«La chiamata di Dio è irreversibile»
«Non esiste differenza tra il matrimonio e la vita consacrata. Il problema non è la forma di una convivenza, ma il contenuto che dà origine a questa forma. Stiamo insieme perché Cristo ci ha chiamati o per una simpatia, un sentimento?».
Di Aldo Trento
Carissimo padre Aldo, sono una religiosa e leggo la sua rubrica su Tempi, in cui trovo un grande aiuto per la mia vita. Per questo le scrivo per avere un aiuto. Ho abbracciato la vita di consacrazione da circa vent’anni ed anch’io, come lei, ho sentito la “chiamata” fin da giovane, anche se mi ha sempre attratto la possibilità di una vita familiare con un buon marito e dei figli. Non sono mai stata un tipo tranquillo, anzi direi che mi hanno sempre caratterizzato una grande irrequietezza e, nello stesso tempo, un grandissimo desiderio di radicalità. In questi anni, pur attraversando mille difficoltà e vivendo mille amari tradimenti, non mi ha mai nemmeno sfiorato il dubbio di aver sbagliato strada. Finché pochi anni fa i miei superiori mi hanno proposto di cambiare comunità per andare a sostenerne una in difficoltà. Cosa non facile, essendo la comunità composta da 15 suore, da 15 donne, la cui maggioranza supera i settant’anni.
La vita comune mi ha creato sempre grandi problemi, ma in questa nuova sede mi sono ritrovata immersa nell’aridità più totale. Ciascuna viveva come se fosse stata sola, ciascuna si preoccupava di curare i propri “affari” e le proprie attività e le altre costituivano uno scomodo intralcio alla propria individualità. Dopo pochissimo tempo mi sono rivolta ai miei superiori segnalando le mie difficoltà. Ma, ahimè, tutte le volte mi sono sentita rispondere che la mia fede non poteva dipendere dalla posizione di chi mi stava vicino, che l’unico problema di cui dovessi preoccuparmi era il mio rapporto personale con Cristo. Certo io capivo e capisco anche ora che questo è il problema della vita, che non esiste situazione, circostanza avversa che possa impedire alla mia libertà di aderire a ciò per cui è fatta, però mi chiedo e ti chiedo: ma allora perché c’è stato bisogno che Cristo si facesse carne? Se fosse stato sufficiente un rapporto intimistico e spirituale con Lui? Perché dobbiamo fare il sacrificio di una vita comunitaria se il problema è solo il mio rapporto personale con Cristo? Questa sofferenza e questa incomprensione sono durate anni, dopodiché... ho cercato altrove... e mi sono illusa di trovare nell’abbraccio di un uomo quella fisicità, quella “carne” di Cristo che il mio cuore desiderava e per cui avevo dato fino a quell’istante tutta la mia vita.
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Come si può capire dalla mia storia, non sono più una ragazzina e questa esperienza, a 50 anni, ha sconquassato la mia esistenza! Per la prima volta il dubbio si è insinuato nei miei pensieri, togliendomi il sonno e le energie per affrontare la vita. Quell’uomo, che mi sembra di amare infinitamente, ha invaso i miei pensieri, il mio tempo, è diventato una vera ossessione, perché sto identificando in lui tutto ciò che non trovo più in tutto quello che ho vissuto e in cui ho creduto finora. So che tu hai attraversato un’esperienza simile e ne sei uscito, con tutte le tue ferite, ma ne sei uscito. Ti prego aiuta anche me a trovare la risposta a questo dramma, che sta sconvolgendo la mia vita.
Lettera Firmata
Cara sorella, un giorno sono andato a visitare un monastero di clausura, perché sono amico della superiora. Arrivai in un momento particolare, perché lei aveva appena finito di parlare con una ragazza che, stanca della vita mondana che aveva trascorso, voleva offrirsi a Cristo per incontrare quella tranquillità interiore ed esteriore che il suo cuore desiderava. Curioso di conoscere come era finito il colloquio le chiesi quale fosse stata la decisione. E lei con la sua faccia serafica, dalla quale traspariva una dolcezza autenticamente femminile e allo stesso tempo un temperamento chiaro e forte, mi rispose: «Padre, ho detto alla ragazza che se voleva entrare in un monastero in cui vivono 30 donne per trovare la tranquillità le consigliavo di tornare a casa sua. Perché convivendo con 30 donne è impossibile trovare la tranquillità. Una viene nel monastero perché Cristo la chiama e desidera vivere come Cristo e con Cristo e certamente incontrerà la pace, ma mai la tranquillità». Il convento, il monastero, la casa religiosa o è il luogo in cui i suoi membri guardano a Cristo, o si trasforma in un inferno. L’unità, la gioia della vita comunitaria è un dono dall’Alto ed esige una libertà che in ogni momento riconosca la grande Presenza del Mistero. Solo in questo riconoscimento, solo se per i consacrati il vivere è adorare la grande Presenza in ogni istante, i temperamenti, i limiti, elencati molto bene da san Benedetto, non solo non sono un’obiezione alla vocazione, ma la via più bella per il proprio sì a Cristo.
Un sì che passa attraverso lo scandalo della carne, lo scandalo dell’Incarnazione, lo scandalo di una comunità a volte piena di pretese e limiti come descrive bene Leo Moulin nel suo libro La vita quotidiana secondo San Benedetto. «È un fatto: San Benedetto non nutre alcuna illusione a proposito dei suoi monaci, a maggior ragione degli uomini in generale. Egli conosce per esperienza la loro doppiezza, vulnerabilità, fragilità radicale, la loro tendenza alla pigrizia e al lasciar correre, la loro profonda cattiveria. Sono dei vizi “congeniti alla natura umana”, dice Molière, e i monaci non ne sono esenti. Non c’è quasi pagina della regola che non sottolinei, in un modo o nell’altro, questi limiti e queste debolezze». Inoltre se la mia memoria non si sbaglia, ricordo di aver letto che san Benedetto o forse san Bernardo ripeteva spesso che coloro che entravano nel monastero erano bestie che nel tempo la grazia di Cristo avrebbe convertito in uomini. Per questo la storia della Chiesa e anche della vita monastica ci ricorda in modo chiaro che non sono mai entrati angeli in convento, ma uomini con il loro carico di miserie. Mai l’umano è stato obiezione per la vita consacrata. Non solo non è stata obiezione, ma la condizione.
E non solo per chi è stato chiamato da Cristo ad una sequela particolare, ma l’umano è l’unica via per tutti per incontrare Cristo. Scandalizzarsi dei limiti propri ed altrui significa che ancora Cristo non è entrato nella nostra vita, perché il primo contraccolpo del fatto che abbiamo incontrato Cristo è il fatto di non scandalizzarci più dei nostri limiti, ma di guardarli con ironia certi che il suo amore, la sua compassione verso di noi, è infinitamente superiore ai nostri limiti, alla nostra malvagità. Come non commuoversi davanti allo sguardo di Cristo che invita Giovanni e Andrea a seguirlo, che chiama Zaccheo invitandosi a cenare a casa sua? Come vibro di commozione quando leggo di quel giorno in cui Gesù rivela alla samaritana la sua identità e lei corre a chiamare i suoi compaesani dicendogli con tutta la sua voce: «Ho incontrato uno che mi ha detto chi sono!». La casa religiosa, il monastero o è il riaccadere tutti i giorni di questa esperienza o è un inferno, è qualcosa di disumano.
Per questo non esiste nessun motivo che possa giustificare l’abbandono della casa o la fuga seguendo l’illusione di trovare nell’abbraccio di un uomo o di una donna la risposta a ciò che il nostro cuore desidera. La chiamata di Dio è irreversibile. Cosa che vale tanto per coloro che sono chiamate alla vita consacrata come al matrimonio. Non esiste differenza tra la convivenza di un matrimonio e la vita consacrata. Il problema non è la forma di una convivenza, il problema è il contenuto che dà origine a questa forma. Stiamo insieme perché Cristo ci ha chiamati o per una simpatia, un’attrazione sentimentale, un interesse istintivo? Il problema è realmente uno solo: chi è Cristo per te? È la stessa domanda che Giussani mi fece quando anni fa ho vissuto la tua stessa situazione.
Don Giussani non mi fece nessuno sconto, ma con il suo abbraccio tenero e con il suo sguardo luminoso decise di dirmi che se Cristo fosse stato la ragione totalizzante e definitiva della mia vita qualsiasi difficoltà si sarebbe trasformata in una positività, in una possibilità più grande di amore a Cristo, l’unica che possa soddisfare pienamente la sete e la fame di amore e felicità che il mio cuore desidera. Cara amica, il fatto che dopo un anno tu non abbia più sopportato questa situazione di solitudine cercando «nell’abbraccio di un uomo quella fisicità, quella “carne” di Cristo che il tuo cuore desiderava e per il quale avevi offerto la tua vita fino a quel momento», da un lato conferma la verità della provocazione che ti fecero i tuoi superiori e dall’altro ha aperto una ferita molto positiva, perché mai come in questo momento hai gridato, mendicato, cercato aiuto. Questo grazie al fatto di esserti innamorata di un uomo quando la maggior parte di noi consacrati viviamo “innamorati” di cose peggiori, che non disturbano i superiori né gli altri e nemmeno ci fanno perdere il sonno.
Quanti vivono nel tepore, attaccati al denaro, a relazioni meschine, al cachet, al computer ultimo modello, alle ultime tecnologie, a mille capricci? Quanti religiosi passano il loro tempo dormendo o cercando le loro piccole soddisfazioni in una vita borghese? Capisco bene la tua situazione, perché l’ho sperimentata sulla mia pelle. Non ho mai dubitato ed affermo, dopo anni di sofferenza, che è stata la grazia più grande che ho sperimentato nella vita, perché ho imparato a gridare, a mendicare, a vivere con gli occhi fissi verso il Mistero. Quella ferita aperta, grazie ad un innamoramento imprevisto, ha risvegliato un’infinita sete e fame di conoscere il Suo volto. Senza quell’esperienza Cristo avrebbe continuato ad essere astratto, un punto di riferimento, un’ispirazione e non l’unica ragione della mia vita. Certamente è stata una battaglia durissima, è stato un “mordere la pietra” come direbbe Milosz nella sua opera Miguel Mañara. Ma l’esito è stata la grazia di poter dire “Io” e conoscere, apprezzare, amare la mia umanità, cosa che prima detestavo considerandola come qualcosa di terribilmente negativo e un impedimento alla mia relazione con Cristo.
padretrento@rieder.net.py
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