.....Padre Pio notoriamente non era un grande oratore. Tutt’altro. Le sue omelie erano semplici e scarne: ricordava la verità come è espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica e tanto bastava.
Eppure ha smosso milioni di persone, oceani di uomini e donne sono andati da lui e si sono convertiti, spesso cambiando radicalmente vita, per essersi confessati da lui o per aver visto ciò che accadeva alla messa che lui celebrava (riviveva infatti tutta la Passione di Gesù). E’ solo un esempio, ma che basta a capire che la Chiesa non ha bisogno anzitutto di predicatori eloquenti, ma di santi.
Infatti Benedetto XVI ha dedicato questo “anno sacerdotale” non a un grande oratore, ma a un uomo umile (e grande) della provincia francese, il santo Curato d’Ars, indicato come esempio per ogni sacerdote. Non per l’omiletica, ma perché era un vero uomo di Dio.....
da “Libero”, 10 gennaio 2009
ANTONIO SOCCI
E’ buffo leggere sulla prima pagina della Repubblica una reprimenda di Giancarlo Zizola contro le omelie dei preti. Proprio quella stessa prima pagina che ogni domenica, da anni, contiene interminabili e illeggibili omelie di Eugenio Scalfari.
Se sono noiose e logorroiche le omelie clericali (e lo sono spesso) non sono migliori quelle anticlericali:
penso non solo a Scalfari o a Pannella su Radio radicale, ma a molti altri che moraleggiano col ditino alzato sui giornali, come Claudio Magris o Barbara Spinelli, per citarne solo due.
Se dai pulpiti piove uggiosa insignificanza (ed è vero!), dalle pagine dei giornali, con gli articoli di certi soloni, diluvia il tedio, sottoforma di banalità, di pregiudizio astioso, di sussiegoso moralismo e di ideologia. Del resto i giornali sono pronti per incartare l’insalata ai mercati già quando escono dalla tipografia.
Dunque “se Sparta piange, Atene non ride”. Però fermarsi qui sarebbe un’autoconsolazione sciocca. Piuttosto i due fenomeni – l’omiletica clericale e quella anticlericale – sono simmetrici ed evidenziano la desolante incapacità generale di cogliere e comunicare davvero il senso del vivere, del morire, dell’amare, del soffrire, il senso dei fatti della cronaca e il senso della storia.
Il colmo poi è che Zizola indichi ai preti come esempio da seguire il cardinal Martini la cui predicazione, ora pure sul Corriere della sera, appare – con tutto il rispetto – singolarmente fumosa, stanca e (sul piano dottrinale) ambigua. E’ uggiosa come un pomeriggio piovoso di novembre (almeno per chi scrive).
Se è giusto lamentare che i predicatori di oggi dimenticano i fondamentali (inferno, morte eterna, purgatorio, paradiso), se è giusto lamentare – come pare faccia perfino Zizola – che dimenticano “la verità centrale della fede cristiana, la Resurrezione”, non risulta che Martini faccia eccezione. Anzi.
Eppure Zizola sostiene nientemeno che il più efficace tentativo di “riqualificare la predica” di questi decenni della Chiesa sia rappresentato dalla cosiddetta “Scuola della Parola tenuta dal cardinal Martini nel Duomo di Milano”.
Francamente a me non risulta che da quella remota (e dimenticata) iniziativa di Martini sia sorto un movimento di conversione che ha cambiato il volto di Milano (non conosco una sola persona che si sia convertita ascoltando Martini).
Anzi, mi risulta che il bilancio della cristianità milanese degli ultimi decenni sia drammatico. I movimenti di rinascita cristiana (che ci sono, forti, a Milano) non sono certo nati dalla “Scuola della Parola” di Martini. Ma dalla scuola di vita che tanti santi dei nostri giorni sono, per giovani e non più giovani.
Questo mi pare il punto. Soffriamo non una penuria di eloquenti oratori o di biblisti, ma di padri e di santi, quelli che sanno toccare il cuore non (solo) per la capacità di parlare, ma perché loro stessi sono un avvenimento di vita nuova per chi li incontra. Voglio fare un esempio per quanto riguarda la Chiesa.
Padre Pio notoriamente non era un grande oratore. Tutt’altro. Le sue omelie erano semplici e scarne: ricordava la verità come è espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica e tanto bastava.
Eppure ha smosso milioni di persone, oceani di uomini e donne sono andati da lui e si sono convertiti, spesso cambiando radicalmente vita, per essersi confessati da lui o per aver visto ciò che accadeva alla messa che lui celebrava (riviveva infatti tutta la Passione di Gesù). E’ solo un esempio, ma che basta a capire che la Chiesa non ha bisogno anzitutto di predicatori eloquenti, ma di santi.
Infatti Benedetto XVI ha dedicato questo “anno sacerdotale” non a un grande oratore, ma a un uomo umile (e grande) della provincia francese, il santo Curato d’Ars, indicato come esempio per ogni sacerdote. Non per l’omiletica, ma perché era un vero uomo di Dio.
Perché quello che manca oggi nella Chiesa, come diceva un saggio maestro, “non è la ripetizione letterale dell’annuncio, ma l’esperienza di un incontro”.
Un incontro che ti fa sentire “la carezza del Nazareno”. Spesso è un incontro che manca agli stessi sacerdoti. Che è fin troppo facile criticare: tutti infatti li criticano, pochi, anche fra i cristiani, pregano per loro o stanno loro vicini.
E dunque spesso i sacerdoti di fronte al problema dell’omelia cercano di cavarsela buttandola in politica o in sociologia spicciola. Perciò si sentono tante confuse omelie improntate ai buoni sentimenti politically correct, all’etica sociale, ai valori, al “dover essere” e via dicendo.
Spesso i preti finiscono per scopiazzare le omelie dei santoni laici che pontificano dalle pagine dei giornali. In certe prediche di Natale per esempio la sovrapposizione fra omelie e articoli moraleggianti è quasi perfetta.
Penso all’editoriale di Claudio Magris uscito sul Corriere della sera alla vigilia di Natale. Tutta una filippica contro la gente che si scambia regali ed è contenta per il Natale.
Magris ha in gran dispetto la gente contenta. Per farli sentire in colpa inizia il suo articolo citando nientemeno un giornale del Perù (o c’è andato in vacanza da poco o pensa che il Perù sia il centro del mondo).
Il suddetto giornale peruviano avrebbe rilevato che in Perù sotto Natale aumentano i suicidi (ma siamo sicuri che in un paese così disastrato non abbiano altri motivi per suicidarsi che il consumismo natalizio?).
Oltre a quel “famosissimo” giornale Magris citava un’altra fondamentale fonte di riflessione: “il giornaletto di un liceo di Schio, dove mi è capitato di leggere l’articolo di una ragazzina che protestava contro lo sciagurato dovere di fare regali di Natale, che rende quella settimana più affannosa di ogni altra”.
Riferimenti forti, come si vede, pensieri profondi… Più o meno con geremiadi del genere dai pulpiti natalizi si sentono puntualmente invettive contro il consumismo dei regali, perché si ritiene che si debbano sempre affliggere i fedeli con i sensi di colpa, invece di donare loro la gioia – almeno a Natale – di una grande notizia, del grande regalo che Dio ha fatto all’uomo: se stesso.
Il re del mondo è venuto qui, a salvarci, ma il parroco liquida la notizia in due parole perché ritiene più importante romperti le scatole sul consumismo.
Eppure non occorre una grande oratoria per annunciare al mondo questa grande notizia, quella che dà la vera felicità. Non serve una gran dialettica, basterebbe un uomo commosso.
Anche se balbettasse solo poche parole, dicendo “amico, non essere più triste, è nato il tuo Salvatore!”, la sua commozione folgorerebbe i nostri cumuli di disperazione. Farebbe respirare. Sarebbe la carezza del Nazareno al nostro povero cuore. Che è l’omelia più bella.
Antonio Socci
da “Libero”, 10 gennaio 2009
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