La “carezza del Nazareno” Jannacci la insegue da sempre. Inutile tentare di seppellire questo dissacratore tra i “convertiti”. Ascoltare per credere
di Maurizio Vitali
È Medioevo, ma sembra adesso. In piazza Sant’Ambrogio a Milano, Prete Liprando attraversa il tappetone di carboni ardenti coi suoi lunghi piedi nudi e supera mirabilmente la prova del giudizio di Dio.
Indenne. Oddio, un po’ sudato, «ma non è bruciato». Lui ha detto il vero, e l’arcivescovo (che per schivare la seconda crociata si era messo in malattia) ne esce sputtanatissimo.
Folla milanese (e gente venuta fin da Venegono e da Biandrate) in delirio per il fatto dell’altro mondo. Del quale invece uno neanche si accorge: «Son venuto da Como per niente!». Anni Sessanta: i Beatles e i Rolling Stones, tutti i ragazzi li amavano. Noi, invece, studentelli lumbard qualsiasi, figli di un ’68 minore mai classificato sotto le etichette di sinistra e di destra, proprio per via di un 33 giri con su Prete Liprando e il giudizio di Dio, fummo presi ad amare lui, Enzo Jannacci, unico e irripetibile per quella sua comicità dissacrante che faceva a pezzi tutte le convenzioni senza ragioni e le finzioni senza vita.
Jannacci torna oggi a sorprendere e dissacrare: «Mai stato ateo. Dico le stesse cose da quarant’anni. Fin dall’inizio ero vicino a Dio, al Nazareno e a quella carezza che è venuta fuori un po’ per volta», ha detto al Sussidiario.net, dissacrando con queste parole la convenzione laicista di oggi piuttosto che quella clericale di allora. «La carezza del Nazareno è quella che si augura chiunque consideri la vita importante», ha spiegato all’Avvenire. Importante è la vita di Giovanni telegrafista, motivo strampalato e struggente con cui Enzo ha aperto il gran concerto al Meeting di Rimini. Non è socialmente e politicamente importante, Giovanni: vive e lavora in una «stazioncina povera, c’eran più alberi e uccelli che persone». Ma è importante lui, proprio lui: «Aveva il cuore urgente (anche senza nessuna promozione)». Piripiripiri… Piripiripiri… è il battere ripetitivo del dito del telegrafista e anche il pulsare del suo cuore urgente. Giovanni è innamorato e – figurarsi – non corrisposto. Scopre da notizia telegrafica che gli passa sotto il naso insieme al prezzo del caffè e alle cavallette in Cina che Alba l’amata («neppure mattiniera, anzi mulatta», sacramenta) ha sposato un altro. È importante la vita, ma non è una riuscita la vita dei disgraziati personaggi di Jannacci. Se c’è successo, più facile che arrida putacaso a una barca (Luna rossa) o a un cavallo (Varenne). Ma per l’uomo «è come se la vita fosse un modo di morire» (Ecco tutto qui), e infatti nessuno è immortale, e quel destino che tutti rimuovono è l’ultima inevitabile parola (salvo l’aldilà, eventualmente). Così giorno dopo giorno la vita si rivela come incompiutezza, mancanza, sfiga (non di rado). E desiderio di infinito, oltre il limite. Il «cuore urgente». La vita come attesa. Pedro Pedreiro aspetta il tram. Aspetta l’aumento di stipendio, la festa, la fortuna. Aspetta tutto. In verità aspetta «qualche cosa al di là del suo mondo, più grande del mar».
La lombardità antiretorica
La lombardità nostra come di Jannacci è quella rugosa, modesta, cattolica, dimessa e per ciò stesso dignitosissima aderenza alla realtà accettata che ci impedisce di “metterla giù dura”: non enfatizziamo mai i sentimenti. Un po’ ce ne vergogniamo. Accettiamo e affrontiamo il limite senza hybris. Lavorando, finché ce la facciamo, con l’aiuto di Dio. Siamo, noi affetti da lombardità, come Enzo (che pur assorbe in sé anche radici terronico-pugliesi), un po’ schivi, pudichi e irrimediabilmente realisti e antiretorici. La tristezza è sapientemente mescolata al riso; incompiutezza e mancanza tuffate nella goffaggine o nella sgangheratezza dei tipi. Nella canzone come nella realtà. Tipi dis-graziati, cioè senza la grazia di Dio (l’ha detto lui: «Non per raccattare consensi, è questione di etimo, che aiuta»). Il modo sgangherato di presentarci le cose e gli uomini non è dunque nonsense, come spesso è stato liquidato, ma è un grimaldello per spaccare la crosta della tranquillità borghese della vita e andare dentro l’esperienza reale. Tra dis-grazia, croce e attesa di redenzione.
La canzone più nota di Enzo è probabilmente El portava i scarp del tennis (1964). Le scarpe non erano per giocare a tennis, roba da ricchi, ma quelle di pezza con rinforzi di gomma bianca, marca Ursus le più scadenti, Superga le migliori. Le portavano i ragazzini all’oratorio, da grandi le mettevano solo i barboni. Erano buffi, i barboni. Visti da lontano ci facevano, a noi bambini, anche un po’ paura. Bizzarri e truci come streghe. Ma poi grazie ai costumi lombardi e cattolici delle nostre famiglie, ci frequentavano: gli aprivamo la porta di casa, specie d’inverno, gli offrivamo una scaldata di mani; sedevano alla nostra tavola con noi per un piatto di minestra. Anche loro con sobria lombardità, scusi il disturbo. Ma noi bambini in casa li vedevamo in faccia, li vedevamo negli occhi. I «oeucc de bon». Irresistibile bontà della natura che Dio ci ha dato. Fa niente se siamo poveretti. «Anca mi, mi g’hoo avùu ’l mio grande amore». Sotto l’ironia di Jannacci con questi tipi – i “barbòn” – c’è tenerezza, simpatia, compassione nel senso non patetico: sentire appassionatamente insieme. Sentire insieme (al barbone, per esempio) il bisogno di una carezza (una carezza del Nazareno: ha dovuto spiegarlo, Jannacci, altrimenti magari non saremmo mai arrivati a capirlo), mentre sei lì che t’han «trovaa sotta a on mucc de cartòn» e «el pareva nissun».
Come il barbone, come il condannato a morte di Sei mimuti all’alba, come il “vilàn” di Ho visto un re, anzi più esplicitamente di loro, chiede la carezza del Nazareno Natalia, ragazzina di storia vera, «con la valvola nel cuore messa dalla parte sbagliata», «hai solo sette anni e fai la figlia di ferroviere», «non vedi le flebo che ti sparano dentro… non sai che bisogna riaprirti il torace, che è una cosa che rompe sempre i coglioni». E quella carezza la cerca anche lui, il chirurgo, Enzo, che ha il coraggio di operare Natalia (e salvarla) dopo un intervento sbagliato e la sconcia esosa richiesta di pagamento del «professore di Torino» alla povera famiglia: «Natalia, che l’hai fatto smettere di bestemmiare, perché si potesse chiedere aiuto a qualcuno, magari alla Vergine Maria».
Anni Ottanta. Male e dolore non sono più solo povertà e malattia. Sono la condizione dei giovani. «Sì perché la bellezza dei vent’anni è poter non dare retta a chi pretende di spiegarti l’avvenire e poi il lavoro e poi l’amore» (Io e te). E invece una generazione di adulti ha disseminato il mondo e l’io di rovine materiali e spirituali. E così «qui, che l’amore si fa in tre, che lavoro non ce n’è, l’avvenire è un buco nero». «Sì ma allora, ma che gioventù che è, ma che primavera è, e la tristezza è lì a due passi, e ti accarezza e ride, lei». Ancora la mancanza, la tristezza.
A me mi piace il mare, cantava Jannacci con Cochi e Renato. E noi giù a ridere, va bene. Ma Il volatore di aquiloni, «ladro di sogni proibiti», per vedere il mare, «partì deciso», e addiruttura «si ruppe quasi tutti i diti» (al maschile, trattasi dei “diti” dei piedi), e poi «non ci arrivò mai davanti al mare, senza sapere che quel mare che cerca lui non c’è».
Il matto che parla alla luna
E se il mare di Jannacci è l’infinito, la sua luna è il destino. Dapprima La luna è una lampadina attaccata al plafone del «terz pian, quarta ringhera», dove la Lina è su con Nin barbée (perché «el g’ha on mucc de danée, e mi sunt chi sul marciapé che camini avanti e indrée, e me fan mal i pé»). Anni dopo, la luna è diventata familiare, ci si può dialogare: «Te me paret ona formaggia, me piaseria gratat per vidè se te see d’or o d’argent» (Ti luna). Addirittura eco del Dio giusto, biblico: «Ti che ti illuminet la gent, i bun, i cativ, i dirtt, i stort, i ’gnurant e anca i intelligent». Luna familiare e divina luna perché ci vede («Ti luna che te me vedet che sunt chi disperà, perché gh’hoo de fà con de la bruta gent che me disen che sunt matt perché te parli»). Per finire con Mamma che luna che c’era stasera un canzone del Jannacci che fa venire la pelle di cappone. «Mamma che luna che c’era stasera/ si sente persino il profumo del sole/ È un mondo di gente di paglia/ Non capiscono il cielo/ Che sguardo sereno era il mare di ieri/ mai come ieri brillava la luna/ Forse anche tu la vedevi la luna/ Forse perché quella luna eri tu».
«Sono quarant’anni che dico le stesse cose». Già, eppure, ha aggiunto Jannacci nell’intervista ad Avvenire, «è una ricerca che continua. Dentro di me c’era il seme di questa fede ma come per il talento musicale quel seme bisogna alimentarlo. Uno non nasce con la fede dentro, in qualche interstizio della propria anima o dell’ipotalamo. Sto vivendo una maturazione del mio credo religioso. Vado avanti con i piedi di piombo, anche se non potrei permettermelo perché non ho tanti anni davanti». Piedi di piombo. Nessuna fretta. No alla tentazione di catalogare (e archiviare) l’accadimento, la carezza del Nazareno, come una specie di fenomeno collettivo di costume. Si sa, certi grandi uomini – ha lasciato intendere Armando Torno sul Corriere della Sera – a un certo punto si convertono. Sant’Agostino, Manzoni, Dostoevskij, Claudel, Vecchioni, Jannacci. Mancano solo Tex Willer e Nando Martellini. E no alla fretta di aggiungere un’immaginetta, combiniamo invece così: Jannacci santo, ma non subito. Prima (ri)ascoltiamo le sue canzoni.
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