi, per noi e per gli altri, lo abbiamo visto queste ultime volte. Perché «vorrebbe che non dovesse
fare tutti i passaggi che hanno fatto loro, gli rincresce che debba farli», ma diventerà loro, dei figli,
soltanto se fanno questo percorso; perché quello che hanno imparato i genitori diventi dei figli,
occorre che questi ultimi facciano le stesse identiche esperienze, perché non è un meccanismo.
«Invece, uno fa quello che può [...], magari quello che Dio gli permette, considerando la
disponibilità della sua libertà [e della libertà dell’altro, perché ci possiamo scontrare con l’altro che
dice di no]». Se questo succede in qualsiasi cosa, proviamo a immaginarci davanti al sacrificio che è
una cosa che ripugna, che sentiamo come ingiusto! «E un padre e una madre, pensando a questo
[così ripugnante], direbbero: “Come vorrei io sputar sangue per te!”». E guardate quello che dice:
«No, quel che tocca a ognuno tocca, cioè quello che Dio vuole da te, devi farlo tu». Non ci sono
storie, perché non decidiamo noi la strada attraverso cui il Mistero porta l’altro al destino. Siamo
noi che dobbiamo sottometterci alla modalità con cui il Mistero porta al destino, noi e gli altri:
un’obbedienza. Ma noi pensiamo di voler bene cercando di risparmiarla all’altro, come se Dio non
gli volesse così bene come noi, che pensiamo di essere coloro che vogliono veramente bene
all’altro: siamo così presuntuosi che pensiamo di volere bene perché vogliamo risparmiargli la
strada, mentre in realtà il Mistero non gli vuole così bene perché non gliela risparmia. Questa è la
conclusione non confessata a noi stessi, ma sottointesa. Questo non vuol dire che non possiamo
collaborare anche a quello che viene chiesto; anzi, è impossibile non voler collaborare, non aiutare
il prossimo a qualsiasi costo. Ma significa collaborare e aiutare a percorrere la modalità con cui il
Mistero lo porta al destino, che è secondo il disegno di un Altro.
Non riesco più a togliermi di dosso il fatto che ho visto accadere alla Scuola di comunità. Quello
che i miei occhi hanno visto e le mie orecchie hanno udito, è stato un uomo che, aggredito dalla
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realtà, è rimasto, non si è tirato indietro, non ha voltato la faccia ed è stato lì con tutta la sua
ragione e tutta la sua affezione di fronte alla libertà dell’altro. Quello che ho visto è chi è l’uomo se
si lascia investire da Cristo. Tornando a casa quella sera con un amico dicevamo: «Io non sarei
stato capace di stare così davanti a quell’ultimo intervento». Il giorno dopo, una giornata trascorsa
come tante altre tra lavoro, spesa, figli, cena, non riuscivo a non riandare continuamente a ciò che
era accaduto, soprattutto tutte le volte che la realtà aggrediva me: problemi al lavoro, i figli che
non ascoltano. Alla fine della giornata mi sono accorta che era stata una giornata come tante altre,
ma assolutamente diversa perché non riuscivo a non avere negli occhi quel fatto. Averlo negli occhi
come domanda, come implorazione, come possibilità paradigmatica per me di stare nella vita.
Devo essere sincera, non sono riuscita a essere più gentile con le mie colleghe e non sono riuscita a
non urlare con i miei figli e nessuno mi ha detto: «Come sei cambiata!». Ma la cosa strana è che io
mi sento diversa, per esempio non riesco più a lamentarmi per le cose che non vanno; proprio la
lamentela non mi viene fuori dalla bocca e non riesco neanche a pensarla. Ogni qualvolta nella
giornata – e in verità accade spesso – si verifica anche una piccolissima cosa che mi crea
difficoltà, le sto davanti con meno ansia che in passato e in qualche modo riaccade il fatto che ha
dato origine a tutto questo. Secondo me sto iniziando a capire quando lei diceva di Giovanni e
Andrea che, dopo essere stati con Gesù, Lo lasciano per tornare alle loro case e non riescono a
togliersi dagli occhi quel volto e le cose accadute mentre erano con Lui. Mi hanno sorpreso anche
due aspetti: che tutto è accaduto il giorno che lei ci ha richiamato il valore del fatto da cui tutto
parte. E la seconda cosa è che raccontando ad amici queste cose mi sono accorta che nessuno di
loro aveva percepito come me quello che era accaduto. Ho appuntato questi due aspetti come segno
che si trattava di un dialogo personale tra il Mistero e me. E, come il cieco nato, mi viene da dire:
«Non so perché a me e non so perché quella sera, ma non ci vedevo e ora ci vedo».
Le ho fatto leggere questo, al di là del fatto che l’ha scatenato e che non mi interessa adesso, per
quello che ha detto alla fine. Perché quando diciamo che il cristianesimo è un avvenimento stiamo
parlando di questo, di un fatto che ci rende diversi, non necessariamente più coerenti; non che
necessariamente il giorno dopo riesco a non sgridare i figli o a essere più gentile con i colleghi, ma,
anche se non riesco, questo non mi toglie di dosso la diversità che vedo. Un fatto che mi ha
investito: il cristianesimo è questo avvenimento e non una coerenza, non è un moralismo per cui
magicamente dopodomani io riesco a fare qualcosa, ma è una diversità che si introduce, come si è
introdotta in Zaccheo prima che scendesse dalla pianta. E vedi piccoli segni: meno ansia, meno
lamento. Sembrano niente, ma è il segno del cambiamento che accade, non perché io sia più bravo,
ma per quello che è successo. E questo è ciò che volevamo dirci del valore del fatto. Malgrado
questo, ci possono essere persone, gli amici, che non hanno capito, ma questo non toglie niente; a
ciascuno il Signore dà la grazia come vuole e quando vuole, anche secondo la nostra disponibilità.
Ma quello che dice tutta la potenza del fatto è questa cosa: che mi investe così potentemente che al
di là della constatazione che io sia più bravo o meno, non per questo lo posso far fuori. Da allora
tutto cambia: «Non so perché a me e non so perché quella sera, ma non ci vedevo e ora ci vedo».
Questo intervento introduce bene questo capitolo che adesso cominciamo, perché il sacrificio, dice
il don Gius, è come il punto di confluenza di tutto: perché né fede, né speranza, né amore, né
bellezza possono essere senza sacrificio. Qui è il punto di confluenza di tutto quello che dobbiamo
capire, perché, dalle domande che mi fate (ne leggo una tra le tante), si vede che dove facciamo più
fatica è proprio in questo: «Io desidero e domando a te e al Signore di capire il passaggio per cui il
sacrificio diventa valore, perché ho provato a ripetere queste parole, ma mi accorgo che ne ho un
po’ di paura come se fossero esagerate, e un po’ come se uno avesse paura di chiedere troppo». E
un’altra dice: «Nella mia vita, per via della mia malattia, il sacrificio è sempre presente ed è
incomprensibile, è bestiale, a livello straziante, proprio a livello di pancia, carne. Quando il don
Gius parla del “vale la pena” lo sento proprio mio, perché di recente sono arrivata a chiedermi
proprio questo davanti alle scelte faticose, e proprio con queste parole. Mi sono chiesta: che cosa mi
basta nella vita? E la risposta è: niente. Niente mi basta, le uniche volte in cui mi sono sentita piena
e lieta anche in situazioni dolorose è stato quando ho avuto la certezza che Lui c’era, quando L’ho
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sentito presente. E quindi il motivo per cui fare una scelta è quello di riuscire a vederLo di più.
Però, quando ho letto il terzo punto, mi è sembrato inconcepibile, non riesco ad immaginare di
vivere così, ma allo stesso tempo non posso ignorare quello che mi dice il don Gius perché tutto
quello che mi dice prima e che mi ha sempre detto è talmente vero che non posso non prenderlo in
considerazione. E la prima domanda che mi è venuta è: come fare affinché sia così anche per me?
Ma subito dopo me ne viene un’altra: ma perché dovrei volere una cosa così? Perché dovrei volere
il sacrificio come chiave di volta della mia vita? Perché dovrei voler “influire sulla gente che vive in
Giappone” sputando sangue? Perché nella mia vita io mi sono trovata a sputare sangue nel vero
senso della parola e io non vorrei più vivere una cosa del genere; figuriamoci volere che lo star male
sia la chiave di volta della mia vita! Sinceramente sono cattiva e per salvare qualcuno che non so
neanche che esiste devo sputare sangue. Non vedo perché dovrei farlo». Ci troviamo davanti alla
vera difficoltà, alla quale non possiamo rispondere «spiegando» le cose, perché non è che dobbiamo
convincere qualcuno di questo. La prima questione è riscoprire in noi – per aiutarci a entrare in
queste cose secondo quanto ci dice il don Gius – quando abbiamo fatto esperienza, pur iniziale (non
mi interessa adesso il livello), che il sacrificio è diventato interessante come esperienza semplice.
Dopo tutto questo cammino che abbiamo fatto negli ultimi mesi, è come se questo capitolo del
sacrificio avesse messo in discussione la fede, tutto il percorso che avevo fatto. A me ha colpito
tantissimo l’introduzione di don Giussani nelle prime due pagine del capitolo, la sua insistenza che
il sacrificio è la cosa meno corrispondente e più ripugnante. E io ho detto: «Vero!», ma a chi viene
mai in mente di fare apposta un sacrificio? A nessuno. E io da qua mi sono legato alla fine
dell’Assemblea Internazionale Responsabili: «Non dobbiamo aver paura del sacrificio perché se io
stimo ciò a cui appartengo, se io appartengo, vuol dire che devo abbandonare in qualche modo me
stesso». E io, anche qua, ho detto: «Verissimo, d’accordo completamente». Poi è capitato che una
sera mi sono trovato con degli amici, abbiamo chiacchierato di questa cosa; tutti eravamo
d’accordo, nessuno obiettava niente, finché è venuto fuori un punto: «Sì, comunque il sacrificio
vale la pena se ha uno scopo, se so qual è la mia convenienza e se c’è un tornaconto». Io ho detto:
«Vero». E allora lì sono stato – come dicevi tu – costretto a riandare a quando nella mia vita il
sacrificio è diventato interessante per me. E non ho potuto non dire che per me il sacrificio è stato
interessante tutte le volte che sono entrato nella vita innamorato (uso questa parola), innamorato
della vita, innamorato della compagnia, innamorato del lavoro, innamorato della moglie,
innamorato di tutto. E allora mi viene da dire che noi, alla fine, scansiamo sempre questo sacrificio
perché è come se non fossimo innamorati.
Mi collego al primo intervento. Dico che non mi sarebbe dispiaciuto che il libro si fosse chiuso qua,
saltando questo pezzo, ma è inevitabile e quindi ci sono stato davanti.
Noi pensiamo che, perché saltiamo il capitolo, saltiamo il sacrificio della vita! Questo è il nostro
problema.
Avevo anch’io una domanda simile: io non riesco oggi, quando faccio un sacrificio vero, grande, a
non presentire già un “di più”. Io lo faccio perché già ci sto un po’ guadagnando, sto già capendo
che ne vale la pena e già sto gustando di questo “vale la pena”. Altrimenti io non so se ce la farei,
anzi, io oggi non ce la faccio a fare un sacrificio in cui mi sembra di non gustare già qualcosa.
Noi incominciamo a renderci conto, anche inizialmente, che il sacrificio è interessante quando
abbiamo uno scopo o quando abbiamo un amore a qualcosa. Il sacrificio incomincia a interessarci
se noi siamo innamorati o se lo facciamo per un “di più” che lo renda interessante. E tutta la vita
dipende da quanto il fare il sacrificio ha uno scopo, una ragione che lo renda utile, per cui vale la
pena farlo. In questo senso, è qui dove arriviamo al punto di confluenza di tutto quello che abbiamo
detto fin qua perché nel sacrificio si verifica se quello che abbiamo detto sulla fede, cioè sul trovare
una Presenza così corrispondente che vale più della vita e che desta la speranza, se la carità di Uno
che si piega su di noi e che sotto la pressione di questa commozione ci rende disponibili è reale.
Preparando la Scuola di comunità mi è venuta in mente la frase di Malraux citata spesso da don
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Giussani: «Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo la
menzogna, noi che non sappiamo che cosa sia la verità». Il sacrificio non ha ragione d’essere se noi,
in fondo in fondo, pensiamo che tutto sia menzogna. E se noi non siamo disponibili ad alcun
sacrificio, è perché non abbiamo incontrato niente che sia così vero da consentirci di farlo. Questo
punto è il riassunto della verità di Cristo: se Egli introduce nella vita qualcosa di così interessante
che uno è disponibile e appassionato e che può rendere desiderabile tutto, anche quello che ai nostri
occhi sembra ripugnante. Allora la questione, amici, è come ci testimoniamo a vicenda che è così,
per aiutarci a non aver paura del sacrificio e poter essere disponibili a questo.
Quando per te ha incominciato a essere interessante il sacrificio?
Da qualche anno ero in uno stato tale che, senza Dio e senza più nessun affetto costitutivo, ogni
mattina cominciavo la mia giornata, fatti uscire i figli per i loro impegni scolastici, gridando il mio
urlo disperato in ginocchio sul pavimento: «Non si può vivere così, non voglio più vivere così!».
Ma, a un certo punto, quando ormai ero smagrita e avevo esaurito anche le forze per piangere e
gridare al cielo, il Mistero si è impietosito della mia fragilità e del mio orrore di vivere e ha
cominciato a farmi la grazia di aprire i miei occhi e il mio cuore. Non posso raccontare tutta la
storia nei suoi dettagli perché è lunghissima, bellissima e incredibile. Ciò che voglio raccontare è
di aver ricevuto in regalo da un amico un libro (invitandomi alla Scuola di comunità il mercoledì
successivo). Sento il cuore sobbalzare, il titolo è: Si può vivere così?. Ma come, se continuo a
urlare che non si può vivere così? Me lo divoro in due notti, chiudendo gli occhi alle cinque del
mattino. Vengo al dunque: dovevo fare i conti tutti i giorni con una quotidianità davvero crudele e
inaccettabile, ma che da quel momento, al contrario, sembrava far coincidere e corrispondere tutto
il reale con la mia umanità; tutto, capite? Proprio davvero tutto, anche l’inenarrabile, ogni virgola,
ogni punto, ogni lettera che il beatissimo don Giussani aveva scritto era per me, mi scalfiva nella
carne. Nei momenti più duri mi ripetevo e ripetevo ai miei amici: «Sono nel bel mezzo di un
watershed». Al lavoro mi prendevano per matta, per tanti deliravo, ma, per fortuna, non per tutti.
Era la mia vita che aveva preso a pulsare così, continuamente. Era il mio sacrificio, la mia fatica di
ogni istante che illuminavano di senso, di pienezza e di grazia ogni istante e ogni cosa. Da allora,
dicendo: «Sì, Gesù, sei proprio Tu», Lui è onnipresente, è vivo, è carne. Per esempio, ho
riabbracciato mio figlio (era tanto tempo che non lo facevo più) con una certezza buona su di lui,
provando a guardarlo così come Lui sta guardando me. Vi assicuro che per me è accaduto il “di
più del di più del di più”: c’è un puntino all’orizzonte che diventa sempre più grande e sempre più
vicino.
Grazie, amica. Il Signore può far attraversare una cosa a noi incomprensibile per far accadere
questo, questo cambiamento che piacerebbe a ciascuno di noi sentire così nostro ripercorrendo ogni
riga del libro.
Sono un musicista e vengo dall’Umbria. Il mio sacrificio è stare, per motivi di lavoro, spesso
lontano dalla mia famiglia. Quando torno a casa con mia moglie cerchiamo di giudicare insieme le
cose che succedono dopo la Scuola di comunità. Nel concreto: capire il sacrificio del distacco per
noi è mettere a tema cosa vuol dire amare, cioè che l’altro ha un destino. Sacrificio, infatti, viene
da sacrum facere, rendere sacre tutte le cose, desiderare quindi di conoscersi sempre di più, non
dando nulla per scontato. Nel rapporto con i figli il sacrificio è guardare i figli per il loro destino,
come ci ha insegnato Giussani, quindi accettando la loro libertà. Poi vorrei aggiungere una cosa.
La mia esperienza è meravigliosa perché io suono in un’orchestra di musica classica, quindi faccio
continuamente esperienza della bellezza. Sono anche un insegnate del mio strumento, il corno. Nel
rapporto con i miei allievi il problema non è che loro diventino i più bravi del mondo, ma che
trovino una risposta, una soddisfazione nello studio riscoprendo la loro umanità attraverso la
musica. E poi due fatti recenti importanti: il 15 ottobre ho vinto un’audizione importante, e il 28
ottobre mio fratello ha avuto un incidente con la moto (ha rischiato di morire, è stato una settimana
in rianimazione intensiva per una lesione grave all’aorta). A me si sono spalancate due possibilità;
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c’è stata fortuna/sfortuna in questi due casi, oppure la realtà è segno? Per me questo significa che
devo decidere tutti i giorni se Cristo è risorto o no. Per me sì, è risorto, dico di sì. Anche perché il
15 ottobre è l’anniversario della nascita di don Giussani.
Tu non decidi niente. Tu riconosci o meno, non lo decidi tu, con il tuo permesso!
Ho vinto un concorso a Milano il giorno del compleanno del don Gius. E questo è un fatto. Mio
fratello dopo questo incidente si è convertito – stava per morire e malgrado non sia molto
simpatizzante del cristianesimo ha sospirato: «Signore, perdona i miei peccati», e ha poi deciso di
andare a fare un pellegrinaggio di ringraziamento –. E questo è un altro fatto.
Basta. Spiega bene che cosa c’entra il sacrificio con la bellezza, perché questo è quello che ci
interessa perché lì si vede bene il rapporto: quando il sacrificio diventa veramente interessante
perché per suonare in un’orchestra e perché ciascuno non vada da sé occorre…
...Seguire uno.
Seguire uno: occorre un sacrificio. Ma lì si vede come il sacrificio diventa interessante proprio per
la bellezza, tanto è vero che non possiamo ritornare indietro rispetto a questa bellezza. Questo è
qualcosa che nessuno di noi si può togliere di dosso. Mi viene in mente quando cantiamo insieme:
la gente pensa che noi facciamo un sacrificio, ma per noi non è qualcosa di costoso se non lasciamo
che ciascuno faccia da sé: è, al contrario, un punto di non ritorno di questa bellezza. Grazie.
Padre Aldo, dicci qualcosa su quando il sacrificio è diventato interessante per te, perché tu tocchi
con mano la fatica di tante persone.
Io guardo l’esperienza che tu vivi, soprattutto in queste ultime settimane, e ci siamo ritrovati con
gli amici proprio a interrogarci su questa cosa. Il sacrificio, che è la condizione per il gusto e la
bellezza della vita, è diventato interessante seguendo te, quando abbiamo percepito che è la
modalità con la quale Cristo entra nella nostra vita. Noi abbiamo lavorato (dico noi perché siamo
un corpo solo), e abbiamo percepito che il sacrificio è interessante perché esiste in ciascuno di noi
una familiarità con Cristo. Tu ci hai sfidato, ci hai invitato a convertirci. «Di un amore eterno Io ti
ho amato»: questo diventa la ragione della vita e questo amore eterno si chiama Cristo. Partendo
da quella croce, il sacrificio non solo diventa interessante, ma diventa una condizione piena di
letizia. Questo è il primo punto. Io sono partito perché amavo qualcuno, però non è sufficiente
perché tutto termina, poi rimane la tristezza. Ed è più acuta ancora, di fronte a tante difficoltà,
l’urgenza di ritrovarci per dire: «Chi sei Tu, o Cristo, per noi?». Il problema non è il sacrificio, ma
è chi è Cristo per me. Perché se Cristo per me è tutto, allora nasce una seconda cosa che mi ha
sconvolto, letteralmente sconvolto: Giussani parlando della crux fidelis inter omnes, dice che il
sacrificio di Gesù è il gran valore che salva il mondo in tutta la sua miseria della morte; e
partecipare con Lui nell’accettazione del sacrificio nella modalità con cui Lui lo stabilisce è il
valore nostro. E arriva a dire che il Signore fa questo, per esempio, permettendo che mi capiti una
malattia! Questo mi ha sconvolto! Perché ho sempre pensato che una malattia è un castigo, una
malattia è una sfortuna. Qui Giussani dice che è un dono del Signore! Io lo vedo nella mia clinica,
lo vedo in me per quello che mi accade tutti i giorni... Allora, se percepiamo questa cosa, il lamento
sparisce; non solo, ma capiamo che tutto è dono perché tutto mi porta a Cristo. Perché a me quello
che interessa non è quanto vivo o quanto vivono i miei malati: a me interessa Cristo. Ci siamo
interrogati in una tre-giorni: per noi la realtà è fonte di preoccupazione o di provocazione? Perché
vedevamo il rischio di una tristezza, di un lamento, e subito abbiamo sentito l’esigenza di ricapire
cosa vuol dire che la realtà è provocazione. La realtà significa tutte le cose, significa la malattia,
significa tutto, il modo ingiusto con cui sono trattato, gli amici che mi fregano, il fatto che devo
sacrificare un affetto e partire (e per me è accaduto così, nella certezza che in questo cammino si
compie la pienezza). Per cui quello che vedo oggi nella mia vita è che il sacrificio è la condizione
per la pienezza, perché se io voglio bene a una ragazza, è inevitabile che ami la distanza, perché se
io voglio leggere un libro, non lo appendo ai miei occhi, lo tengo a distanza; così in tutte le cose. E
questa è la battaglia di tutti i giorni fra il possesso di una cosa e l’affermarsi di un avvenimento.
Ma c’è quel “di più”: che tutto quello che accade è un dono, è un dono con i fiocchi, anche il
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cancro (e di questo sono mille le esperienze dei miei malati), anche un esaurimento è un’occasione
per riconoscere il gesto di amore di Cristo. È lui che lo dice e io l’ho sperimentato nella vita perché
da queste cose è fiorita non solo la mia vita, ma è fiorito tutto quello che c’è lì, e anche il nostro
continente latinoamericano.
Grazie! Mi sembra che con questo possiamo introdurci al mistero del sacrificio, di questa cosa che
ci sembra ripugnante. «Il problema non è il sacrificio ma chi è Cristo per me», ci dice padre Aldo. È
il problema della fede, come dicevamo prima. In questo senso, la questione del sacrificio è il
riassunto del percorso che abbiamo fatto: fino a che punto il percorso è stato un’esperienza in cui
Cristo è entrato così potentemente nella vita da affascinarla, e allora tutto quello che viene da Lui è
un’occasione, è una condizione per un rapporto? Tutto mi porta a Cristo, tutto è una provocazione.
Si apre il tempo della verifica; perché la testimonianza che lui ci dà diventi nostra ciascuno deve
verificarla, altrimenti non diventerà nostra. Occorre – come diciamo sempre – la nostra libertà.
Siccome non decidiamo noi che arrivi una malattia, una delusione o un’ingiustizia, la vita ci offre
tantissime occasioni non scelte da noi, che ci capitano, in cui noi possiamo fare la verifica di questo:
se entrando in questa circostanza con quello che abbiamo negli occhi, con l’esperienza di Cristo che
abbiamo, essa può diventare l’occasione di scoprire di più che cosa riempie la vita. Siamo liberi da
tutte le condizioni. Per questo la verifica non si può fare in un altro punto che non sia nel reale; una
cosa è vedere vincere Cristo nei nostri pensieri e un’altra cosa è vederlo vincere nel reale. La
vittoria nel reale genera la fede, cioè l’attaccamento a Cristo, la certezza che Cristo è tutto, che
Cristo è il significato, la chiave di volta di tutto. Questo non è un discorso; o diventa un’esperienza
o noi queste cose le ripetiamo ma non ci crediamo, e perciò alla fine continuiamo come cercando di
risparmiarci tutto quello che possiamo, evitandolo; poi, quando non possiamo, ci ribelliamo.
Approfittiamo di queste settimane per vedere se, in quel che il Signore ci fa attraversare (piccolo o
grande, non occorre sempre una cosa eccezionale), entrare con questa ipotesi cambia la nostra vita;
se accettare questa condizione del sacrificio, diventa fonte di letizia, come diceva adesso padre
Aldo.
Scuola di comunità. Proseguiamo con la seconda parte del capitolo e l’assemblea, pagine 394-415.
Vi leggo il comunicato stampa che abbiamo fatto per domenica 21:
CL: domenica 21 novembre preghiamo per i cristiani in Iraq
Comunione e Liberazione aderisce all’appello dei Vescovi italiani a pregare domenica 21 novembre
per i cristiani dell’Iraq, «che soffrono la tremenda prova della testimonianza cruenta della fede».
(Comunicato finale dell’Assemblea CEI, 11 novembre 2010).
Il movimento invita tutti i suoi aderenti a partecipare alle messe secondo le intenzioni di Benedetto
XVI, che il giorno dopo il gravissimo attentato nella cattedrale siro-cattolica di Bagdad che ha
causato decine di morti e feriti, ha detto: «Prego per le vittime di questa assurda violenza, tanto più
feroce in quanto ha colpito persone inermi, raccolte nella casa di Dio, che è casa di amore e di
riconciliazione. Esprimo inoltre la mia affettuosa vicinanza alla comunità cristiana, nuovamente
colpita, e incoraggio pastori e fedeli tutti ad essere forti e saldi nella speranza. Davanti agli efferati
episodi di violenza, che continuano a dilaniare le popolazioni del Medio Oriente, vorrei infine
rinnovare il mio accorato appello per la pace: essa è dono di Dio, ma è anche il risultato degli sforzi
degli uomini di buona volontà, delle istituzioni nazionali e internazionali. Tutti uniscano le loro
forze affinché termini ogni violenza!» (Angelus, 1° novembre 2010).
Rivolgendosi a tutti gli aderenti a Comunione e Liberazione, don Julián Carrón ha detto che «la
partecipazione alle messe domenicali secondo le intenzioni del Papa e dei Vescovi è un gesto di
comunione reale e di carità perché sentiamo come nostri amici i cristiani dell’Iraq, anche se non li
conosciamo direttamente».
Come dice don Giussani, «se il sacrificio è accettare le circostanze della vita, come accadono,
perché ci rendono corrispondenti, partecipi della morte di Cristo, allora il sacrificio diventa la
chiave di volta di tutta la vita […], ma anche la chiave di volta per capire tutta la storia dell’uomo.
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Tutta la storia dell’uomo dipende da quell’uomo morto in croce, e io posso influire sulla storia
dell’uomo − posso influire sulla gente che vive in Giappone adesso, sulla gente che sta in pericolo
sul mare adesso; posso intervenire ad aiutare il dolore delle donne che perdono i figli adesso, in
questo momento −, se accetto il sacrificio che questo momento mi impone» (L. Giussani, Si può
vivere così?, Rizzoli, pp. 389−390).
Per questa ragione, ha aggiunto Carrón, «se un gesto di preghiera può influire sul cambiamento
della gente in Giappone, può cambiare qualcosa anche in Iraq. Il sacrificio che facciamo per i
cristiani iracheni e la preghiera di domenica siano un gesto con cui invochiamo, imploriamo da Dio
la protezione per loro». L’ufficio stampa di Cl
Come ci siamo sempre detti, i criteri per giudicare la politica sono il bene comune e la libertas
Ecclesiae. Perciò, sulla situazione politica in cui ci troviamo, non possiamo non esprimere tutto il
nostro dolore, come ha detto il cardinale Bagnasco nella Prolusione all’Assemblea generale della
CEI (8 novembre 2010): «Siamo angustiati per l’Italia che scorgiamo come inceppata nei suoi
meccanismi decisionali, mentre il Paese appare attonito e guarda disorientato». Penso che sia
difficile trovare una spiegazione migliore della situazione attuale. E per questo chiediamo anche che
tutti quanti sono coinvolti in questo abbiano a cuore le sorti del Paese, cioè il bene comune di tutti e
non soltanto di quelli della propria parte, perché senza di questo non potranno salvare neanche la
propria parte; è una mancanza assoluta di realismo pensare di poter salvare la propria parte a costo
degli altri. È la nostra mentalità individualista che ci porta a queste situazioni. Per questo ci uniamo
all’invito del presidente della CEI a «fare tutti uno scatto in avanti concreto e stabile verso soluzioni
utili al Paese e il più possibile condivise», perché questo può avere presente il bene comune di tutti.
Chiediamo a tutti di pregare per questo, di fare ciascuno secondo la propria responsabilità quello
che può in questo senso.
È uscito il Volantone di Natale che ha come immagine la Natività (1960) di W. Congdon. Il testo è
questo:
«Per noi Dio non è un’ipotesi distante, non è uno sconosciuto che si è ritirato dopo il “big bang”.
Dio si è mostrato in Gesù Cristo. Nel volto di Gesù Cristo vediamo il volto di Dio. Nelle sue parole
sentiamo Dio stesso parlare con noi. (Benedetto XVI)
Giovanni e Andrea avevano fede, perché avevano certezza in una Presenza sperimentabile: quando
erano là […] a casa sua seduti, verso sera, a guardarlo parlare, era una certezza in una Presenza
sperimentabile di una cosa eccezionale, del divino in una Presenza sperimentabile. […]
Invece che Lui coi capelli al vento, invece di guardarlo parlare con la bocca che si apre e si chiude,
ti arriva addosso con le nostre presenze, che siamo come […] la fragile pelle, le fragili maschere di
qualcosa di potente che è Lui che sta dentro. (Luigi Giussani)».
Mi sembra che questo è il contributo più grande che possiamo dare ai nostri amici.
Con il Volantone vogliamo esprimere il contenuto del nostro cammino oggi. Perciò leggerlo,
esporlo, averlo negli occhi, ripeterlo, usarlo, è un’occasione per comunicare a tutti con più
consapevolezza l’esperienza che facciamo, cioè il giudizio – senza il quale non c’è cristianesimo –,
lo sguardo sul reale che noi portiamo. Dunque, lasciarlo entrare in noi, portarlo negli sguardi degli
altri e comunicarlo e lasciare che questo sguardo diventi, attraverso la nostra fragile pelle, le nostre
fragili maschere, questo sguardo oggi. E questa è anche la possibilità di verificare se l’esperienza
che viviamo ci rende così liberi da dire noi stessi nel reale, di portarlo nei luoghi dove si gioca la
nostra vita, perché questo sguardo che noi abbiamo avuto la grazia di riconoscere e di ricevere
possa arrivare a tutti, a tutti quanti siano nel nostro ambiente.
Libro del mese per dicembre e gennaio è Il cuore desidera cose grandi, Bur, Milano 2010. Questo
testo raccoglie una selezione dei principali interventi tenuti al Meeting di quest’anno. In questo
modo possiamo riprenderli più tranquillamente e focalizzare bene le cose dette.
• Veni Sancte Spiritus
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