Majlinda e l’attesa di Cristo
di Alessandro Banfi
13/01/2009 - Don Martino, cappellano del San Raffaele di Milano, racconta gli ultimi giorni di una ragazza che ha colpito chiunque l’abbia incontrata. Perché viveva ricca di una certezza
Una lettera di Majlinda.L’appuntamento è al settore C meno uno, dove c’è la chiesa. Ospedale San Raffaele di Milano. Cerco don Martino Antonini, che è il cappellano rettore. Per quelle strane circostanze che rendono la vita bella perché imprevedibile, quando arrivo mi dicono che il cappellano non c’è, è all’unità coronarica. «Lo aspetti lì», mi dice una signora in sagrestia. Mi siedo su uno dei banchi e guardo il Santissimo, attratto, curioso.
Mi viene a chiamare lui, don Martino, e interrompe i miei pensieri e le mie confuse preghiere davanti a quella luce rossa. Il tema dell’incontro, gli spiego, è solo uno: voglio sapere tutto di Majlinda, la ragazza albanese del movimento morta qui due mesi fa, a soli 25 anni, dopo tre anni di leucemia, due trapianti di midollo e una vita che ha segnato chiunque l’abbia incontrata. Di persona o da lontano, come Rodney, il carcerato del North Carolina che, dopo aver saputo di lei attraverso degli amici, ha iniziato a scriverle (vedi Tracce 5/2007).
Anche don Martino, che non è di Cl ma conosce i libri di don Giussani, è rimasto colpito da questa ragazza. «Me l’ha segnalata un’amica, abbiamo parlato molto». Quanti sono i malati che questo prete ha confortato? E quante, purtroppo, le morti tristissime anche di persone giovani, che ha visto in questi anni? Eppure, quando parla della ragazza albanese, è un’altra cosa: «Majlinda si confessava spesso. Erano confessioni di devozione, frequenti; l’obiettivo era percepire la Grazia del Signore. Però soprattutto è stata testimone di una cosa molto precisa: il rapporto con Gesù Cristo attraverso l’Eucarestia. Un rapporto che ha avuto un aspetto fisico e anche sacramentale, un’adorazione continua vissuta attraverso la sofferenza».
La malattia di questa giovane è ancora un ricordo vivo per don Martino. «Era sempre serena. E tuttavia noi vedevamo quanto soffriva, quanto la malattia se la mangiava». Anche la sua devozione al Santissimo passa attraverso questa contraddizione enorme. «Per un lungo periodo Majlinda non poteva inghiottire niente; vomitava continuamente, piangeva. Eppure stare al cospetto dell’ostia consacrata ad un certo punto era diventata la cosa più importante. Lei ed io ci siamo incontrati su questo. Quando le portavo l’Eucarestia in camera, la vedevo felice. Esprimeva in tutti i modi la volontà di avere vicino Gesù Cristo, col suo carattere deciso, ed era sempre fiduciosa. Voleva guarire. Le chiedevo: come va? E lei sempre positiva, fino a due giorni prima di morire».
Don Martino è dal 1999 qui in ospedale. Vive in mezzo alla sofferenza, lui stesso si è ammalato di cancro e poi ne è uscito. Eppure la storia di Majlinda è stata per lui unica, in tanti anni. «È stata una vera testimone dell’incontro attraverso il martirio cristiano della sofferenza. Però voglio citare altre due persone, che hanno lasciato in me, prete, un segno di grande testimonianza. Anna Maria, una donna di Rimini anche lei di Comunione e Liberazione, morta nel 2000, nove anni fa, il cui ricordo qui è ancora vivo, soprattutto il suo entusiasmo e la sua serenità. Sarei felice di ritrovare qualcuno dei suoi familiari ed amici di allora. E parlare anche di lei. E poi Carmine, un semplice parrocchiano, che camminava in corridoio e mi aspettava quando gli portavo l’ostia… Tutti e tre avevano una fame ardente del Signore, che resta una testimonianza stupefacente. Ma Majlinda era la più giovane, e forse proprio per questo ha lasciato il segno più grande. Per tutti. Sarebbe bello farsi raccontare dagli altri malati, la luce che è stata nelle camere di questo ospedale».
Don Martino si spoglia quando rientra in sagrestia. C’è un caldo anomalo negli ospedali, adesso che la morsa del freddo fuori è stringente. Mentre mi parla, si mette in maglietta sotto e camice bianco sopra. «Sudo tanto, si corre, si fatica». Nella luce dell’indaffarata sera milanese mi sembra il combattente spossato di una buona causa, che solo ogni tanto il Signore ci dona di capire quanto sia vera e grande. Il male, il dolore, la morte sono dietro ad ogni angolo e non metaforicamente, soprattutto ora, soprattutto qui. Ma Majlinda per lei, prete che ne ha viste tante… «Mi ha fatto guardare alla Messa quotidiana, che per noi è un dovere, in un altro modo, spingendomi a considerare il cuore dell’Eucarestia: l’incontro con Lui. Le può bastare?».
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