.....«Ti ho amato di un amore eterno, avendo pietà del tuo niente»; «Sei come la pupilla dei miei occhi»; «Ti ho disegnato sulle palme delle mie mani»; «Prima di concepirti nel ventre di tua madre io ho pronunciato il tuo nome». Pensate cosa vuol dire per le mie bambine violentate poter ricevere per osmosi questa coscienza che vivo e per cui la loro identità non dipende più dalla forma con cui sono state concepite, ma dal fatto che sono state pensate da Dio per l’eternità! Vuol dire che, per esempio, quando domenica scorsa ho dato la Prima Comunione a dieci bimbe violentate, si sono confessate e mi hanno detto: «Papà noi non vogliamo che venga la nostra mamma e il suo concubino, però noi li perdoniamo». Bambine di dieci anni dicono: «Noi perdoniamo», perché un uomo non è frutto del suo passato, ma di un incontro che gli dimostra concretamente che «Io sono tu che mi fai».......
Padre Aldo Trento: Sono molto commosso di questa grazia e di essere vicino a Sua Eminenza il cardinal Carlo Caffarra, perché mai avrei creduto che il Signore mi desse una grazia così nella vita, soprattutto sapendo che vivo da ventidue anni dove c’è solo la miseria umana. Quindi, per me, stare qui è come stare in compagnia di Gesù. E’ un motivo di conforto per me, che ho bisogno di questa forza. Perché non si può vivere senza essa quando, per ventiquattro ore su ventiquattro, vedi la gente morire nelle strade, raccogli i cadaveri, vedi membra umane che cadono a pezzi mangiate dai vermi, condividi la vita con le prostituite, gli omosessuali, i malati di Aids, i travestiti, le bambine violentate. Quindi questo momento per me è un regalo che Gesù Bambino mi sta facendo, che sta facendo a questo povero uomo, che è stato oggetto di una grande misericordia nella sua vita. Solo chi sperimenta la misericordia abbraccia tutti. Per questo quello che cerco di dirvi nasce così di impeto. Voglio comunicarvi cosa genera questa posizione di misericordia e il perché ho bisogno di sentire tutti i giorni: «Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Sì, ho bisogno solo di questo. Siamo solo duecento preti in missione in Paraguay e quindi a volte ho dovuto impiegare anche un giorno di strada per riuscire a confessarmi.
Nemmeno la lontananza mi ha mai impedito di passare una settimana senza Confessione. E quando venivo in Italia all’aeroporto cercavo un prete e, al primo che incontravo, gli chiedevo di confessarmi. Perché volevo risentire quello che dicono i profeti e i salmi:
«Ti ho amato di un amore eterno, avendo pietà del tuo niente»; «Sei come la pupilla dei miei occhi»; «Ti ho disegnato sulle palme delle mie mani»; «Prima di concepirti nel ventre di tua madre io ho pronunciato il tuo nome». Pensate cosa vuol dire per le mie bambine violentate poter ricevere per osmosi questa coscienza che vivo e per cui la loro identità non dipende più dalla forma con cui sono state concepite, ma dal fatto che sono state pensate da Dio per l’eternità! Vuol dire che, per esempio, quando domenica scorsa ho dato la Prima Comunione a dieci bimbe violentate, si sono confessate e mi hanno detto: «Papà noi non vogliamo che venga la nostra mamma e il suo concubino, però noi li perdoniamo». Bambine di dieci anni dicono: «Noi perdoniamo», perché un uomo non è frutto del suo passato, ma di un incontro che gli dimostra concretamente che «Io sono tu che mi fai».Immaginatevi, se fossi il frutto dei miei antecedenti, non sarei qui, ma in manicomio. Se fossi frutto di quanto mi è accaduto nella vita, non sarei qui stasera. Se fossi vittima ancora di quello che mi è accaduto, come potrei guardare con ironia la realtà e dire che «là, dove ha abbondato il peccato, ha abbondato grazia»? Come potrei dire alla gente quello che Pietro le disse: «Nel nome di Gesù alzati e cammina»? Questo nome di Gesù, che non pronuncia più nessuno. Sì, perché anche ieri ho avuto una discussione e mi dicevano che sul lavoro bisogna stare attenti a pronunciare il nome di Gesù e che bisogna dimostrare di essere cristiani in un altro modo. Ma come? Cosa ha detto Pietro quel giorno, senza certo avere davanti gente che lo applaudiva? Nel nome di Gesù ha detto a quel paralitico: «Alzati e cammina». Ma quanti oggi dicono più il nome di Gesù? C’è un falso ecumenismo, un falso rispetto e la paura di dire il dolce nome di Gesù: «Jesu dulcis memoria». Che tristezza provo, che scontatezza sento, per il fatto che noi viviamo più per la partita di calcio che per Lui. Dicevo a un incontro a Palermo: «Viviamo per una partita, per la Ferrari o per il moroso più che per Gesù. Allora cosa pretendiamo, cosa ci lamentiamo?». Ci sono tante razze e situazioni diverse, ma noi siamo chiamati ad annunciare Cristo. Ma se Cristo non è la mia vita, se non posso dire come san Paolo che «per me vivere è Cristo», è chiaro che mi vergogno di Lui. Pensate che tristezza! Giussani aveva detto prima di morire che la Chiesa ha vergogna di Gesù. Noi, io, abbiamo vergogna di Gesù, della vera pienezza. E dove è accaduta questa pienezza? In questo sguardo per cui «di un amore eterno ti ho amato». E dove è presente questo «Tu che mi fai»? E’ presente nello sguardo con cui Gesù ha guardato Zaccheo: il primo uomo che ha iniziato opere di carità nella Chiesa, perché con i soldi che aveva rubato ha poi cominciato a fare qualcosa di buono. Io dico sempre: la Compagnia delle Opere è iniziata con Zaccheo! E cosa definiva Zaccheo? I soldi che ha restituito? Ciò che ha fatto dopo? No! Quello sguardo di Gesù e vivrà tutta la vita determinato da quello. Pensate l’adultera, del film The Passion di Mel Gibson, che si trascina ai piedi di Gesù e lo incrocia. Pensate, tutti l’avevano condannata e poi Gesù la guarda e da lì in poi la sua vita sarà determinata solo da quello sguardo. Oppure, pensate alla samaritana che incrocia un uomo, «il più bello tra gli uomini», come dice il Salmo 44. Lo stesso è oggi: una delle mie novizie dei Memores domini mi ha detto: «Padre io sono felice della verginità, perché l’uomo più bello mi ha eletta». Pensate a quella donna che dice: ho incontrato uno che mi ha detto chi sono. Pensate a Matteo, a Giovanni e Andrea. Il cristiano è l’uomo che guarda così il mondo, se stesso e tutto
E dove io storicamente ho incontrato questo sguardo di misericordia? Quando non valevo niente e mio fratello voleva chiudermi in manicomio. Era il 25 marzo del 1989, in via Martinengo a Milano un uomo, don Luigi Giussani, mi abbracciò. Io non ce la facevo più, ero disperato, non sopportavo più la vita e lui mi abbracciò e mi disse: «Che bello, che bello!». Poi, vedendomi in quella condizione disse: «Come sarebbe bello che qualcuno ti facesse compagnia». Risposi: «Ma, Giussani, chi fa compagnia a un nevrastenico?», (su questo leggete Getsemani di Charles Péguy che parla della nevrastenia di Cristo). «Chi mi fa compagnia?», chiesi come Gesù chiese nell’orto degli ulivi. Ma nell’orto tutti si addormentarono. E così fu anche per me: nessuno mi faceva compagnia, tutti erano occupati in altre cose. E Giussani disse: «Bene, allora ti porto via con me». Mi ha portato tre mesi con lui e ha fatto tutto lui. Io non sapevo niente e mi sono trovato nella Fraternità san Carlo perché lui mi ha messo lì. Poi, quando la cosa stava peggiorando mi disse: «Allora ti mando in Paraguay». Gli dissi: «Ma come, se non entro nei criteri necessari?». Non rispondevo a nessun criterio che la Chiesa chiede per andare in missione, né tanto meno per fare quel che poi ho fatto. Mi rispose: «Io mi sento sicuro di te». Come era possibile, se cadevo per terra a causa dal fortissimo esaurimento che avevo? Lui mi portò in aeroporto a Linate e mi caricò sull’aereo affidandomi a un sacerdote e poi per 16 anni ho vissuto tenendo nella mente quello sguardo, come fece Zaccheo dopo aver incontrato Gesù. Ma cosa vuol dire? Vuol dire che lo sguardo di Giussani era lo stesso di Gesù a Zaccheo. E come si manifestava in quel paese tropicale del Terzo Mondo? Nella Confessione, la Confessione mi ha curato. Quella che oggi in Italia non trovo più. A volte non c’è nemmeno un prete per confessarsi e se ci vai ti chiedono quando è stata l’ultima volta che ti sei confessato. E se rispondi che sono passati tre giorni ti chiedono pure che sei venuto a fare. Io rispondo: «Vengo non per ascoltare la tua predica, ma per sentire Lui che mi dice: “Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”». Immaginatevi nelle selve del Paraguay, in quell’ambiente dove tutto mi era estraneo, cosa significa poter sentirsi dire: «Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Perché non è che Giussani fosse con me fisicamente: ho vissuto i primi dieci anni con un prete di Forlì e ci confessavamo a vicenda. E non ho mai lasciato passare più di dieci giorni senza confessarmi, perché l’abbraccio di Giussani non era un sentimento, ma un giudizio, un Sacramento. Perciò non mi importava se dovevo passare un giorno, per chilometri e chilometri, a cercare un prete che mi confessasse vecchio o malato che fosse, o in fin di vita come uno che ho ricoverato nella mia clinica. Ho vissuto così, determinato da questo abbraccio di Gesù a Zaccheo e dall’obbedienza alla realtà, alla realtà come amica. Perché la realtà si può guardare in due modi: o come provocazione, come qualcosa che ti rimanda all’infinito, o come preoccupazione che distrugge, paralizza e che crea angoscia. Per questo quando mi alzavo la mattina per dieci anni ho ripetuto: «Io sono tu che mi fai». Sono stati dieci anni di insonnia: Non chiudevo occhio, avevo i capillari che mi si rompevano e tutto mi sembrava destinato a fallire, ma niente mi poteva impedire di dire: «Io sono tu che mi fai». Per quello mi arrabio quando sento dire da alcuni: «Ma io non sento». È ventidue anni che io non so cosa vuol dire sentire e che Dio non mi dà una caramella in bocca, ma il sentire non ha nulla a che fare con la certezza che io, ora, sono frutto di un Mistero che mi fa e che mi costituisce. Pensate che vuol dire alzarsi per anni senza dormire tutta notte. Pensate, tutto per me era irritabile. Mi chiamavano il padre irritabile. Però dentro tutti i limiti che avevo dicevo: «Io sono tu che mi fai». E, poi, ho iniziato a guardarmi con gli occhi di Dio, con ironia e con amore. Nella solitudine dei quattro anni dopo in cui sono stato solo come un cane ho capito cos’è il sacrificio, quello che Giussani, nel libro Si può vivere così, chiama “Il mostro”. Ho capito perché è una grazia: era la condizione attraverso cui Cristo poteva compiere il disegno che aveva su di me. Per questo mi commuove quello che Giussani dice rispetto al sacrificio. Commentando il Crux fidelis inter omnes scrive una cosa che sconvolge tutti e che dà fastidio a tutti: quando il sacrificio di Gesù, il grande valore che salva il mondo da tutta la sua miseria e la sua morte, diventa valore per noi? Nel partecipare alla Sua sofferenza, nell’accettare il modo che Lui stabilisce per partecipare al Suo sacrificio. Per esempio, dice Giussani, «Lui mi manda una una malattia». Quando ho capito che l’esaurimento e il cancro non erano una sfortuna, ho compreso la differenza tra il concepire la malattia come castigo, oppure come possibilità. Anche Dio pare abbia castigato Suo figlio, ma per Cristo la Croce non è rimasta castigo. Anche se ha conosciuto la nevrosi, anche se urlava: «Allontana da me questo calice» o «Perché mi hai abbandonato?». Infatti alla fine ha detto: «Non la mia, ma la tua volontà sia fatta». E poi:«Io sono tu che mi fai…Nelle tue mani affido il mio spirito». Quindi anche oggi la mia malattia è l’occasione per dire Tu a Cristo e per partecipare della Sua sofferenza, perché il mondo Lo incontri. Tante volte mi trovo a piangere per le strade guardando quelle capanne che sono lì, che aspettano Cristo e non c’è nessuno che lo annuncia. E dopo sedici anni del martirio che ho passato è nata la Città della carità e allora ho capito. Chiedevo sempre alla Madonna: «Ma perché Madonna se chiedo qualcosa a mia madre me la dà subito e Tu, invece, dopo dieci anni che soffro, faccio voti, vado nei santuari (ho fatto 20 mila chilometri per la guarigione) non fai cambiare niente di niente?» Non mi dava la grazia! Ma come è possibile? Poi ho capito che Gesù voleva che mi purificassi, mi voleva tutto Suo, non accettava alternative, come diceva Santa Teresa: «Nel mio cuore c’è una sola sedia, o la occupa Gesù o la occupa il demonio». E’ questa la battaglia. Quando Cristo mi ha reso Suo? Quando il mio «sì» è stato radicale e l’Io, prima mi avrebbero definito bipolare, è diventato una sola cosa con Cristo, che è diventato lo sguardo dei miei occhi. E’ stato da lì in poi che è fiorito tutto. E’ nata tutta la realtà di carità di cui vi leggo. Sono alcune testimonianze di malati terminali della Clinica. «Sono stato nove anni nel carcere di Tacunbu – scrive un malato – che è come un lager sovietico, con cinquemila prigionieri in un posto per mille persone: stavamo uno sopra l’altro. Sono stato venti giorni senza mangiare, non bevevo, la gente mi trattava male e desideravo solo morire finché sono arrivato in questa clinica, che adesso è la nuova forma di un abbraccio. Qui ho cominciato ad alimentarmi grazie all’incontro con la Misericordia divina». Nella mia clinica faccio la processione tre volte al giorno, mi inginocchio davanti a ogni malato e lo bacio, non importa se ha il cancro ed è pieno di vermi. Sentite cosa dice Gabriele a 18 anni e ormai oggi in fin di vita: «Quando arriva il Santissimo nel mio letto, quando prendo la Comunione sono forte, mi si asciugano le lacrime, mi passa la sofferenza che neanche la morfina calma, non mi ricordo più di niente, Gesù diventa la mia forza. Nello stesso istante in cui sono entrato in questo luogo ho sentito un sollievo tanto grande da tutto il carico dei miei peccati [parliamo della feccia umana, di Aids, cancro, prostituzione...] mi sono sentito liberato da tutti i miei peccati. [E' quello che dice il Papa: abbiamo dimenticato che la causa del male è il peccato. Perché non si sente più il bisogno di confessarsi? Perché manca Gesù, perché solo se c'è l'incontro con Gesù si ha coscienza del peccato] Tutto il carico di peccati che portavo sopra è sparito, tutto si è sfumato, una cosa dell’altro mondo». Parla una malata terminale: «Mi sento piena di vita e di speranza, con la certezza che Dio esiste. Io sono qui come un’altra persona [ha incontrato la pace del paradiso], mangiando, parlando tutto il giorno, come posso, e sorridendo come mai mi è accaduto nella vita». E mi scrive: «Quando ti senti male, come me, ricordati che Dio esiste, che per Lui nulla è impossibile. Confida e verrà la risposta perché Lui compie tutto». Un malato di Aids: «Quando sono arrivato alla clinica la mancanza di pace e la montagna di peccati che avevo mi faceva stare così male che ero arrivato al punto di non poter mangiare, non potevo ingoiare nemmeno le medicine e i medici non sapevano più cosa fare. Ma qui ho incontrato padre Aldo che mi ha detto: “Vuoi confessarti?”. Mi sono confessato e da quel momento il carico dei miei peccati è sparito. Da quel momento ho ricominciato a vivere. [Ora chi scrive non è più malato terminale] La confessione, il perdono, la comunione quotidiana, i sacramenti sono ciò che ha salvato la mia vita», come dico per la mia. E guardate che se non sono battezzati e magari sono così malati da non rispondere gli chiedo: «Se sei pentito fammi un gesto». Lo fanno e io li assolvo e vedi i loro occhi trasfigurati.
Un’altra scrive: «Dio mi ha bastonato perché mi ama, e per quello mi ha dato l’Aids, e non desidera che essendo Sua figlia mi perda. Papà Aldo, voglio dirti che ti amo molto e voglio ringraziarti ogni momento per ogni secondo che mi hai dato, ma più per aver avuto fiducia di tua figlia, desidero che tu mi perdoni [è una prostituta di vent'anni che entrava e usciva dalla clinica e adesso è morta] e ti prometto che questa volta mi consegno totalmente a Gesù». Un altro malato terminale dice: «Dopo tanto tempo sono tornato a dire Cristo. Ciò mi ha fatto piangere molto, perché è stato come l’incontro fra due amici che da anni non si vedevano o che non si erano visti mai. [Questo malato ha composto una canzone prima di morire intitolata Morir cantando]. Non fu un rincontro, quello fra noi, ma l’incontro con Chi mai prima avevo incontrato: la forza del mio destino. E ho scoperto che l’unica condizione per incontrarmi con Cristo era morire». Per questo vorrei dire a tutti che non abbiano paura della morte di cui tanto hanno paura! Se mai abbiate paura di perdere Cristo! Un altro, che prima di entrare nella clinica non aveva mai sentito parlare di Gesù, dice: «Chiedo perdono alla vita, a Gesù, per quanto ho peccato, però so che Cristo mi aspettava in questa vita e ora mi aspetta in Paradiso. Grazie all’Aids mi sono incontrato con Gesù. Adesso mi accetto come sono, prima cercavo di essere diverso. Con l’amore tutto fiorisce. Da quando mi sono ammalato e mi sono consegnato a Dio, questo ha cambiato tutto [e cambia me come ha cambiato tutta la parrocchia] e sono felice». Fabiana, che è morta, mi ha lasciato una bambina di due anni con l’Aids: «Più di una volta mi sono chiesta: “Se tu Gesù sei morto sulla Croce per me, come posso io offenderti e burlarmi della tua morte?”. [Perché è partendo dalla Croce che si capisce che il dolore è una grazia] Condivido con te o Gesù il tuo dolore, quel calvario tuo, la tua crocifissione. [Capite cosa vuol dire il cancro? Vedere morti viventi che puzzano, con l'utero putrefatto, chi parla aveva un cancro che pesava chili e i vermi gli uscivano dalla bocca. Capite dove sta il valore, la grazia che Dio mi dà tenendomi stretto sulla Croce con Lui]. Signore sono qui, perché tu faccia di me quello che vuoi. Ti ringrazio del momento difficile che mi dai. Adesso ti amo più che mai, perché sento la Tua presenza, la mia vita l’ho vissuta nella dimenticanza, però, ora sono pura, preparato per incontrarti nella tua gloria». Questo è Lino, anche lui terminale: «Guardando il Cristo crocifisso sono tutto commosso nel vedere quanto Lui mi ama è lì che il mio cuore ha iniziato a fiorire, ad essere felice fino al punto in cui ho esclamato: “Che bello vivere con il Signore! Che duro aver vissuto senza Lui». Quando mi scoraggio cerco di ricordarmi di queste parole. Amici vi ringrazio e ringrazio Sua Eminenza: che ci aiuti sempre a crescere, a credere, a dire in un mondo in cui tutti scappano da queste cose, «Tu oh Cristo mio che mi dai questo cancro, Tu oh Cristo mio che mi dai questa sofferenza»! Non ho bisogno di psicologi, ho solo una psicopedagoga che mi aiuta, perché sono convinto che quando una bambina violentata vede in me la coscienza del «Io sono tu che mi fai», che si trasmette per osmosi, rinasce. Ho visto rifiorire tutti i miei bambini. Un esempio? Il primo anno in pagella avevano tutti uno, i voti vanno dall’uno al cinque, ho detto: «Bambini, facciamo una festa, perché la cosa più difficile nella vita non è arrivare dall’uno al cinque, ma passare da nessuno a qualcuno: da zero a uno. Sono passati due anni e oggi la media è quattro. Capito che allegria e Che gioia? Io sono Tu che mi fai! Chi sei Tu o Cristo?! Non c’è disgrazia che non sia redenta da Lui. «Perciò – dico loro – animo bambine, avanti!» E questo lo auguro anche a voi: nel nome di Gesù, viviamo questo Avvento!
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