La vita che gli è stata risparmiata appare come un patrimonio inestimabile, da spendere fino in fondo. Don Carlo assume la direzione dell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio dove accoglie i primi orfani di guerra. Una sera una giovane donna disperata gli affida il suo bambino mutilato di una gamba. Una folgorazione. In pochi anni l’Opera di don Carlo cresce prodigiosamente, a Cassano Magnago, Parma, Pessano, Torino, Inverigo, Roma, Salerno, Firenze. E’ nato l’angelo dei mutilatini: don Carlo Gnocchi.
Bergamo, 5 maggio 2010 - Era magro, quasi diafano. Eppure era un lombardo solido, tenace, nato in quel di San Colombano al Lambro. Altrimenti non sarebbe ritornato dalla Russia e don Carlo Gnocchi non sarebbe diventato, semplicemente, don Gnocchi. Prima di arruolarsi volontario allo scoppio della guerra è stato assistente spirituale al Gonzaga, la scuola frequentata dall’alta borghesia milanese, dove lo chiamano affettuosamente "el pret di sciùri", il prete dei signori. Eccolo allora quel prete dal volto fine, scavato, la figura gracile, i capelli aerei, gli occhi che paiono acqua chiara, con gli alpini sul fronte greco-albanese e poi in Russia, con la Tridentina. Eccolo di fronte all’orrore più assoluto della guerra, immerso nel pieno della ritirata.
"Passa ultimo e frettoloso un giovane ufficiale. Riconosce il cappellano. “Ciao” gli dice sottovoce. “Hai il Signore? Dammelo da baciare”. Un bacio intenso e poi via animosamente. Verso la battaglia". Lo scrive don Carlo in "Cristo con gli alpini", riedito di recente da Mursia, un grande classico della memorialistica di guerra. Rischia di morire anche lui, in quel deserto bianco, uniforme, gelido. Gennaio 1943. E’ la tragedia dell’Armir. Il corpo di spedizione in Russia ripiega dal fronte del Don, una lunga colonna appiedata. Attaccata dal nemico, morsa dal freddo, tormentata dalla fame. Con gli alpini della Tridentina, dietro il battaglione Edolo, marcia anche una sezione di sanità, i feriti ammassati sulle slitte trainate dai muli. Il tenente medico Rolando Prada è un giovane milanese, tira avanti a forza, come tutti.
Nota un militare con un bavero di pelliccia applicato al cappotto. E’ accasciato nella neve come tanti. Prada si avvicina. "Don Carlo, sei tu?". Il cappellano della Tridentina è stremato. "Don Carlo, su, vieni con noi". Il prete risponde che lo lascino stare, non pensino a lui. E volge lo sguardo attorno, a quelli che hanno ceduto o stanno per cedere alla tentazione dell’ultimo abbandono. Non ha la forza di opporsi quando lo issano sulla slitta stracarica. Gli basta quel breve riposo. A sera la sezione medica lo riconsegna al comando di divisione. E don Carlo Gnocchi esce dalla sacca. Torna in Italia con lo zaino gonfio di lettere, cartoline, biglietti, ricordi, testimonianze della tragedia. Per un po’ vaga alla ricerca di mogli, figli, mamme, fidanzate. Lo hanno decorato con la medaglia d’argento.
E i bambini segnati per sempre, spezzati dalla guerra? "Da un mese - scrive in “Cristo con gli alpini” -, la guerra con tutti i suoi incubi atroci, con i suoi pungoli e con i suoi rimorsi inquietanti mi è sembrata insopportabile nell’anima. Da che il chirurgo, sollevandomi dinanzi i moncherini di Bruno (un bambino mutilato di ambo le braccia; tagliava l’erba per i conigli e urtò con il falcetto in una bomba), mi disse, un poco estraneo e scolastico: “Lo vede? Sono giù in suppurazione. Bisogna riaprirli, segare l’osso per accorciarlo e richiuderli di nuovo. Perché lei deve sapere che l’organismo umano non cresce contemporaneamente in tutte le sue parti".
La vita che gli è stata risparmiata appare come un patrimonio inestimabile, da spendere fino in fondo. Don Carlo assume la direzione dell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio dove accoglie i primi orfani di guerra. Una sera una giovane donna disperata gli affida il suo bambino mutilato di una gamba. Una folgorazione. In pochi anni l’Opera di don Carlo cresce prodigiosamente, a Cassano Magnago, Parma, Pessano, Torino, Inverigo, Roma, Salerno, Firenze. E’ nato l’angelo dei mutilatini: don Carlo Gnocchi.
di Gabriele Moroni
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