E non è finita qui
Il decreto Gelmini era solo un aperitivo. La vera rivoluzione della scuola cova in un progetto di legge firmato Valentina Aprea. Che non piacerà affatto ai paladini della mediocrità
di Roberto Persico
approfondimenti
Anche la protesta ha il suo maestro unico
Ce n’est qu’un debut. Cioè il bello deve ancora venire. Il contestatissimo decreto Gelmini, infatti, contiene solo alcune misure urgenti, necessarie per far fronte alle distorsioni più gravi del sistema d’istruzione. Ma la vera rivoluzione si aggira silenziosa nei meandri della Camera, sotto le spoglie della proposta di legge 953, recante “Norme per l’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”, proposta dal presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, Valentina Aprea. Scuole trasformate in fondazioni, risorse distribuite secondo il principio “i soldi seguono gli studenti”, carriera per i docenti, albi regionali degli insegnanti e un contratto ad hoc per la categoria: quando la 953 sarà approvata, la scuola italiana non sarà più quella che abbiamo sempre conosciuto
. Vediamo perché.
Autonomia degli istituti scolastici. È la madre di tutte le riforme. Basta col papocchio postsessantottino dei Consigli d’istituto, parlamentini scolastici che giocano alla finta democrazia mentre le decisioni che contano rimangono saldamente nelle mani di viale Trastevere: dando piena attuazione al titolo V della Costituzione (riscritto, per chi avesse la memoria corta, dal fu governo D’Alema), le scuole verranno affidate a veri e propri consigli di amministrazione, responsabili in tutto e per tutto della gestione degli istituti e dell’amministrazione dei fondi che lo Stato affiderà loro. Composizione dei Consigli? Una novità inaudita nel monolitismo dello Stato italiano: ciascun Consiglio, di «non più di undici membri», «delibera il regolamento relativo al proprio funzionamento, comprese le modalità di elezione, sostituzione e designazione dei suoi membri». Tradotto: non sarà il ministro a decidere se in tutte le scuole della Repubblica dovranno esserci due o tre insegnanti, due o tre genitori, due o tre bidelli, con le relative infinite di-scussioni che negli anni passati hanno bloccato ogni iniziativa analoga; ma ciascuna scuola valuterà la composizione del proprio Consiglio, che potrà comprendere anche «rappresentanti delle realtà culturali, sociali, produttive, professionali e dei servizi». Come a dire: siete maggiorenni, siete in grado di valutare da soli quale sia l’assetto più funzionale. E magari di cambiarlo, in tempi ragionevoli, senza attendere quelli biblici del Moloch di viale Trastevere. Accanto al Consiglio di amministrazione, il Collegio dei docenti, che si dota da sé di un regolamento che ne determini il funzionamento, e un «nucleo di valutazione dell’efficienza, dell’efficacia e della qualità complessive del servizio scolastico», composto da «docenti esperti» e anche da «membri esterni». Anche qui la composizione è lasciata alle singole scuole. Chissà se sapranno usare bene tutta questa libertà? E chissà se gli insegnanti troveranno il modo di lamentarsi anche di questa?
Le risorse seguono gli alunni. Tanto più decisiva la riforma degli organi di governo in quanto la legge prevede che le risorse necessarie al funzionamento delle scuole – tutte, da quelle per riparare il tetto a quelle per pagare i docenti – siano conferite tramite le Regioni a ciascun istituto, «sulla base del criterio principale della “quota capitaria”, individuata in base al numero effettivo degli alunni iscritti a ogni istituzione scolastica, tenendo conto del costo medio per alunno, calcolato in relazione al contesto territoriale, alla tipologia dell’istituto, alle caratteristiche qualitative delle proposte formative, all’esigenza di garantire stabilità nel tempo ai servizi di istruzione e di formazione offerti, nonché a criteri di equità e di eccellenza». I protagonisti, cioè, sono gli istituti, lo Stato fa un passo indietro: qui ci sono le risorse, nessuno ha ricette magiche, ciascuno provi la sua ipotesi, sarà la realtà delle cose (la soddisfazione di studenti e famiglie) a indicare quali sono le migliori, e a dirottare automaticamente con la propria scelta le risorse verso le soluzioni più efficaci.
Da istituti a fondazioni. Recita il Pdl 953: «Ogni istituzione può – a beneficio di tutti quelli che in questi giorni sbraitano che “le università diventeranno fondazioni”, sottolineiamo la parola “può”: ha la possibilità, può decidere, in base a una valutazione delle circostanze che è lasciata a ciascuna realtà – costituirsi in fondazione, con la possibilità di avere partner che ne sostengano l’attività», partecipando anche ai suoi organi di governo. È quel che nei paesi che ci sorpassano nelle classifiche Ocse-Pisa avviene abitualmente, è quel che già oggi le scuole più attente al rapporto col territorio, cioè al futuro vero dei propri studenti, cercano di fare, aggirando i mille bastoni che la normativa attuale mette tra le ruote della collaborazione col mondo reale. I soliti okkupanti abbaieranno che così si svende la scuola ai privati. Studenti, famiglie e insegnanti attenti alla realtà dei fatti sanno bene che il rapporto col mondo imprenditoriale significa miglioramento della qualità dell’offerta formativa.
Docenti in carriera. Non c’è cosa più frustrante, oggi, per un’insegnante, di vedersi trattato allo stesso modo di tutti gli altri, qualunque sia il proprio impegno. Dovunque – negli altri settori e nelle scuole di altri paesi – chi lavora bene viene premiato. Solo nella scuola italiana questo non avviene. In omaggio a un dogma sovietico, gli insegnanti sono tutti uguali. Con la nuova legge la professione docente è articolata in tre livelli (docente iniziale, docente ordinario e docente esperto) a cui corrisponde un distinto riconoscimento giuridico ed economico della professionalità maturata. La formazione degli insegnanti avviene nei corsi di laurea magistrale e nei corsi accademici di secondo livello, con la previsione di un periodo di tirocinio e la creazione di un albo regionale da cui attingere. Sono previste valutazioni periodiche dei docenti, in base all’efficacia dell’azione didattica. Che non è certo facile da valutare, ma se altri paesi ci riescono, noi siamo forse più stupidi?
Un contratto ad hoc. Dulcis in fundo, viene istituita un’area contrattuale della professione docente. Vale a dire: il contratto degli insegnanti sarà scorporato da quello di segretari e bidelli, mestieri indispensabili ma di natura differente. E scompariranno le attuali rappresentanze sindacali d’istituto (le famigerate Rsu) in cui sono sovente appunto degnissimi bidelli a decidere come vanno ripartite anche fra gli insegnanti le (poche) risorse aggiuntive. Forse anche l’Italia diventerà un paese moderno.
1 commento:
Un passo nella giusta direzione.
Un passo che rischia di essere troppo lungo e sbilanciare dall'altra parte?
Il sistema scolastico italiano adesso e' il secondo datore di lavoro pubblico piu' grosso al mondo, solo dopo le nazioni Unite. E' chiaramente ora di ristrutturare il sistema.
I paesi "moderni" a cui l'italia si ispira (USA), non sono poi cosi' moderni quando si parla di educazione.
In america basta vivere in due paesi diversi, magari solo separati da una linea retta immaginariamente tracciata su una cartina, e l'esperienza scuola puo' avere due facce radicalmente diverse.
Il Paese A, dove vivono i ricchi dove la scuola e' bellissima, il paese B dove vivono i poveri dove la scuola e' bruttissima.
Il paese di residenza fisica della persona limita le persone ad attendere la scuola nel proprio paese.
Con questa nuova legge, e l'introduzione delle "fondazioni" il rischio di cadere in una possibile ghettizzazione all'americana esiste.
Speriamo che si trovi un giusto bilancio.
L'italia era certamente un paese moderno in quanto a educazione tutti sapevano leggere e scrivere contrariamente all'america.
E' giusto modernizzare e snellire il sistema, speriamo che solo le parti belle vengano prese dal sistema americano.
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