giovedì 1 gennaio 2009

GIULIANO FERRARA RISPONDE A VITTORIO POSSENTI

"Questo articolo è una svolta radicale"

Giuliano Ferrara

Intellettualmente onesto, il filosofo politico cattolico in questo articolo afferma a sorpresa tre cose. La prima è che, sotto il profilo razionale, diverso e in questo caso opposto a quello della fede, la vita non è un bene indisponibile, a patto naturalmente che sia la propria vita e non quella degli altri. La seconda è che la Tecnica, che pretende di offrirci immortalità corporea e saggezza, che si comporta come la nostra guida totale, vince sulla Persona quando appronta per l’essere umano una vita artificiale, compresi quel nutrimento e quell’idratazione che negli hospice vengono sospesi ai malati terminali per evitare un inutile accanimento. La terza è che non esiste il diritto di morire, se inteso come suicidio assistito o eutanasia, ma deve essere riconosciuto il diritto di accettare la morte secondo la propria idea della dignità del vivere e del limite naturale della vita.

Con questo articolo di Vittorio Possenti, voce autorevole ospitata anche dal quotidiano dei vescovi Avvenire, accademico pontificio nel settore delle scienze sociali e membro del comitato nazionale di bioetica, la discussione innescata dai casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro cambia di segno. Fino a ieri si trattava di un conflitto di teoria morale tra agnostici o cattolici “martiniani” da una parte e cattolici o laici “ratzingeriani” dall’altra. Da oggi diventa un conflitto culturale interno all’establishment del sapere cattolico al quale il professor Possenti appartiene. Una prima avvisaglia era arrivata con la decisione dei vescovi italiani di stimolare il legislatore italiano a produrre norme di legge sulla fase finale della vita, nel segno dell’incalzante offensiva in atto per il testamento biologico ma con l’intento di limitare i danni delle sentenze che autorizzano a rendere disponibile la vita di una persona in ragione di una sua decisione attuale o anticipata nel tempo. Ora con questo scritto c’è una base di libero pensiero e di argomenti rilevanti, articolati e impostati con serietà, che cambia il quadro della discussione. La continueremo nei prossimi giorni con commenti alle tesi di Possenti, la cui potenziale conseguenza culturale, civile e di diritto sarà ben chiara al lettore: nei casi Welby ed Englaro hanno ragione i sostenitori dell’autodeterminazione e torto coloro che si battono per l’indisponibilità della vita umana.

© Copyright Il Foglio, 14 dicembre 2008 consultabile online anche qui.

Anticipazione dal Foglio del 15 novembre

Avanza una nuova stagione eticamente (molto) insensibile

L'eccezionalismo italiano è probabilmente finito, e bisogna prenderne atto. Per una stagione, quando il governo ruiniano dei vescovi italiani toccò il suo culmine e Joseph Ratzinger fu eletto successore di Giovanni Paolo II, era sembrato che l'Italia potesse introdurre in occidente una novità dirompente: la possibilità di sconfiggere l'ideologia moderna, che relativizza la vita umana, e di far prevalere una diversa nozione di umanità con il sostegno della ragione alleata con la fede. L'onda di piena del secolarismo più dogmatico trovò un argine che nessuno si sarebbe aspettato quando, in risposta alla volontà di abrogare una legge equilibrata e ragionevole sulla fecondazione artificiale, una larghissima maggioranza di cittadini disobbedì per la prima volta ai guru dello scientismo e fece fallire l'assalto referendario alla legge 40.
Di quella stagione, che ebbe nella battaglia contro il matrimonio omosessuale e nella promozione di massa del significato sociale della famiglia un complemento di grande impatto civile, ormai rimane il ricordo, e poco più. I vescovi si acconciano all'idea che si debba legiferare per anticipare la propria volontà di vivere o morire, date certe condizioni cliniche. Non basta la libertà di cura, e di rifiuto della cura. Non bastano le norme deontologiche e le provvidenze legali contrarie a ogni forma di accanimento terapeutico. Non basta il rapporto tra il paziente e il medico. Ci vuole la norma, dunque una scelta di diritto e di etica pubblica in favore di un rapporto di dipendenza della vita dalla volontà umana (oggi è in ballo la propria vita, ma già la decisione in attuazione delle dichiarazioni anticipate la prende un altro, e domani chissà). Sul fatto che ogni vita ha eguale dignità, cuore di quel liberalismo cristiano di cui ha diffusamente e dottamente parlato ieri su queste colonne Marcello Pera, prevale dunque l'idea che il giudizio sulla dignità della vita è relativo, è un'opinione del soggetto. Sullo statuto personale dell'embrione, come definito dalla recente Istruzione della Congregazione per la dottrina della fede, sono state notate alcune timidezze.
Nel frattempo, una maggioranza "valoriale" di centro destra, che onestamente fu definita eticamente anarchica dal suo capo, è destinata ad assistere senza poter reagire alla distruzione dei principi informativi della legge 40 sulla fecondazione assistita, visto che le linee guida del ministro Livia Turco nessuno sembra in grado di rivederle o abrogarle sostituendole con altre, anche per paura delle sentenze giudiziarie (che sono anche la molla della decisione della Cei di procedere con una specie di testamento biologico). La Ru486 si sta diffondendo sperimentalemente, così dicono, e sarà presto, questa maligna favola dell'aborto facile, una pratica assimilata da ogni protocollo medico e ginecologico, nonostante la sua più diabolica caratteristica: sancire definitivamente e per sempre la natura solitaria e moralmente indifferente dell'aborto.
Il fatto è che gli argomenti in favore della disponibilità relativa della vita umana non sono irrilevanti. La ragione umana nuda può opporsi, ma con una certa fragilità di fronte all'efficacia della logica utilitaristica e libertaria. La fede e la cultura religiosa, nutrite della loro capacità di estrarre significati dalla sofferenza, sarebbero più forti, ma sono messe fuori gioco dall'argomento della laicità (soffri tu, che sei credente, e lascia me naufragare nel mio dolce annullamento).
Con probità intellettuale, giusto ieri nel Foglio, un articolo del professor Vittorio Possenti si diceva favorevole ad affermare in alcuni casi, secondo la volontà del soggetto, la disponibilità della propria vita. Possenti non è una generica personalità del mondo cattolico, è un autorevole esponente del suo establishment che si prende la responsabilità di includere anche la nutrizione e l'idratazione, ciò che a me sembra in quella logica inevitabile, tra le risorse vitali alle quali si ha diritto di rinunciare volontariamente nell'anticipazione delle proprie direttive sulla fine della vita. E in tutto il suo ragionare c'è del giusto, c'è equilibrio, tranne che su un punto, a mio giudizio cruciale. La questione della norma.
Un conto è accettare stoicamente e cristianamente, laicamente e religiosamente, razionalmente e fideisticamente, il limite naturale della propria vita. Un conto è discuterlo con i propri familiari, con un amico in corsia, con il prete o con il proprio medico, figura decisiva. Un conto è la deontologia medica, che può consentire di dichiarare, su sua responsabilità morale, la fine di un accanimento. Un altro conto è una legge, una norma eticamente valida per tutti, che decide quali sono le condizioni entro le quali una vita umana può essere dichiarata non degna di essere vissuta. Il salto culturale, civile, ideologico è radicale. E' il passaggio da un morire cristianamente a un morire dopo il cristianesimo.

© Copyright Il Foglio, 15 dicembre 2008
Pubblicato da Raffaella a 9.57

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