Appunti dalla Scuola di comunità con Julián Carrón
Milano, 18 novembre 2009
Testo di riferimento: L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, pp. 271-277 e 255-259
• Canto “Mare nostre”
• Canto “Liberazione n.2”
Come ci siamo detti la volta scorsa, riprendiamo il testo Si può vivere così? a partire dal percorso dalla fede alla libertà che abbiamo indicato e l’inizio della povertà. Insieme a questo è successo qualcosa: abbiamo davanti a noi anche la vicenda dei crocifissi e il volantino pubblico che abbiamo fatto. Anche questa è un’occasione di verificare qual è stata l’esperienza, perché prima di arrivare al
volantino si era già scatenata la bagarre e ciascuno si è mosso in qualche modo. Che contraccolpo ha prodotto il volantino? Qual è la differenza di atteggiamento rispetto alla mentalità comune? Qual è la ragione della differenza che il volantino porta dentro e come l’abbiamo usato? Che cosa è successo quando l’abbiamo giocato nel reale?
Venendo al libro, quando arriviamo a parlare della povertà, noi dobbiamo chiarire questo: in che cosa si vede che io ho fatto l’esperienza di questo percorso che qui è riassunto? Sono curioso di sapere in che cosa si vede questo.
Io vorrei chiedere un aiuto relativamente a due fatti che mi sono accaduti la scorsa settimana. Un giorno ho saputo che mio figlio aveva fatto una sciocchezza e ci sono rimasta malissimo, tanto che ho chiamato mio marito al lavoro e gli ho detto: «Che facciamo?»; eravamo arrabbiatissimi tutti e due e abbiamo deciso di rimandare la ramanzina alla sera. Nel pomeriggio ero proprio triste e mi sono messa a leggere la Scuola di comunità, lì dove dice che nella realtà c’è un fattore imprevedibile di cui vedo le conseguenze, ma che non posso vedere direttamente, è inspiegabile ma
è dentro la realtà e se io lo nego non sono ragionevole. Come spesso mi accade, ho visto che queste righe leggevano bene quello che mi stava accadendo, perché mio figlio fa le sciocchezze come me perché Qualcuno lo ha fatto, e lo stava facendo anche in quel momento, libero. Davanti a questo Qualcuno che faceva in quel momento mio figlio e me ho fatto come un passo indietro e ho capito che non potevo sgridarlo e forse dargli una sberla, che non era giusto e che non sarebbe servito.
Quando ho sentito mio marito che arrivava gli sono andata incontro e prima che entrasse in casa gli ho detto: «Non sgridarlo, vorrei che parlassimo questa sera», così quella sera abbiamo parlato con lui e alla fine gli abbiamo detto che ha fatto una scemenza, ma che il nostro affetto per lui non è scalfito di una virgola. Solo qualche ora prima avrei voluto riempirlo di sberle. Quella sera ho pensato che l’aver giudicato mi aveva fatto riconoscere la Sua presenza che mi aveva fatto muovere in modo diverso e questo mi aveva fatto sentire più mamma, più moglie e più persona. Il secondo fatto è accaduto quando è uscito il volantino sulla questione del crocifisso. Devo premettere che quando si era diffusa la notizia della sentenza sui crocifissi nelle aule io avevo pensato che non fosse giusta per motivi dei quali io, in fondo, non so nulla e avevo in un certo senso archiviato così la questione. Quando ho letto il nostro volantino ho provato un grande dolore, perché il giudizio
del volantino è l’unico che un cristiano può dare e mi ha fatto capire quante volte dire il nome di Gesù era stato dire una parola vuota, infatti non mi era passato neanche per l’anticamera del cervello che quello che era sfidato in quella questione era il mio rapporto con Colui che è sempre presente nelle mie giornate, anche quando io me ne frego, e che dà pienezza e senso e tutto alla mia vita, e che anche due sere prima era entrato nella vita mia e della mia famiglia permettendoci di
guardare le cose in un modo più vero. Dopo il volantino e anche grazie allo scarto che ho provato,mi sono chiesta che senso abbia per me mantenere il crocifisso nelle aule o tenerlo al collo come
faccio io, e pensando anche alle mamme della scuola che mandano i figli in una scuola cattolica, ma poi non vogliono fargli fare il ritiro d’Avvento, ho pensato che però nessuno può negare che il crocifisso ci ricorda il fatto più misterioso nella storia dell’uomo, anche perché, se quell’Uomo fosse morto e basta, come si potrebbe spiegare che gli uomini hanno continuato a credere in Lui per duemila anni? Di fronte a un fatto di tale portata tutti gli uomini devono poter dire: «Mi
interessa o non mi interessa», come dice la Scuola di comunità, e non è giusto che un gruppetto di saggi si arroghi il diritto di decidere anche per me e per tutti gli uomini. Ciò che però mi sono chiesta e su cui chiedo un aiuto è questo: ma come è possibile che, dopo fatti come quello con mio figlio e anche altri che ho vissuto, nei quali ho riconosciuto la Sua presenza buona, dopo tutto quello che è accaduto nella mia vita, io non percepisca questo attacco al crocifisso come un attacco
a ciò che ho di più caro, come una questione mia?
E cosa ti sei risposta?
Sinceramente l’unica risposta che mi è venuta in mente, che però non mi piace molto, è che non ho conosciuto.
Cosa vuol dire che non hai conosciuto? Spiegaci.
Che io dico che Lo riconosco, che riconosco la Sua presenza buona perché veramente il mio cambiamento per me è sempre segno della Sua presenza (perché è impossibile che uno cambi, soprattutto io). Però, quando poi viene fuori questa questione del crocifisso, mi viene da dire:«Questa non è una questione mia».
Questa è la questione: non è tua. E perché non è tua?
Ho anche pensato che la questione di mio figlio la sentivo come mia, ho pianto, ero disperata quel pomeriggio lì.
E allora? Sei stata costretta a fare qualche passo perché ti urgeva e qua no.
Sì.
Che cosa impari da tutto questo? Perché altrimenti tutte queste cose che ci capitano sono inutili per un cammino, tanto è vero che poi ci sorprendiamo con l’atteggiamento di tutti; e perché non c’è un’esperienza?
Perché a me sembra che ci sia.
Questa è la questione. In che cosa si è ridotto, si riduce di nuovo l’esperienza? Lascia aperta la
questione. In che cosa si vede che si cresce? Nel fatto che questo è tuo, diventerà tuo sempre di più.
Ma crescere non è già che io, quella sera lì, ho fatto una cosa diversa da quel che il mio istinto mi
avrebbe suggerito? Non è lì che io vedo che ho fatto esperienza?
In questo senso tu lì hai fatto un’esperienza, ma che cosa vuol dire questo? Che è ancora a macchia
di leopardo, non è ancora così nostro da diventare la posizione normale davanti al reale; qualche
volta succede, ma tante volte ricadiamo nella mentalità di tutti: non è mia come posizione normale
del vivere, tanto è vero che davanti a queste cose quasi non vediamo la differenza, partiamo in
quinta secondo la mentalità di tutti. Per questo dico: se noi non facciamo un’esperienza in modo tale da giudicare (e giudicare vuol dire che io imparo qualcosa sul reale che diventa mio, in questo io vedo che mi sorprendo con un atteggiamento diverso), in che cosa si vede che noi ancora non ci siamo certamente resi conto? Perché noi tante volte ci fermiamo ancora a quello che non facciamo;
ma qual è la cosa più strepitosa di tutte, molto di più di quello che non riesci a fare? Che Lui c’è. Calma. E perché c’è? In che cosa vedi che c’è?
Io non sono scontenta che ci sia stato il volantino, perché nel volantino vedo che Lui c’è.
Esatto. E cosa vuol dire questo? Che la cosa più importante non è che noi siamo fragili, facciamo dei passi zoppicando (e che poi ci bastoniamo per non essere stati all’altezza), ma che quello che prende il sopravvento è che Lui c’è, e che ci riprende in continuazione; ma come c’è? C’è non teoricamente, bensì storicamente: ti sorregge riscattandoti dalla tua riduzione per metterti davanti alla Sua presenza. E in che cosa si vede – questo è quello che dobbiamo capire – in che cosa si
vede che c’è nel volantino? Dove sta la differenza, dove sta la diversità, lo scontro con questa diversità, dove sta la diversità? Questo ancora lasciamolo aperto.
Io ti racconto di una ramanzina che invece è avvenuta, te la racconto perché mi sembra che c’entri con il cammino della fede e con la fiducia in particolare. Venerdì scorso ricevo dal mio capo di lavoro – che è anche un mio grandissimo amico –una lavata di capo di dimensioni mai viste, anche con una certa violenza che non capivo al momento, per una questione che non mi sembrava così decisiva. Probabilmente non era giornata, fatto sta che succede questo, anche con toni duri e
provocatori come sa avere lui; chiude dicendomi – che era il tema anche del rimprovero, perché non avevo portato a fondo una cosa verificandola –: «Comunque, tu non vai mai al fondo delle cose e questo valga come metodo», come dire: questo ti serva come metodo sempre, ed è una cosa che mi diceva dentro il lavoro, ma da come lo dice lui ha una portata per la vita. Io esco da questo quarto d’ora di telefonata incavolato nero per i toni, ma, allo stesso tempo, mi continuavo a dire:
«Ma caspita, comunque, quel pezzo di vero che mi ha detto, quello rimane, mi inchioda», però la questione mi rimane ancora tutta aperta e la sera sono tornato a casa e l’ho raccontato a un mio amico a cena e lui mi ha fatto accorgere di questo, perché lui conosce bene me e anche il rapporto che ho con il mio capo, e mi ha detto: «Scusami, ma se anche il tuo capo ti avesse rimproverato
dicendoti falsità assolute, niente con un minino di attinenza con la realtà, tu avresti mai messo in discussione il rapporto con lui?». E lì mi ha spiazzato perché io gli ho detto: «Guarda, non ci avevo neanche pensato a questo». E lui: «Vedi che qua c’è un fattore che è strano: se succedesse a me con il mio datore di lavoro, sarebbe solo una questione lavorativa e io troncherei il rapporto, da un certo punto di vista: “Sono un tuo dipendente e ci rimango, faccio quello che mi chiedi, basta”. E invece guarda: non hai neanche pensato minimamente a troncare quel rapporto, capisci che c’è come un fattore misterioso, strano, e se tu non vai a fondo di questo fattore, prima o poi vedrai che metterai in discussione anche quel rapporto». Cosa è successo? Il giorno dopo incontro
il mio capo in un’altra circostanza fuori dal lavoro e lui continua a provocare, rincara la dose perché, da un lato, mi dice: «Comunque devi capire che io sono il tuo capo, posso dirti quello che voglio», e, dall’altro, mi dice: «Sono anche contento che sei arrabbiato, perché così si smuove qualcosa»; io esco da questa cosa di nuovo incavolato nero e il giorno dopo mi accorgo che sono lì
e ogni tanto, durante il giorno, penso a trovarmi un altro lavoro, penso alle possibilità di poter andare, di piazzarmi sul mercato, finché la sera prendo sul serio la cosa, cioè la guardo in faccia: «Ma io, in fondo, perché non lo faccio? Io dove trovo un’esperienza dentro il lavoro che mi fa crescere così nel rapporto con la realtà e mi fa diventare in pieno un uomo, a partire da un particolare?». Il giorno dopo ho detto al capo: «Per questo non ti mollo, perché è troppo decisivo questo rapporto».
Cioè?
Arrivo al punto. Da tutto questo capisco due cose: che io ho ancora tutto un cammino da fare, nel senso che non basta che io mi fermi a dire che c’è un fattore inspiegabile dentro questo rapporto e quello che si è rivelato in questo fatto, e capisco che se non vado a fondo dell’origine, rimane un’inquietudine e prima o poi mollo anche dentro questo.
La seconda cosa sulla povertà è che io non avevo problemi di un’immagine mia di affermazione, ma poi sono venuto meno perché non sono andato a fondo a quell’origine lì. Per questo mi accorgo che io sono in una situazione di stallo, con tutto un cammino ancora da fare.
E qual è il cammino da fare? Come il Mistero ti risponde a questo stallo? Come ti provoca, come ti
mette in moto? Questo che ti è successo c’entra con la tua situazione di stallo?
Eccome.
Allora, come il Mistero ti sta rispondendo? Vuoi che ti mandi un angelo? Ti manda un capo!Sbrigati. La questione è: tu questo lo puoi lasciar perdere o può essere l’occasione attraverso cui il Mistero ti sfida a fare un lavoro. Se tu hai scoperto un pezzo di vero in questo, prendilo, incomincia a lavorare su questo, perché questa è la modalità attraverso cui il Mistero ti chiama, ti stachiamando. Sarebbe meglio che non fosse successo niente e tu avessi continuato a vivere la vita
continuando a fare le cose in modo sbagliato? Allora, ti sta portando un bene.
Assolutamente.
Allora puoi rispondere o no, questa è la tua libertà. Ma questo è un esempio – grazie – di quello che capita nella vita; mi scrive una persona che racconta lo stesso: «Il responsabile di lavoro mi ha chiesto di studiare un aspetto di una questione e poi di relazionare. Allora io mi sono messa a studiare gli strumenti e i documenti che mi erano stati dati e a cercarne altri, ad approfondire, insomma, e poi a decidere che avevo finito. Dopo la mia risposta il mio responsabile mi ha chiesto se ero proprio sicura perché, dato l’uso che doveva fare della cosa, dovevo essere sicura al 100% di quello che affermavo. Allora mi sono rimessa in discussione, e ho trovato degli aspetti che avevo trattato superficialmente e ne ho presi in considerazione altri che prima avevo tralasciato, e poi, prima della relazione finale, mi sono stupita io stessa di come avevo lavorato, di come mi erano
venute tante domande sul pezzo di lavoro che avevo tra le mani, di come avevo approfondito, alla fine ero veramente più sicura io della mia riposta, ero anche più contenta perchè avevo lavorato bene, ero soddisfatta; allora mi è sorta questa domanda [questo, in un pezzettino del reale che trattiamo bene]: ma perché nella vita non è così? Perché tralascio tante cose (per esempio nei
rapporti faccio fatica a rischiare fino in fondo), ma se c’è un disagio, questo diventa subito un
blocco, invece di spingermi a lavorare, a mettermi in rapporto in modo ancora più vero, cioè a implicarmi di più, invece che lasciar perdere? Quindi chiedo di capire meglio cosa si intende quando l’ultima volta dicevamo che nel lavoro abbiamo un metodo e nella vita no».
Perché questo è
proprio quello che capita: quando dobbiamo rispondere davanti a un altro, siamo costretti a questo,quando non possiamo prenderla sportivamente, anche soltanto per non perdere il lavoro, perché questo ci interessa; sulla vita, invece, possiamo chiacchierare, dire la nostra, accontentarci di una battuta facile invece di fare un lavoro. Poi, alla fine, sul lavoro facciamo una strada; sulla vita,quando capita.
Questa è la differenza.
A pagina 276 dice: «Ma se la felicità, la giustizia, la verità, la bellezza è oltre quello che noi possiamo vedere, quello che possiamo vedere e toccare, cosa ci importa?». Quando ho letto questa cosa mi sono detta: ma come la felicità, la giustizia, la verità e la bellezza sono oltre quello che io posso vedere e toccare? Io sono fatta per questo, tu mi hai fatto accorgere che io sono fatta per questo e io l’ho sentito corrispondente. Però qua dice un’altra cosa, allora mi sono chiesta: «Ma io vedo e tocco la felicità, la giustizia, la verità e la bellezza?» No, ne sento un accento, ma non le vedo e non le tocco mai totalmente. Allora io queste esigenze che mi corrispondono così tanto non le posso vedere e toccare perché sono i criteri di un Altro, mi sembra che questo Altro mi dica: «Io
porto a compimento le tue esigenze attraverso le circostanze che ti do», ma queste circostanze ultimamente mi sembrano troppo dure; non sento questa durezza come un’obiezione, ma sento un dolore enorme, e se Lui non si mostra con tutta la sua bellezza e non mi fa capire qualcosa, io non riesco a stare in questo dolore. Ti volevo chiedere un aiuto su questo.
In che cosa si vede – perché qui arriviamo al dunque di oggi, proprio arrivando al punto della povertà –, che noi abbiamo fatto il percorso che qui lui riassume? Qual è – e faccio la domanda a tutti, perché ciascuno possa poi fare il paragone con quello che dice la Scuola di comunità, non con quello che dico io (che non sarebbe nemmeno interessante) – il segno che io ho fatto questo percorso? Perché è soltanto se noi capiamo questo che possiamo rispondere alla tua domanda in modo giusto. In che cosa si vede che abbiamo fatto il percorso dalla fede fino alla povertà? Qual è il segno più potente di questo?
A me viene da dire nella certezza della Sua presenza.
Allora, questa è una formula o è un’esperienza?
È un’esperienza.
E se è un’esperienza, questa è una cosa dove tu trovi il centuplo?
Se è un’esperienza, sì.
No, ritorniamo indietro; prima ti ho chiesto: «È un’esperienza o no?», e tu hai risposto di sì. Adesso mi dici: «Se». Hai fatto quest’esperienza? Perché adesso incominci a far “girare” la testa invece di seguire l’esperienza, e allora io comincio a dubitare che tu l’abbia fatta. «Sei innamorata?».
«Sì».
«E uno che è innamorato sperimenta la vita più intensamente?». «Se è innamorato, sì». Capite la contraddizione? Allora, in che cosa si vede che uno ha fatto veramente un’esperienza, che cosa dice la Scuola di comunità, qual è il segno più palese che uno ha fatto veramente tutto questo percorso come esperienza?
Io so dire solo quello che ho detto.
Basta. Avanti, lasciamo aperta la domanda. La domanda è apparsa, adesso tutti quanti fanno i conti
con la domanda. Qui il metodo è un avvenimento. Questa è la domanda di oggi; perché è come la verifica, se noi abbiamo fatto il percorso.
Che io faccio…Una parola soltanto.
Letizia e gratitudine. Tu hai rilanciato la questione della sentenza sui crocifissi, io inizialmente ho reagito con rabbia.
Perché?
Perché tutto ti grida dentro che è un’ingiustizia, che è una prevaricazione, che è una violenza, che è una menzogna questa sentenza. Però la cosa che mi ha sorpreso, su cui sono rimasto stupito è che dopo (e questa era una cosa che non mi era accaduta prima, per esempio sul caso di Eluana sono rimasto fermo sulla rabbia) è come se fosse emersa la domanda: ma se vincessero loro e i crocifissi
sparissero da qualsiasi posto, io che cosa potrei dire della mia fede? E allora lì sono dovuto letteralmente riandare a tutto ciò che mi è accaduto e che mi sta accadendo ancora, e questa cosa,questo percorso di riandare a ciò che mi accade io lo posso dire come una cosa reale, come una cosa tangibile, come una cosa in cui io sono certo (potrei anche dire a volte le circostanze, il posto,
l’ora in cui ho sperimentato una tenerezza), e quando poi è venuto fuori il volantino, io ho detto subito: «Ecco qual è la questione, ecco qual è la portata della questione»; ed è come emersa dentro di me una letizia, cioè ora è chiaro che posso andare in corto circuito tra un istante, ma non posso negare questa esperienza, non la posso più negare, non posso più tornare indietro.
E perché c’è questa letizia? Qual è la differenza tra quella prima tua reazione e la letizia? Qual è il nocciolo della differenza, della diversità che il volantino porta? Perché questa è la questione.
Che ho dovuto implicare tutto il mio umano. Mentre in fondo per altre questioni, anche quella di Eluana, in fondo il mio umano lo potevo anche tenere fuori, perché non vivo una situazione di sofferenza, qui si trattava di arrivare al punto di dove io, ultimamente, sto fondando la mia esistenza, si arrivava al punto di dover implicare quello che mi brucia di più, quello per cui io sono qui a fare una strada con te, e per cui sempre di più percepisco che è una grande avventura ed è
sempre più bella.
Ancora deve venire fuori con più chiarezza qual è la diversità.
Ero felicissima quando ho letto il volantino, ho fatto una festa enorme.
Perché?
Perché corrispondeva a quello che io dicevo e dico di me. Avevo avuto una chiacchierata con un amico italiano che vive in Inghilterra, che è da un po’ di anni che non sopporta che ogni volta che ci sentiamo per mail in qualche modo io dica il nome di Gesù, e mi chiede di parlare di mio marito,dei miei figli e del mio lavoro e dice che vuole parlare di cose che ci sono, e io gli avevo detto,prima che uscisse il volantino: «Toglieteli pure i crocifissi, io comunque ci sono, io ci sono e nel mondo Gesù c’è, sempre ci sarà, per cui noi abbiamo già vinto tutto». Per me quel volantino è stata una festa!
Da che cosa si vede – che è l’altra domanda –?
C’è una differenza enorme tra chi ha la grazia della certezza del Signore presente, chi nel Signore presente trova soddisfazione e felicità, e chi non ha la grazia di questa certezza. E la differenza è che chi non ha questa certezza è giustamente arrabbiatissimo, spende però tutta l’energia a bestemmiare, a lamentarsi e a stancarsi,oppure fa finta che il problema non ci sia per riuscire a sopravvivere, e fa una guerra che non è neanche una guerra perché non si implica mai, in nessun dialogo, in nessun rapporto, mentre
invece io mi trovo una letizia incrollabile, inattaccabile da qualsiasi cosa accada, e la vedo in altri davanti a me e dico che sono vere quelle parole perché ho l’energia per coinvolgermi moltissimo
nella realtà, per cogliere tutte le occasioni – sbagliando, non sbagliando – senza avere nessuna paura e sapendo cosa mi fa felice. Come la preghiera, che anni fa per me nasceva dall’angoscia; e adesso invece prego perché sono felice, sono sicurissima che sono completamene esaudita.
Due cosa devono ancora diventare chiare. Una: perché tu hai fatto festa per il volantino?
Non è un’idea da difendere, e non è una guerra che possiamo perdere; non è un’idea da difendere,ma sono io, è una presenza che io non posso togliere.
Non è un’idea, e perché dici che non è un’idea?
Dico: qual è la diversità a cui la cultura vuole ridurre la vicenda e qual è la novità che noi portiamo nel volantino? Perché questo è quello che
dobbiamo capire noi prima di tutto, per poter esserci con una diversità.
La differenza è che il Verbo si è fatto carne, Gesù c’è.Ma anche quelli che dicono che il crocifisso è un fatto culturale accettano che il Verbo si è fatto
carne, qual è la differenza?
È che noi siamo già sicuri, nel senso che io difendo la mia esperienza, difendo la mia vita.
Ma anche gli altri sono sicuri che Cristo è diventato carne, che è morto, tanto è vero che difendono i crocifissi, non è che non li difendono; tanti cattolici o tanti di noi hanno difeso il crocifisso come un fatto culturale.
Ma non hanno sicuramente speranza…E perché questo è sbagliato? Che cosa diciamo noi? Perché se questo non diventa chiaro, non sappiamo la ragione della festa.
Diciamo che è irriducibile.
E cosa vuol dire questo? Perché è irriducibile? Perché non è un fatto culturale, non è un fatto del passato, ma è un fatto presente. Grazie. Adesso occorre sapere perché è un fatto presente.
È un fatto presente perché mi cambia.
In che cosa ti ha cambiato il volantino? Perché se è presente, ti cambia; cosa ti ha cambiato? In cosa ti ha spostato?
A me ha messo molta più tranquillità al lavoro, dove nessuno è credente, anzi, mi prendono sempre abbastanza in giro; avere in mente in questi giorni quel volantino mi rende più tranquilla: posso non convertirti, posso non dirti nulla di Cristo, ma che io sono qua è un’evidenza, che i miei capi guardano a me in una maniera diversa io lo vedo, che davanti alle cose io sono diversa loro lo vedono, si stupiscono, poi uno lo dice più o meno come lo dice.
Ripensando a questi ultimi mesi, mi sono accorta che immediatamente, rispetto a ciò che accade, non ho un atteggiamento di povertà.
Faccio un esempio banale, l’ultima cosa che mi è capitata, proprio stupida: ieri sera ho realizzato che devo smettere di fumare, assolutamente, e immediatamente mi è uscita una frase: «Che vitaccia, non posso neanche più fumare». E qui mi accorgo però dell’importanza dal lavoro che ci stai facendo fare sul giudizio e l’esperienza, non ho lasciato perdere quella frase e sono iniziate le
domande. È una sigaretta che ti rende felice? Ti ha mai vibrato il cuore accendendoti una sigaretta? Ti commuovi quando vedi un tabaccaio?
Soltanto i fumatori possono capire queste cose...
Ognuno ha la sua strada, quindi anche la sigaretta vale. Così sono arrivata a dire Cristo perché,evidentemente, è l’unico che risponde al mio desiderio di felicità, è l’unico che mi fa vibrare il cuore e commuovere tanto da sentire che ho tutto. Come dicevo l’altra sera ad alcuni amici:
Quello che mi commuove in questi ultimi mesi è l’essermi accorta che non c’è nessuna
contraddizione che sia contro il mio desiderio di felicità». Però questo posso dirlo solo perché Cristo c’è nella mia vita, è un fatto che mi cambia la faccia; ma è diventato un fatto perchè in questi ultimi anni ho deciso di scommettere tutto sul lavoro che ci chiedi di fare; solo così ho iniziato a conoscere e ad affezionarmi a Cristo. Così queste pagine sulla povertà non sono diventate una misura perché non sono capace, ma un punto di commozione, perché con un piccolo lavoro ho ridetto il nome di Colui che mi fa respirare veramente in tutto, ed è come una festa a Cristo. Questo mi fa ringraziare per questo momento, perché è occasione per riverderLo e vedere quello che fa della mia vita, anche una stupida sigaretta diventa occasione per fare memoria.
In che cosa vedi che tu stai facendo questo percorso che propone la Scuola di comunità e che abbiamo fatto insieme? In che cosa lo vedi rispetto alla povertà?
Per questa certezza che mi trovo addosso che, per carità, ogni volta è un lavoro, perché magari non è immediato, però sempre di più mi rendo conto che quello che mi è dato da vivere mi compie molto di più che se io lo evitassi.
In che cosa si vede che la certezza si compie?
Perché mi vedo più tranquilla, più lieta, come diceva il ragazzo di prima, più tranquilla, sono meno agitata.
In che cosa si vede che tu sei più libera, cioè in che cosa si vede che tu sei più povera?
Perché me la vivo quella cosa lì, me la vivo.
Dobbiamo arrivare al dunque. Grazie.
Io dico che quello che vedo (che è un’esperienza), è che a me viene voglia di stare con voi, nel Movimento: mi allarga la testa. Per esempio, io sulla questione dei crocifissi ho reagito esattamente come hanno reagito tutti, come un fatto culturale e non ho pensato a Gesù, a Gesù vivo. Allora io desidero venire qua, desidero fare il lavoro della Scuola di comunità. Quello che volevo raccontare è che mio figlio oggi è partito per Londra. Il mio terzo figlio. Ho sempre vissuto le partenze dei figli molto dolorosamente, come una brava mamma chioccia…
Figurati mia mamma, che mi ha visto partire a dieci anni!
Io non ci posso neanche pensare! Mi sono scoperta diversa non perché non viva il distacco, ma in realtà non ho dolore perché il rapporto è proprio libero quando è povero, quando tu non lo vuoi possedere. I nostri figli sono di un Altro…
Cioè, il segno che uno fa un’esperienza qual è davanti, per esempio, a questa vicenda dei figli?
Io lo vivo diversamente.
L’hai detto, ripetilo! Neanche quando la beccate riuscite a fissarla… Guardate, andiamo alla pagina 258: «Il fondamento della povertà sta nella certezza che Dio compie quello che ti fa desiderare. Se Dio, Dio presente, Cristo – perché è in Cristo che Dio opera –, se Cristo ti dà la certezza di compiere ciò che ti fa desiderare, allora tu sei liberissimo». Il test che noi abbiamo fatto questo
percorso dalla fede alla povertà, non è che adesso facciamo chiacchiere sulla povertà o riflessioni sulla povertà: ma se è successa la povertà. E vedo che è accaduta la povertà, se io mi ritrovo libero, liberissimo dalle cose.
Ho fatto l’esperienza di questo. Io faccio l’avvocato, ho il mio studio da tre anni e prima lavoravo in un grande studio dove facevamo delle cose molto interessanti, che ci prendevano, sempre all’erta, sempre sul pezzo. Adesso ho una realtà piccola, faccio piccoli lavori, molta frustrazione per la mia intelligenza sacrificata. La scorsa settimana, la mattina (io mi alzo presto la mattina per
leggere) ho letto proprio il pezzo su «Non sperare la felicità futura da un certo possesso presente»e ho riflettuto. Poi, durante la mattinata, avevo un appuntamento, procurato da amici di Roma, con un avvocato di Milano molto noto che aveva recentemente smembrato la sua organizzazione e cercava proprio il mio profilo. Io non l’avevo cercata questa cosa, gli amici di Roma mi avevano
detto: «Dai, lavoriamo insieme da tanto, perché non vieni anche tu in questa ipotetica cordata che forse si farà?»; sono andata all’appuntamento e lui mi è piaciuto subito, era del tipo di quelli con cui lavoravo prima, per cui mi stimolava il lavoro che faceva, le proposte teoriche che mi proponeva, e avevo dei sentimenti contrastanti: perché raccontandogli di me stessa come sono veramente (per esempio, che la mia attuale segretaria ha solo la terza media) diventavo sempre
meno accattivante per lui e c’è stata una curva discendente. Lui aveva un entusiasmo all’inizio perché aveva visto il mio profilo, alla fine del dialogo mi ha praticamente congedata di forza e sono uscita ancora più frustrata. Mi sono sfogata con un’amica addirittura chiamandola sul lavoro, e lei poveraccia mi ha ascoltato, sono stata tutto il giorno molto disturbata e ho lavorato malissimo. La sera c’erano le quarant’ore in parrocchia da me, sono andata a fare l’adorazione.
Durante l’adorazione mi sono detta: «Tu non hai fatto un fallimento dicendo a questa persona come sei veramente, tu hai dato la tua testimonianza di quello che sei e di quali sono i tuoi valori, di cosa tu porti avanti, di perché lavori così, di perché questa persona che ha la terza media tu la stimi e la incoraggi e la porti avanti e comunque non te ne separeresti mai anche se ha tanti limiti, e del modo con cui tu ti poni verso il lavoro che non è assolutamente quello con cui si pone lui (il
denaro)». E siccome il Signore non ti lascia mai con l’interrogativo che magari ti sei sbagliato, quando sono tornata a casa dall’adorazione, mi chiama una mia collega dello studio dove stavo prima e che non sentivo da sei mesi, alle undici di sera, le racconto brevemente l’episodio e lei, che è una donna in carriera, che ha fatto la scelta opposta, io pensavo mi incoraggiasse a ricontattarlo,mi ha detto questa frase: «Stai a casa tua», e io mi sono detta: «Signore, ti ringrazio perché questa
qui è la conferma, l’avevo già capito però è la conferma di cui avevo bisogno». Che cos’è che cambia? Non è importante cosa faccio, ma come lo faccio e quindi il giorno dopo avevo massimo entusiasmo. Poi, lo spostamento del baricentro sulle cose importanti: non è importante cosa faccio di lavoro, è importante come lo faccio, è importante averlo perché tanta gente non ce l’ha, e quindi ringraziamo il Signore, perché così campiamo in quattro famiglie. E la libertà con cui faccio le
cose deriva dal fatto che Lui penserà a colmare i miei limiti. Alla fine il progetto mio con il Signore è la cosa più importante, cioè quello che faccio lo faccio con il Signore e poi quello che succede succede.
Ma questo è per un temperamento tuo o è per qualcosa che è successo?
Davanti all’Eucaristia ho cambiato completamente atteggiamento.
Come, davanti all’Eucaristia?
Mentre pregavo ho riletto quello che era successo con un altro occhio.
Non confonderti. La libertà ti è successa prima di andare alle quarant’ore, perché il problema era la tua libertà davanti all’ipotetico datore di lavoro. Lì tu sei stata libera; e qual era l’origine di questa libertà? Perché se non capiamo questo, non capiamo perché diciamo queste cose; questo è stato semplicemente perché tu eri più brava, perché eri più allenata, per il tuo temperamento, perché?
Perché questo è quello su cui adesso dobbiamo fare il paragone tutti. Dicevo all’inizio: in che cosa si vede che io ho fatto il percorso che abbiamo ripreso?
È la domanda che mi sto facendo da una settimana, perché sapevo che non avrei potuto concludere.
Esatto, in che cosa? La povertà è il punto in cui siamo adesso, possiamo vedere se noi abbiamo fatto
un percorso non soltanto se possiamo fare tutti i passaggi logici (perché uno può fare tutti i passaggi
logici del discorso, ma questo non basta per aver fatto esperienza). Questa è la differenza
fondamentale fra usare il libro soltanto come uno strumento per imparare qualcosa, o come lo
strumento per fare un’esperienza, che mi butta in un’esperienza. E qual è il test che la Scuola di
comunità stessa suggerisce? Se Cristo ti dà la certezza di compiere ciò che ti fa desiderare, allora tu
sei liberissimo. Io so che ho fatto esperienza se mi sorprendo libero dalle cose: «Non sei schiavo di
niente, non sei legato a niente, non sei incatenato a niente, non dipendi da niente: sei libero». Questa
è la cosa più impossibile da darsi all’uomo, perché tante persone davanti alla povertà o davanti alle
cose possono essere generose, possono fare un tentativo di distacco, ma in fondo per virtù (che è il
valore a cui occorre aderire); ma quello che uno non si può dare è la libertà dalle cose, perché la
libertà dalle cose nasce solo da un’esperienza vissuta, da qualcosa che mi riempie tanto da rendermi
libero. Questo è il test della fede come esperienza: che io faccio tale esperienza di sovrabbondanza
che mi sorprendo a trattare le cose con libertà; sei libero, non sei incatenato a niente. E ciascuno può
vedere adesso, in se stesso, fino a che punto questo è stato così, è così adesso: «Ora, non sei schiavo
di quello che usi, perché sei schiavo solo di Colui che ti dà la certezza della tua felicità. La povertà
si rivela come libertà dalle cose in quanto è Dio che compie i desideri, non la certa cosa cui tu
miri». E questo è il cristianesimo come avvenimento, non soltanto come una mia bravura, non
soltanto come un mio moralismo, non soltanto come un mio tentativo, perché qua adesso abbiamo
potuto fare tutto il percorso del cristianesimo come avvenimento partendo dai fatti eccezionali, da
una diversità, da una eccezionalità. Adesso possiamo tornare alla povertà e cambiare di nuovo la
natura del cristianesimo, cercando ridicolmente di provare a fare i poveri. No! La povertà, così
come viene inserita in tutto il percorso, è il test del percorso, il test di come vivo le circostanze, il
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test per cui posso riconoscere che è un’esperienza presente, che la fede è il riconoscimento di una
presenza presente: perché io sono libero. Guardate che questo criterio è infallibile, questa libertà è il
segno della Sua presenza, è un’esperienza che io devo riconoscere; per spiegare questa libertà
occorre la presenza di qualcosa che io non vedo né tocco, ma senza della quale io non potrei
sperimentare questa libertà. Per questo, perché possiamo fare un volantino così? Possiamo fare un
volantino così, non accettando il campo di gioco definito dalla Corte Europea – perché anche tanti
di coloro che sono a favore dei crocifissi hanno accettato di difenderli con la stessa mentalità ridotta
della sentenza –, perché Cristo non è un fatto del passato o un fatto culturale! Il volantino è diverso
proprio per questo, perché parla di un’esperienza presente. Per fare un volantino così occorre il
cristianesimo come esperienza presente, come ce lo ha testimoniato don Giussani. Perciò, molto più
importante che lamentarci adesso di quello che non abbiamo fatto bene o della correzione che ci è
stata fatta, è importante di nuovo fare festa perché c’è un Altro che ci tiene per la mano, perché una
Presenza è presente. Senza questa Presenza presente il volantino non ci sarebbe stato. È una
testimonianza dello stesso livello della povertà, della libertà rispetto alle cose, perché per poterlo
fare così non basta tutta la nostra cultura (perché tanti hanno molta più cultura di noi e sono caduti
nella riduzione), non bastano tutte le biblioteche, non basta tutta la teologia: occorre una fede come
esperienza, come riconoscimento della Sua presenza che ci impedisce di ridurre la natura del
cristianesimo. E questo, di nuovo, adesso, diventa ancora una volta una verifica di che cosa è la fede
per noi, per giocarla nel presente; perché è la modalità con cui noi – non facendo una
manifestazione, ma essendoci come presenza in mezzo al lavoro, in mezzo ai colleghi, in mezzo
agli amici – possiamo dare a quelli che l’hanno ridotto la ragione completa del perché a noi
interessa il cristianesimo. Per questo abbiamo davanti una bella occasione per fare esperienza di
tutto questo.
La prossima volta ci troviamo sulle pagine 259-270, terminando il capitolo sulla povertà, ma
soprattutto cercando non soltanto di riflettere sulla povertà, ma di sorprendere se ci succede la
povertà, come sorpresa, perché i cosiddetti valori cristiani sono i segni che Lui è presente. Senza
avere Lui come radice e come presenza, non accade nulla (come invece pensava l’Illuminismo, e
insieme all’Illuminismo anche noi tutte le volte che sogniamo di generare le cose da noi stessi, per
poi ritrovarci tristi come tutti), non è la sorpresa di qualcosa, di una sovrabbondanza da cui viene
per sorpresa un evento, una conseguenza imprevista: la libertà rispetto alla cose e alle persone e alle
circostanze a tutto.
È uscito il volantone di Natale, che descrive bene l’esperienza dell’umano che tutti viviamo e a cui Cristo risponde ora venendoci incontro: è un’esperienza se «io posso amarmi ora». Mi sembra quasi ovvio, ma tutti sappiamo che non è così ovvio; volersi bene ora o voler bene all’altro ora è diverso.
Noi non possiamo tornare indietro come metodo dall’esperienza di cui abbiamo parlato, non mi interessa soltanto ripetere delle cose giuste, ma fare esperienza di questo, perché è ciò che ci spinge a fare il percorso che propone la Scuola di comunità. Il volantone rappresenta il nostro cammino oggi, perciò esporlo e usarlo è un’occasione, come il volantino sul crocifisso, di comunicare con più consapevolezza un’esperienza così grande da renderci liberi nel reale. Altrimenti non occorre
nemmeno levare i crocifissi, perché il cristianesimo come esperienza reale non c’è nei luoghi dove si gioca la vita. La sfida per noi è questa:abbiamo fatto un’esperienza di una sovrabbondanza così
da essere liberi nel reale o no? Questa è la verifica.
• Gloria
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