mercoledì 15 ottobre 2008

IN UNA PROMESSA IL SENSO DELLA VITA

sentire la speranza di Roberto Mancini
Tratto da Avvenire del 14 ottobre 2008

Esistono esperienze che, se accolte con lucidità, pongo­no l’esistenza in una luce di verità. Tra esse c’è l’incontro con la promessa.



Constatando che per­diamo continuamente di vista ciò per cui vale la pena di vivere, Bonhoeffer scrive: «Il concetto non biblico di 'senso' è solo una tra­duzione di ciò che la Bibbia chia­ma 'promessa'». Ma perché la promessa può interessare anche chi non riconosce alcun Dio ? Nel­la sua analisi antropologica Han­nah Arendt vede nel potere di pro­mettere una facoltà che ci permet­te di garantire gli uni agli altri un futuro meno instabile perché con- ferisce affidabilità ai comportamenti. La promessa mostra che, rompendo il cor­so meccanico delle cose, la libertà umana può orientare la vita. Scrive Arendt: «Il corso della vita diretto verso la morte condurrebbe inevi­tabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromper­lo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azio­ne e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono mori­re, non sono nati per morire ma per incominciare». Promettere, es­sendo affidabili, è essenziale per sviluppare quella fiducia senza la quale le relazioni tra persone sono un inferno. La promessa è, oltre che una dichiarazione per il futu­ro, una relazione in divenire, una storia che lega chi fa e chi riceve la promessa stessa. Questa deve svolgersi in maniera che il suo de­stinatario non ne sia l’oggetto, ma il co-protagonista. Dire 'promes­sa' significa dire una relazione di promessa. Essa è sempre orientata al bene, altrimenti sarebbe una minaccia. Solo una promessa a­morevole può chiamarci a una consonanza di sguardo e di azio­ne. Esistere secondo il bene: que­sto ci rende co-soggetti della pro­messa che, fatta da un essere uma­no o da Dio, punta comunque a u­na felicità, o alla salvezza. Qui c’è in gioco qualcosa di più che una facoltà della volontà di garantire qualcosa per l’avvenire. La pro­messa si dà per noi, prima di ogni parola data e ricevuta, come un’a­pertura al futuro costitutiva del nostro essere. La dignità umana, infatti, è sì un valore già incarnato in ciascuno, ma è anche la tensio­ne verso una realtà adeguata a quel valore. Quella riconoscibile da chiunque è la promessa che noi stessi siamo in virtù della nostra dignità. Agire secondo questa di­gnità è ciò che possiamo fare per onorare la promessa di felicità che i genitori ci hanno fatto generan­doci e che, per la fede, Dio fa all’u­manità e al creato. Molti sono, per tutti, i motivi di incredulità: soffe­renze, lutti, violenze. «Eppure – ha scritto Theodor Adorno – non si potrebbe percepire niente di real­mente vivo, se esso non promet­tesse anche qualcosa di trascen­dente la vita». Cercare il senso del­l’esistenza in una promessa signi­fica riconoscersi nella relazione con sé, con gli altri ed eventual­mente con Dio, sapendo che il ve­ro senso delle cose non si inventa, ma sorge dalla responsabilità di essere affidabili e dall’impegno a tenere aperto un buon futuro per altri. O almeno dal tentare di rea­lizzare tutto questo. Nella Leggen­da del santo bevitore di Joseph Roth il protagonista appare inaffi­dabile, come ogni bevitore. Riceve un prestito e sembra fallire ogni volta l’adempimento della pro­messa di restituirlo. Alla fine, men­tre sta per restituire il denaro, muore un attimo prima. Ma la sua consonanza con la promessa era ormai ugualmente compiuta. Per­ciò Roth scrive nel finale: «Conce­da Dio a tutti noi, a noi bevitori, u­na morte così lieve e bella!».

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