mercoledì 18 febbraio 2009

CI PRENDIAMO CURA DELLE PIANTE E POI DICIAMO CON INCURIA "STATO VEGETATIVO"


DA IL FOGLIO 17 Febbraio

La speranza è stata offerta dalle suore
A proposito di lei. La sola speranza è stata offerta dalle suore, spingendo la carrozzella nonostante vi fosse appoggiata una persona dai contorni scomparsi, e che proprio quella loro pietà faceva tornare a esistere. Era questo a brillare: che una catastrofe fosse protetta.


Per il resto, di lei non sappiamo come e quanto possa avere sofferto tra la deriva inarrestabile della rianimazione e l’autostrada degli abissi giudiziari, precipitando per anni nella proto-esistenza di quell’involucro. Ora, qualche frammento di notizia fa capire dove fosse arrivato il deterioramento, dal quale lei è stata spinta via per il tramite di un editto giudiziario che emette di togliere il cibo a una persona che per constatazione virtuale ormai non è più una persona. Il fatto è che il fluire di un processo vitale non è la vita, e non è una persona ma è la morte. Vale a dire che non è la programmata dismissione delle forze vitali, e a tale termine i fluidi cessano di prorogarsi ma un insondabile crimine della Repubblica. Del fatto che lei non rispondesse al canone di persona in vita, i giudici che hanno emesso la sentenza di svincolo sono certi in forza del codice che è inoppugnabile.

Pur tuttavia, il codice è anche interpretabile, ed è stato sentenziato da una corte che invece lei esistesse in quanto persona e la morte non le fosse comminata; e tuttavia ancora, altri controsentenziarono che invece come persona non esistesse dato che vegetava: e cioè, lei era concettualmente pari a una pianta. Di fronte a questa violenta incertezza giudiziaria forse converrebbe vedere come il soggetto abbia abitato il più fitto dei misteri: che lei fosse tragicamente viva e che fosse anche tragicamente morta; che continuasse a vivere essendo morta da un pezzo, e che continuasse tremendamente a morire essendo viva. E dalla ridda dei tuttavia emersi dai controtuttavia, altri proclamano che se uno è malato da non essere più una persona, ma una pianta, appare un controsenso non aiutarlo a dissolversi mediante la nostra intelligenza. Il vero problema è che quando diciamo che una persona ormai è un vegetale lo facciamo perché non sappiamo dove sia mentre ci è davanti e respira senza che nei respiri ci sia un alito sensato. Così.

Dato che non sappiamo niente di come si metta praticamente in atto la vita, né perché la vita ci debba abbandonare. D’altra parte, mentre lei giaceva con lo sguardo vuoto non possiamo dire che non esistesse. C’era. Ma non sapevamo dove rintracciarla, domiciliarla, tassarla, censirla, richiamarla ai doveri civici, mentre pareva ristagnare come muschio. Ma esisteva. Forse, lei e gli altri sono i vegetanti per la miseria sconvolgente di non possedere nemmeno un’espressione idonea a definirli. E che povertà è questa, quando in mancanza di meglio sarebbe bastato dire che lei era una donna così malata da respirare senza saperlo. Ma non siamo in grado di affacciarci su una tale realtà personale. Una pianta irrorata di sangue, che esige zuccheri; forse più pianta che persona. Ma non sappiamo niente neanche delle piante da poter dire quanto fosse pianta e quanto persona. Eppure i suoi piedi erano qui, i polmoni si gonfiavano e svuotavano qui, qui era la temperatura corporea, i residui del bel volto – tutto qui.

E dunque non sappiamo chi sia una pianta: noi le piante le innaffiamo, le curiamo, le potiamo, le concimiamo; in generale, argomentiamo circa le piante e diciamo che la pianta sente chi l’ama e chi no; ci chiniamo su di lei la pianta è quasi sempre bassa. E di nuovo in generale, c’è chi l’innaffia e chi proprio sente che la sta nutrendo, e chi non sente di nutrirla e corre a casa a darle l’acqua come un genitore in pena. E per un turbine della coscienza sentimentale, andiamo nei boschi, guardiamo intorno furtivi e abbracciamo gli alberi; e rimaniamo in silenzio convinti di ascoltarli e che in quel momento qualcosa di solenne stia passando tra noi. Poi un giorno un amico ci chiede il favore di innaffiargli le piante perché deve partire e c’è da prendersi cura dei gerani e dell’amata azalea. L’amico si raccomanda di non innaffiare mai all’ora di punta, che d’estate fa malissimo; dice di essere delicato col getto d’acqua che può scalzare la terra. Parte, e ogni giorno prima del tramonto sono dalla sua edera, dai gerani. Dall’azalea.

Nell’appartamento deserto, ristagna la solitudine delle vegetanti piante grasse; e sono senza scopo anche le piante sul terrazzo, pur essendo tante e così vicine. Le piante non vogliono stare tra loro – ma per noi; e io, che sono lì a sostituire il mio amico, le vezzeggio. Parlo con loro, ciangotto come con i bimbi. Guardo un geranio, mi chino sul suo silenzio e lo colmo d’acqua. E quando il pavimento del terrazzo è un corso d’acqua e la terra è nera in modo abbagliante, sono felice di quella sazietà acquitrinosa. Sul terrazzo la morte è stata cacciata. Eppure può succedere che nonostante l’acqua e le parole, la pianta secchi. Lei vuole l’acqua solo da quella mano, dal respiro che conosce. La pianta, vegetante per acclamazione, sente la pazienza quotidiana. Mentre noi che siamo a lutto per la fine di una pergola, noi per la vegetante non eravamo disposti a interrogarci se magari il suo corpo parlasse quel linguaggio che affidiamo a un geranio. Il punto è che quando una persona esce dal binario biologico e trapassa allo stato vegetativo scivola fuori dalla forma di persona.

E’ senza forma, è declassata. Succedeva che la sua corteccia cerebrale fosse necrotizzata e che poi curiosamente ci fosse. Può darsi che sentisse la realtà quanto lo può fare un pioppo. Può darsi che vegetasse proprio come quegli ulivi messi in fila che sembrano entità sulla collina. Ma noi che facciamo battaglie per le balene, per i pellicani intontiti dalle macchie di petrolio sul piumaggio; che ci commuoviamo della striscia di muschio su un muretto; che mettiamo in costosi acquari, piccoli pesci accesi come fiori, e li consumiamo con lo sguardo perché vengono a guardarci. Ma anche avessimo sbagliato a considerare vivo quel corpo, quella pietà significava irrigare di coraggio i vecchi e i malati. Purtroppo è stata lasciata fluire attraverso il grumo liofilizzato di un comma, il codicillo per cui la sua esistenza aliena non fosse assimilabile allo spirito costituente.

Infine, non è in questione il sentimento del padre per la figlia. Non ci sogniamo di valutare una stratosferica stanchezza, il funerale mancato, un silenzio che bucava i timpani. Che una figlia prima parlasse, venisse al mare, corresse, litigasse, e a un tratto fosse un testardo niente. Apparisse una buccia senza frutto. La questione della Vegetante è quella generale: che pietà l’è morta. “Io l’amo”, “Bisogna vedere se è costituzionale”. “E’ viva”, “Bisogna vedere se è legale”. “E’ morta”, “Consultiamo il codice”. Il padre di lei, per favore amiamolo, perché non è stato certo amato. Ma lasciato nella progressiva desertificazione e condannato. Avremmo dovuto, tutti, farne le veci, associarci e ciascuno portare una parte di lei. Una lunga catena di relazioni sarebbe arrivata sino a questo padre, a dargli il cambio, e il senso. In ogni caso, invece della friabile legge, a un tratto a lei ha pensato il Giardiniere. L’ha portata nei suoi campi.

di Alessandro Schwed





1 commento:

terry ha detto...

ciao,
un articolo veramente bello, peccato che tanti non si rendono conto che il valore della vita è qualcosa che va al di là dell'efficientismo o della qualità.
Gli ammalati hanno bisogno, non solo di cure, ma di incoraggiamento, sostengno, affetto. Una certa politica, e una certa collettività dovrebbero confrontarsi su questo piuttosto che parlare di eutanasia o diritto alla morte.
Un abbraccio