Milano, 7 ottobre 2009
Testo di riferimento: J. Carrón, «Esperienza: lo strumento per un cammino umano», Assemblea
Internazionale Responsabili di Comunione e Liberazione, La Thuile, agosto 2009, suppl. a Tracce,
n. 8, settembre 2009, pp. 3-21.
La vita è un viaggio, ma tante volte ci rendiamo conto che è diverso da quello che noi abbiamo
immaginato: «Non credevo che fosse così questo viaggio» e mi rendo conto di avere perso tempo e
«allora voglio con te continuare il mio viaggio».
Cominciamo il nostro gesto con due canti: Il viaggio di Claudio Chieffo e Noi non sappiamo chi
era.
• Canto “Il viaggio”
• Canto “Noi non sappiamo chi era”
A quanti sono collegati in Italia dico che il tentativo che facciamo quest’anno di Scuola di comunità
in collegamento vuole essere – come avevo già detto alla Giornata d’inizio anno – un’occasione e
un esempio per cercare di imparare un metodo di lavoro sul testo, così che la fatica e l’impegno che
facciamo abbiano una ragione adeguata al raggiungimento dello scopo; e lo scopo di questo lavoro,
di questo gesto, è semplice: che sia un giudizio sull’esperienza, sulla propria esperienza. È evidente una fatica in più per chi interverrà qui – voi che siete qua presenti –, perché dovrà tenere conto di questa nuova circostanza, sia nel contenuto che nella modalità dell’intervento, affinché tutti possano capire; bisognerà mettersi in gioco ancor più in pubblico di quanto non lo fosse l’anno scorso. Per
questo dobbiamo preparare bene gli interventi, per non perdere tempo, essere precisi, non dilungarci troppo, andare all’essenziale in modo tale che possa essere capito da tutti. Così ci aiutiamo di più.
Chi interverrà si rivolgerà non solo ai presenti, ma anche alle persone collegate in tutta l’Italia; è indispensabile – ripeto – che teniamo conto di questo.
Un’altra osservazione. Dobbiamo aver presente le coordinate di questo inizio del lavoro perché,come abbiamo visto nel testo dell’Assemblea Internazionale Responsabili, dove abbiamo ripreso un testo di Giussani sull’esperienza, quest’ultima è il metodo fondamentale dello sviluppo umano, cioè lo strumento per un cammino umano. Per questo ci interessa capire esattamente questo metodo,
perché senza impararlo bene non c’è sviluppo umano, non c’è possibilità di fare una strada, un cammino. Agli Esercizi della Fraternità – come tutti ricordate – abbiamo spiegato sinteticamente cosa sia l’esperienza. Cosa è successo dopo? Che nel lavoro che abbiamo fatto sono venute fuori, parlando dell’esperienza, le riduzioni che ne facciamo; e questo è quello a cui abbiamo cercato di rispondere nell’Assemblea Internazionale Responsabili e nella Giornata d’inizio anno: abbiamo
spiegato in che cosa consistono queste riduzioni. Per questo siamo stati invitati a lavorare su queste due cose: l’introduzione e la lezione riportate nel libretto «Esperienza: lo strumento per un cammino umano», avendo presente la Giornata d’inizio anno (riportata come Pagina Uno su Tracce di
ottobre). Dunque la Scuola di comunità si inserisce in questo percorso ed è una verifica di questo
lavoro.
Comincio con due domande a cui tutti quanti intervengono devono cercare di rispondere attraverso
l’esperienza fatta: in che momento, in che situazione ho percepito di avere fatto veramente
esperienza così come l’abbiamo descritta? Da che cosa mi sono reso conto che ho fatto esperienza?Faccio queste domande per cercare di aiutarci a non fare un discorso sull’esperienza, adesso, ma a raccontare dei fatti attraverso cui mi sono reso conto di aver fatto esperienza o, al contrario, di non averla fatta. Perché questo è un cammino: quando uno sbaglia impara anche lì; il problema è che si
renda conto. Incominciamo, allora.
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Io ti leggo la lettera di un amico che ti ha scritto. «Caro Julián, ti scrivo due righe per raccontarti come va. Sono arrivato alla fine di luglio stanchissimo, distrutto da ciò che accadeva, insomma, non riuscivo più a respirare. La vacanza è stata l’occasione per riprendere fiato ossia di rimettermi a lavorare; rileggere la Scuola di comunità, gli Esercizi della Fraternità, senza il pregiudizio che in
fondo non può cambiare nulla, rileggerli con negli occhi gli avvenimenti che mi hanno segnato in questo ultimo anno. È stato senza dubbio un anno faticoso, ma come non stupirsi di quello che stava accadendo giorno dopo giorno in questo tempo dedicato al riposo? Fino ad arrivare a dire un giorno: ma tutta questa forza per affrontare l’anno passato, chi me l’ha data? Come non dire grazie? Talvolta ho detto che la realtà non era mai come la desideravo, ma questo oggi per me è
totalmente falso. Se penso a tutto quello che mi è capitato nella vita, nella maggior parte dei casi la
realtà è esattamente come la immagino, il problema è che dopo un po’ di tempo qualunque essa sia
delude, non basta più, ho bisogno di altro, desidero altro. Accorgersi che non basta mai, che manca
sempre qualcosa, ma che grazia stupirsi di questo, stupirsi di ritrovarselo accanto a partire da
questa mancanza! Quest’estate per la prima volta mi è successo di guardare i fatti accaduti o che
accadevano e poter dire il Suo nome, ma non come conseguenza di ciò che i miei occhi vedevano,
ma come coesistente nelle cose e nelle situazioni: sperimentare la Sua compagnia così non mi era
mai successo. Può succedere di tutto, ma non ci si sente più soli; sperimentare così la Sua
compagnia nelle cose che accadono o che si vedono era per me inimmaginabile tanto che quando
lo sentivo raccontare da altri, nella mia testa si insinuava il dubbio se quello che le mie orecchie
sentivano era possibile. Ma che compagnia è questa che mette addosso una voglia di fare maggiore
di prima? Che mi fa sentire più libero nei miei tentativi di concreare, veramente libero da ogni
risultato, anche di sbagliare? E infine, come non rimanere stupito guardando quello che accade
ora dopo le vacanze? La consapevolezza di ciò che si desidera e la sproporzione di ciò che si
riceve, tanto da non riuscire più a dire di un fatto se è favorevole o sfavorevole; tutte le volte che ho
pensato una situazione sfavorevole, per me si rivelava la più favorevole. Detto questo devo
assolutamente fare i conti anche con come gestisco il tempo che mi è dato per vivere; per vivere
bisogna anche riposare, per far memoria, per giudicare e accorgersi di ciò che accade, devo essere
riposato altrimenti l’istintività, come per tanto tempo mi è successo, prende il sopravvento. Con
gratitudine».
Grazie, perché questa lettera dice molto bene che cosa è l’esperienza perché, come lui dice, «tante
volte ho detto che la realtà non era come la desideravo, ma era totalmente falso, la realtà tante volte
invece è come io la immagino»: si compie quello che ho nella mia immaginazione, nella mia testa,
non è che manca qualcosa (nel senso che dovrebbe compiersi meglio la mia immaginazione),
succede proprio come avevo immaginato; ma dopo un po’ ho bisogno d’altro. La vita non ci pone
un problema quando le cose non vanno, ma quando vanno, quando succedono come uno desidera,
perché allora non ci si può arrabbiare con il reale, ed emerge molto di più qual è il problema, qual è
la sfida: se non sono appagato neanche quando le cose vanno secondo come ho pensato, che cosa
desidero io? Accorgersi che non basta mai, che manca sempre qualcosa, cioè che sempre son
rimandato oltre: che grazia stupirsi di questo! Che cosa colpisce in questo? Che lui parte proprio dal
suo rapporto con il reale e che lì, proprio lì, in quella esperienza che fa, è necessitato a dire il Suo
nome – «e stupirsi di trovarcelo accanto a partire da questa mancanza» –. Questo era «coesistente»
nelle cose e nelle situazioni: non che io faccio astrazione delle cose e delle situazioni e penso
altrove, facendo fuori il segno, facendo fuori il reale. No, proprio lì, come abbiamo citato alla
Giornata d’inizio anno: proprio guardando la bellezza della donna Giacomo Leopardi rintracciava il
«raggio divino». Non è che deve far fuori la bellezza, è che è lì, dentro lì. Tanto è vero che se
facciamo fuori questo, il reale, il reale così reale, non ci rimanda oltre. «Sperimentare la Sua
compagnia così non mi era mai successo; può succedere di tutto, ma non ci si sente più soli». Da
che cosa si vede che uno fa esperienza? Avete qui i segni: uno non si sente più solo, «e sperimentare
così la Sua compagnia nelle cose che accadano e che si vedono era per me inimmaginabile». Lo
scopo di un’educazione, lo scopo del cammino che stiamo incominciando a fare, che continuiamo a
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fare, è questo. Non per lasciar fuori niente, ma per scoprire in ogni cosa la Sua presenza così.
Quando lo senti da altri puoi avere dei dubbi… In che cosa si vede il cambiamento? Perché
comincia a rendersi conto della differenza con quello che succedeva prima; prima, quando qualcuno
glielo diceva, gli veniva il dubbio, perché siccome non è un’esperienza prevale il dubbio. In che
cosa si vede che fa un’esperienza? Nel fatto che non prevale il dubbio. «E infine, come non
rimanere stupito guardando quello che accade ora»? Quando incomincia a succedere questo,
incomincio a desiderarlo e mi domando come gestisco il tempo. Si vede che è un’esperienza così
reale che arriva fino a come gestisco il tempo; come uno che si innamora, ha bisogno di tempo per
un’altra cosa che prima non era in programma, è così reale che io ho bisogno di tempo. Perché? Per
fare memoria, per giudicare e accorgersi di ciò che accade. È un esempio di quello che succede. Ho
letto sull’ultimo Tracce l’intervista «Il respiro della conversione» di Fabrice Hadjadj, che dice che
«è una pressione del Cielo che ci fa sperare una felicità più vasta rispetto a questo mondo e ci fa
sperimentare questo mondo nella sua estrema precarietà»; è questa pressione dal Cielo, come lui la
chiama, che ci chiama nel reale a qualcosa di più grande per cui siamo stati fatti.
Forza.
È proprio per gratitudine che intervengo stasera. Io volevo raccontare cosa è successo dopo
l’ultima Scuola di comunità che abbiamo fatto qua e il lavoro che è stato per me il giudizio che
avevi suggerito. Lo dico per chi non c’era: io ero intervenuta dicendoti che mio papà era in coma
da tre settimane e che non capivo questa cosa che dicevi alla Fraternità che «le circostanze per cui
Dio ci fa passare sono fattore essenziale della nostra vocazione della missione a cui chiama», o
meglio, la capivo come frase ma non mi stava dicendo niente perché io ero schiacciata da quella
situazione lì, quindi la confusione era grossa. Poi io, dopo la Scuola di comunità, siccome non
avevo capito la chiave di lettura che mi avevi dato ero venuta qui e ti avevo detto: «Ma perché tu
riconosci Gesù in quello che capita e io no? A me piacerebbe fare la tua esperienza»; e tu mi hai
detto: «A te piacerebbe, però non fai il lavoro». È stata una conversazione da un minuto però ero
abbastanza ferita, sono arrivata a casa e ho pensato: però se dice che non sto facendo il lavoro
provo a farlo.
Era vero o non era vero?
Era vero, sì, era verissimo! Sono andata a casa e ho detto: adesso inizio a tenere un diario in cui
scrivo, mi obbligo a fissare le cose che mi passano nella vita perché io di solito le faccio passare e
non le fisso; con un unico patto: se Carrón dice che bisogna partire dal disagio e bisogna essere
leali con se stessi, io devo smettere di avere paura di quello che penso, e quindi l’unico patto era
lealtà massima, quindi spero che nessuno trovi il diario perché sono stata molto leale.
Non lo manderemo ai giornali, non ti preoccupare…
All’inizio solo aridità e confusione totali perché era così; poi vanno avanti le giornate e io ero in
ferie, ero dai miei, quindi giornate molto piene tra terapia intensiva, una cosa e l’altra. Una sera
sono tornata a casa e volevo riposare vedendo un dvd. L’ho messo su, e al secondo capitolo il film
si è bloccato e ho detto: che sfortuna! Lì mi è tornato in mente il lavoro che suggerisci: «Le
circostanze sono fattore e tu sii te stessa, sii leale». Erano le undici di sera, mi sono sorpresa nel
pensare: però effettivamente se mi devo riposare, più che vedere un film forse è meglio che
dormo…Un secondo dopo mi sono detta: però è vero che la malattia di mio papà è successa per
una tenerezza nei miei confronti, perché io avevo deciso di andare in Irlanda – ci volevo andare per
lavoro e anche un po’ per togliermi da una serie di situazioni –; questa cosa di mio papà mi aveva
obbligato nel bene e nel male a fare tutto un lavoro, anche concreto, operativo, di mossa, di
domanda, di richiesta. Il test di questa cosa è che io mi sono trovata più cresciuta, non schiacciata
da quella situazione. La potevo guardare, anzitutto la potevo guardare; e poi è successo che la
mattina dopo dovevo vedere delle persone che non avevo molta voglia di vedere, ero lì nel tentativo
di svicolare la cosa e mi è venuto in mente quello stesso riconoscimento che ho fatto la sera prima.
Ho pensato: ma se è vero che le circostanze sono per me, sono la tenerezza di Dio nei miei
confronti, anche questa può esserlo. Così mi sono trovata unita con quelle persone lì, mi sono
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ritrovata a fare un’esperienza bella. Quindi io che cosa capisco? Che questa cosa che tu dicevi di
fare il lavoro non è una cosa appiccicata: tu non mi hai detto di arrivare a dire che è Gesù. Per me,
dal punto di vista di metodo, è stato fondamentale che tu mi permettessi di essere libera, cioè che
mi dicessi: «Guarda che tu puoi fare questa verifica fino in fondo». E poi è stato proprio il lavoro
di farlo. Per me poi il test che questa esperienza è stata vera è stato tutto quello che è avvenuto
dopo, durante l’estate, che adesso per brevità non racconto. Però anche quest’estate, ci son stati
tanti momenti in cui sono stata veramente a disagio, sarei in grado di elencarli tutti; quello che mi
ha colpito è che io lì, in quelle stesse situazioni, ho potuto guardarle, guardarle con la stessa
libertà e tenerezza, e ne sono uscita contenta.
Si parte dal disagio, qualsiasi sia la situazione. Sempre Hadjadj dice: «Ho avuto l’intuizione che la
nostra angoscia è il nostro tesoro». Cambiate angoscia con disagio, con circostanza: qualsiasi cosa
mettete lì è il nostro tesoro, «essa può dilaniarci in un grido verticale. D’altra parte l’origine della
nostra angoscia non può venire contemporaneamente dalla parte della morte e da quella del cielo. È
questa pressione del cielo che ci fa sperare una felicità più vasta rispetto a questo mondo e ci fa
sperimentare questo mondo nella sua estrema precarietà [...]. L’uomo, nella sua tragica condizione è
più grande di questi superuomini rimpinzati di benessere e dopati per il risultato». Qui abbiamo, di
nuovo, uno che non ha paura del disagio, delle circostanze; al contrario queste sono ciò che lo
rimanda oltre, e allora uno incomincia, quando non ha paura di questo, a fare questo percorso e
incomincia a poterle guardare. Ma dobbiamo identificare che cosa ci consente di guardare ogni
circostanza, perché senza renderci conto di che cosa ce lo consente, che novità si introduce nel
guardare, noi, dopodomani, siamo incastrati di nuovo.
Rimane aperta la domanda.
Volevo partire da un’esperienza che mi è successa qui un’ora fa; parlo di questo perché mi ha
folgorato più di tutto il resto. Io sono entrato qui stanco di tutta la giornata di lavoro, e mi ha
colpito una cosa: che qualcuno ha deciso di mettere su la musica: accidenti, questa musica che mi
era proposta mi stava ricentrando, mi stava riposizionando rispetto alla giornata di lavoro e alle
cose. Che genialità è stata l’idea di cominciare così il nostro gesto! Però contemporaneamente mi
rendevo conto che non riuscivo a sentirla perché molti qui erano presi dal raccontarsi l’esperienza,
mentre io e mia moglie improvvisamente siamo stati zitti, perché se io sento la musica per come mi
è stata proposta da tanti anni qui, io sto zitto. E invece tutti raccontavano e parlavano. Allora
pensavo: c’è un’esperienza in atto – io ti propongo adesso di ascoltare la musica – e tu, invece
credi di fare esperienza perché racconti la tua esperienza, ma in realtà ti stai perdendo
l’esperienza. È che c’è il Mistero: tu sei qui con tutto il carico di lavoro, le cose che vorresti dire, e
invece il Mistero ti parla, ti dice una cosa, e allora io ci vado dietro, perché è più grande di tutta la
bellissima esperienza che ho fatto, che sto facendo e che voglio raccontare. E questo mi rimanda a
un’esperienza di accoglienza che insieme a mia moglie sto facendo, dove sono davanti al Mistero
perché non riesco a controllare l’esito del mio impegno rispetto a quella giovane persona. Non c’è
certezza che il suo problema si risolverà, però mi fido del Mistero perché so che è una cosa buona,
allora ci sto, e mi pare sia esperienza.
Perché è esperienza? Perché dici tu che è esperienza?
Anzitutto perché è data da altro da me, ha questa caratteristica, mentre io sono uno che progetta il
mondo, questa cosa che è altro da me, ha questo segno forte che non è frutto mio.
Perché facciamo esperienza? Perché questo che dice lui è un’esperienza? Perché se noi non
possiamo dire perché è un’esperienza, l’io non cresce e noi non abbiamo fatto il giudizio.
A me è successa una cosa quest’estate che ho capito adesso. Verso fine luglio ero da un amico, gli
ho fatto una domanda mia personale e lui mi ha detto: «Comunque guarda che Cristo è tutto». La
frase era bella, però non ancora mia. Poi, verso fine agosto è successo un evento nella mia vita
molto doloroso, molto sconvolgente e appena sono venuta a saperlo, la prima cosa che mi è venuta
in mente, senza neanche pensare all’amico, è stata: comunque Cristo è tutto. Vuol dire che io ho
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riconosciuto il rapporto che mi costituisce e che mi permette di guardare le cose, mi permette di
non essere schiacciata. Perché non so come andrà a finire questa realtà, ma so che io ho un
rapporto che mi costituisce, che mi costituisce ogni secondo e che mi ha salvato.
Scusami un attimo. Se tu affermi che prima quando ti hanno detto questa frase non era tua, non puoi
dire – senza dirmi il perché – che due mesi dopo era diventata tua. Perché non ci possiamo prendere
in giro. Non eri contro quella frase, l’accettavi, ma tu hai appena detto: «Non era mia». Allora,
perché questa frase sia diventata tua che cosa è successo? Altrimenti in base a che cosa dici che è
vera? È vera perché tu adesso la affermi con la tua volontà, con la tua energia, ma non è vera come
risultato di un’esperienza? Non so se riesco a spiegarmi. Siccome abbiamo la frase già lì pronta,
perché dobbiamo fare la strada? Lasciamo la strada piena di buchi; questa volta riesci a farlo,
domani la vita ti schiaccia per non so che cosa, e siccome non hai fatto il percorso, rimani lì
incastrata. Come mi diceva una persona questo pomeriggio: «Io per anni tante volte ripetevo delle
cose che mi avevano detto, come un pappagallo». Non è che uno non le dice con tutta la buona
volontà e con il desiderio di dire una cosa che sia vera, ma non sono sue! A un certo momento ha
aggiunto: «Poi è crollato tutto, non rimaneva niente». Per questo dobbiamo aiutarci, sennò poi tante
volte ci ritroviamo dopo anni nel movimento a dire a noi stessi: non ho fatto un percorso umano. Io
lo capisco benissimo, come vi ho detto alla Giornata d’inizio anno, perché a un certo momento mi
son reso conto che dovevo imparare quello che pensavo di sapere. Noi, per questo, dobbiamo darci
soltanto una regola: uno non dice una parola qua senza che sappia rendere conto nell’esperienza di
quel che dice. Basterebbe questa lealtà con noi stessi perché questo gesto diventasse veramente un
cammino. Io, a un certo momento, non ho potuto più sopportare di dire le cose non sapendo cosa ci
fosse dietro come esperienza, mi spiego? Perché io ho cominciato ad amare il giudicare? Perché
quando avevo una preoccupazione, quando succedeva qualcosa che mi lasciava perplesso, quando
mi veniva l’ansia, di che cosa mi rendevo conto? Che io ero diverso prima di giudicare e dopo aver
giudicato. Immagina che una ragazza sbandata sia preoccupata di essere rimasta incinta. Che cosa le
dà la certezza? I consigli? «Ma non ti preoccupare, non è niente di grave»… Tu le puoi dare tutti i
consigli dell’universo, ma fin quando non arriva il risultato del test («No, non sei incinta») non è
pacificata. Tutto il resto è una serie di tentativi goffi, uno dopo l’altro, per cercare di acquietare
l’ansia. Che un istante dopo riparte da capo, mi spiego? Se uno non percepisce il guadagno per sé,
perché deve fare questo cammino? Sarebbe stupido, dovremmo andare tutti via. Ma quando uno
incomincia a intravede il guadagno per sé nel fare quel che dice Giussani, giudicare è l’inizio della
liberazione; allora uno non lo dice semplicemente come frase, ma sa di che cosa si tratta, sa che
esperienza c’è dentro una frase così. Come l’esempio della ragazza che è preoccupata se è incinta o
no: ti rendi conto che tutti i consigli non riescono a darti neanche l’ombra della certezza del
giudizio. E questo permette di costruire una certezza, un mattone dopo l’altro. Invece se non
facciamo così, come mi diceva oggi pomeriggio quella persona, tutto poi crolla, perché ci siamo
detti tantissime cose, che sono vere – non è che io introduco il sospetto che uno le dice soltanto per
ripetere –, ma a un certo momento non ce la facciamo più. Mi spiego? Per questo, tu devi guardare
adesso, per vedere se hai fatto un’esperienza, che cosa si è introdotto: prima lo sentivo non mio e
poi l’ho sentito mio.
Volevo raccontarti una cosa che mi è successa quest’estate. Prima di partire per una vacanza con
delle famiglie io e mio marito ci siamo molto arrabbiati con una famiglia, e siamo andati giù in
vacanza arrabbiati e siamo stati una settimana molto arrabbiati e tutti gli altri amici che erano con
noi insistevano perché noi riprendessimo il rapporto con questa altra famiglia e noi non lo
facevamo. A un certo punto la maggior parte degli amici se ne sono andati e quel pomeriggio lì,
quando tutti sono partiti, a me ha preso un vuoto, una nostalgia grandissima e mi sono detta: ma
anche se questo qui con cui mi sono arrabbiata venisse in casa mia a piangere e mi desse ragione
su tutto quello per cui abbiamo litigato, compirebbe quella nostalgia, quel vuoto che ho? Da lì per
me è stato Lui presente, mi è cambiato lo sguardo, ho avuto proprio una tenerezza incredibile per
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questo qui con cui due ore prima non ci si rivolgeva la parola; ho deciso di scrivergli due righe
raccontandogli che cosa era accaduto.
Che cosa ti ha fatto cambiare lo sguardo?
Il fatto che sono stata sincera rispetto a quello che desideravo; io, rispetto a quella malinconia, a
quella nostalgia che avevo, ero troppo certa, per l’esperienza che avevo fatto e per il desiderio
grande che avevo, che quello che mi compiva non era che mi si desse ragione. E allora ho chiesto
Lui. E lì mi è cambiato lo sguardo.
Grazie.
Posso finire? Perché la parte migliore secondo me viene adesso. Gli ho scritto due righe dicendogli
il percorso che avevo fatto e ringraziandolo anche per questa arrabbiatura, perché era stata
occasione per me di scoprire la Sua tenerezza. Gli ho dato queste due righe e dopo due secondi che
gliele avevo date lui è venuto e ci ha abbracciato commosso; ma la cosa che mi ha più colpito,
anche i giorni successivi, è che ogni volta che io entravo in contatto a parlare con la sua famiglia,
con cui non ci si rivolgeva la parola, a me scoppiava il cuore perché l’unica ragione per cui noi ci
parlavamo era che Lui è presente, e allora ogni volta che entravo in contatto con loro per me era
una festa, mi veniva il magone.
Questo è un bell’esempio del contrario di quello che facciamo tante volte. Spesso dobbiamo
aspettare che cambi il sentimento per ricomporre un dialogo con l’altro. Invece, è cambiando il
giudizio sull’altro, cambiando lo sguardo, che cambia poi il sentimento. Se lei avesse dovuto
aspettare di cambiare il sentimento, avrebbe passato tutta la vacanza da arrabbiata: oltre ad aver
perso la vacanza non avrebbe risolto la questione. Questa è la portata di quello che ci insegna don
Giussani: ci offre un cammino in cui, usando la ragione nel modo giusto, anche quando siamo
incastrati possiamo subito verificare questo cambiamento. Ma non come una sconfitta di chi deve
fare il “bravo” cristiano, no. Cambia lo sguardo perché non mi corrisponde; basterebbe questa lealtà
con tutta l’esigenza che ho in me stesso, per rendermi conto di quello che non basta. Perciò se cedo
a quella esigenza che sento dentro di me, che sperimento dentro di me – quella esigenza che ho di
verità, di bene, di pienezza di compimento –, cambia persino il sentimento.
Alla Giornata d’inizio anno hai detto: «Non c’è esperienza fino a quando uno non riconosce Dio
come implicazione ultima». Io sul momento ho pensato dentro di me: ma io questa cosa la faccio
già, io Lo riconosco già, e mi viene anche semplice. Invece il mio problema è che spesso non riesco
a rispondere alla domanda: perché mi accadono certe cose?
E questo dimostra che non hai capito la frase.
Infatti l’ho capita dopo.
Vedete? Noi diciamo una frase che pensiamo di capire. E perché si vede che non l’abbiamo capita,
un istante dopo? Perché reagiamo così e questo vuol dire che non l’abbiamo capita.
Poi mi è successo che sono andata a scuola lunedì e mi è arrivata la notizia che era morto il papà
di un mio alunno e io dovevo entrare in classe e spiegare Leopardi. Sul momento ho riflettuto:
adesso cosa gli dico? Perché dovevo dare la notizia io ai ragazzi. Un secondo dopo ho detto: ma
che cosa mi vuoi dire Tu? E non avevo nessuna urgenza di appiccicare niente, ma tutto il desiderio
di scoprire. Allora mi sono accorta che quando accade l’esperienza come tu la definivi (il giudizio
è dire Tu) – e io che dicevo: lo so già –, innanzitutto uno non vuole appiccicare e poi si
inginocchia. Infatti mi sono accorta che sono entrata in classe e la prima ad avere una domanda su
quel fatto ero io: che cosa vuoi dirmi? E l’ho posta a loro come per far diventare loro quella
domanda che avevo io; è stata una lezione stupenda. Però – veramente – la conseguenza della
lezione stupenda mi conquista di meno che non il fatto che lì ho proprio detto: ecco cosa vuol dire
giudicare!
La questione, come vedete, è che incominciamo a poter dire: ecco che cosa vuol dire! Ma non come
una cosa estrinseca all’esperienza, bensì perché succede qualcosa in cui noi vediamo la portata
esistenziale di quella frase. La conoscenza è un avvenimento, abbiamo detto quest’estate; uno
conosce, capisce la portata, la densità della frase, la densità di quello che stiamo dicendo proprio
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quando accade e allora diventa veramente qualcosa di mio. E qual è il segno? Il cambiamento, il
cambiamento che accade. Abbiamo visto oggi come il giudizio è contemporaneo: emetto il giudizio
e succede subito qualcosa (l’arrabbiatura è sconfitta, la confusione è sconfitta). Per questo se non
incominciamo a percepire la convenienza umana, chi ce lo fa fare?
Come testimonianza vi leggo una lettera che mi ha mandato un amico: «Sono entrato nel
movimento trent’anni fa e ho avuto la fortuna di incontrare Enzo; anni incredibili in cui la mia
dedizione a lui e al movimento è stata importante, ma, come comprendo ora, non totale. Mi rendo
oggi conto che a me è sempre bastato esserci, godere di quella Presenza e perciò dare tanta energia
e tanto tempo. Ma l’io, come dici tu, non si è impegnato a verificarLo e quindi pur avendo un tale
testimone, mi sono negli anni progressivamente stufato di dare, fino a fermarmi. Grazie a Dio non
ho mai abbandonato il movimento, anche perché quello che mi era successo era stato così grande
che non potevo negarlo; ma ero confuso e bloccato, non sapevo più come ripartire. Ho passato anni
in cui ho cercato una via mia, attendendo il mio compimento fondamentalmente dal lavoro, ero
riuscito a migliorare le mie condizioni economiche, ma non riuscivo a colmare il vuoto che dopo un
po’ riemergeva, fino a quando mi sono successe vicissitudini spiacevoli nella vita, e lì ho capito che
non potevo continuare a combattere e forzare la realtà; e nella consapevolezza di questo bisogno ho
cominciato a chiedere aiuto agli amici. Allora è riaccaduto l’avvenimento perché ho incominciato a
riconoscere in quegli amici gli stessi connotati di Enzo, proprio ciò che di Enzo mi rimandava a
Gesù». Come diceva don Giussani: non «come» era successo, ma «quello che» era successo.
Prosegue: «Quella letizia e quella passione per l’ideale avevano fatto vibrare le corde del mio cuore
e questo fatto ha rimesso in moto l’io». Sappiamo che Lui è presente non perché diciamo il nome di
Cristo – si dice tante volte in modo vuoto, formale, pio – o perché diciamo certe parole, come
amicizia: si vede che è presente perché succede questo, e l’io si rimette in moto. «Dal giorno dopo
ho cominciato a guardare le cose in un modo nuovo, e questo mi ha reso sereno, attento a quello che
accadeva, grato di ciò che era accaduto; e da quella sera la certezza di una compagnia così alla mia
vita ha spazzato via l’ambiguità riguardo alla promessa di un destino buono, ha mutato
l’atteggiamento di fronte alle cose. Pensando al lavoro non ero più arrabbiato, della mia situazione
economica non mi preoccupavo più, era sparita l’ansia e la pretesa dalla mia vita, le circostanze le
percepivo come un’occasione, i rapporti sono fioriti. È proprio vero che Cristo fa nuove tutte le
cose. Nelle cose solite mi accorgo di una novità straordinaria: quello che prima mi schiacciava ora
mi lascia affaticato ma lieto, mentre prima mi lamentavo oggi canto fino a gridare Tu, finalmente
Tu; Gesù aveva portato a compimento ciò che aveva iniziato. Ora grazie all’avvenimento che
riaccade di nuovo sono come un bimbo, scopro tutto, e le cose che sto leggendo nel libretto
dell’Assemblea Internazionale Responsabili sono come finestre che si spalancano al sole del
mattino; concepire il giudizio non come un’analisi di ciò che hai provato o come il sentimento che ti
rimane alla fine, ma come il contraccolpo immediato della coscienza che Lui è presente; è una cosa
dell’altro mondo».
Sappiamo che Cristo è presente perché mette in moto l’io, e mi permette di riconoscerLo. È una
sfida che riempie di significato tutto e sei finalmente libero. Addirittura aumenta sempre più
desiderio della Sua presenza: sono tratti assolutamente inconfondibili di qualcosa di reale, perché
questo capita a chi fa un’esperienza reale.
Finisco leggendo un’altra lettera, dove, con molta semplicità, una amica racconta come ogni sabato
andava dalla famiglia della suocera, e faceva da mangiare, e sentiva sempre come un fastidio per
questo: «Ma se siamo in tanti perché devo cucinare sempre io?». Ma all’improvviso è sorta la
memoria, la memoria di Lui; uno può percepire questa circostanza come qualcosa che attraverso il
disagio che prova ti rimanda oltre. «Sabato scorso si è ripetuta la stessa situazione suscitando in me
lo stesso iniziale fastidio, ma d’improvviso è insorta la memoria di Gesù. Quella circostanza mi
chiedeva di riconoscerLo in quel fatto in se stesso banale, e nel volto di mia suocera che mi
chiamava con quel tono chiaro e deciso, e dovevo decidere: o restare incline al fastidio oppure
riconoscere la realtà trasparente per me: perché io Lo veda». Poi racconta un altro episodio
riguardante il figlio, davanti al quale è sorta una domanda radicale: «Chi mi ha affidato mio figlio?
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E sapete cosa sperimento? Una letizia dentro la fatica e la certezza di non perdere nulla. È una
sfida! Dura in certi momenti, che manifesta tenerezza in altri. Una verifica continua da fare dentro
ogni fattore della mia vita e dentro ogni decisione intrapresa. Una sfida necessaria attraverso cui
posso dire: “io sono Tu-che-mi-fai”». Ma che nasce, che urge dalle viscere della vita, della vita
negli aspetti più banali.
Questa è la promessa che c’è dietro ogni banalità, perché attraverso questa banalità ci chiama
Qualcuno; la questione è se noi accettiamo questa chiamata e sappiamo riconoscere in quella
banalità non soltanto il riverbero sentimentale (mi piace, non mi piace), ma se arriviamo al giudizio
per riconoscere che c’è Qualcuno; e se l’aprirmi a questa possibilità veramente cambia il modo di
viverla. Questa è la promessa per ciascuno di noi.
• Gloria
1 commento:
Cara Tiziana,
anche io sono celine, abito negli estati uniti, pero ho gia visuto in Treviso TV qualche anni fa, dove ho avuto degli amici in SoC. Pero ho perso la mia scheda del telefonnino italiano e anche l'email che utilizavo quando abitavo in Italia e cosi ho perso tutti i miei conttati. Maggari lei non sapeve come io posso avvere l'indirizzo email oppure un telefono da loro in Treviso? Non lo so dove chiedere. Grazia mille, Vittoria
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