....la speranza è data dalla certezza che nulla può mai essere contro di noi. Vado a cercare i nostri amici per dire che la speranza che hanno conosciuto non è stata sepolta da pochi minuti di terrore: Cristo ha già vinto la morte».....
di Fabrizio Rossi
15/01/2010 - Il terremoto si è abbattuto su uno dei Paesi più poveri del mondo. Davanti a migliaia di vittime e ad intere città distrutte, è possibile ancora sperare? Suor Marcella, in missione sull’isola dal 2004, ci racconta la sua esperienza
La cattedrale di Port-au-Prince dopo il terremoto.«Non basta ricostruire le case: questa gente ha bisogno di una speranza». Suor Marcella Catozza conosce bene Haiti: francescana originaria di Busto Arsizio, è stata in missione a Port-au-Prince dal 2004 fino allo scorso settembre, quando s’è trasferita nella vicina Santo Domingo per assistere gli immigrati haitiani. Al telefono ci descrive la situazione di un Paese tra i più poveri al mondo («Sono stata in Albania, in Mozambico, in Brasile e nel Vietnam, ma non ho mai trovato una situazione simile»), dove con il terremoto di martedì «alla disperazione di un popolo si è aggiunto altro dolore». Perché in un minuto gli haitiani hanno visto crollare il poco che avevano. Le vittime sono migliaia, impossibile contarle. Ma le immagini approdate in tv o sui giornali parlano da sole: gli edifici devastati, i corpi estratti dalle macerie, i sopravvissuti assiepati nei parchi o in mezzo agli incroci per passare la notte, le squadre di soccorritori all’opera... Non si può non sentire la propria impotenza, schiacciati dalle notizie che arrivano.
Suor Marcella, che ha passato le ultime settimane in Italia, non sa ancora se sono sopravvissute le persone che lavoravano con lei: «Non riesco a contattare nessuno. Non so neanche se è rimasto in piedi l’ambulatorio che seguivo: all’ora del terremoto probabilmente era pieno di famiglie coi bambini...». Quell’edificio di due piani era tutta la sua opera, da quando il Vescovo le aveva chiesto di occuparsi dei poveri di Waf Jeremie, una baraccopoli di 300mila abitanti a Port-au-Prince: «Il nostro ambulatorio era un punto di riferimento per tutti. Come una casa. Lì dentro sembra una goccia nel mare, ma in questi anni abbiamo salvato 250 bambini». E oggi? «Quella zona è stata rasa al suolo. Conto sul fatto che le baracche reggono più degli edifici in mattone. Ma finora i ragazzi che mi davano una mano sono tutti dispersi: Alex, Puxon, James, Nicolas, Lucienne... che ne sarà di loro?».
Suor Marcella sta cercando di tornare ad Haiti: «So bene che posso fare poco rispetto alla macchina degli aiuti, ma mi rendo conto che quelle persone vedono nella nostra presenza un segno di speranza. Per quel che portiamo, per ciò cui appartengo». Quando a settembre è rientrata da un periodo in Italia, la gente di Waf Jeremie non finiva di farle festa: «La signora Nos, la più anziana della baraccopoli, mi è venuta incontro e mi ha detto: “Ero certa che il Signore non ci avrebbe abbandonato”».Ma come si può parlare di speranza in una situazione simile? «È un problema che riguarda tutti, anche chi in Italia ha ancora un tetto: in cosa speriamo? Non possiamo affidare la vita al fatto che “ci è andata bene” perché la nostra casa è in piedi: la speranza è data dalla certezza che nulla può mai essere contro di noi. Vado a cercare i nostri amici per dire che la speranza che hanno conosciuto non è stata sepolta da pochi minuti di terrore: Cristo ha già vinto la morte».
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