Noi poveri preti, la carne di Gesù in Paraguay
di Aldo Trento
Da tempo desidero approfittare dello spazio che mi regala Tempi per parlare dei miei fratelli sacerdoti che formano la comunità della Fraternità sacerdotale “San Carlo Borromeo” in Paraguay. In particolare mi sembra una necessità, dato il momento che noi sacerdoti stiamo vivendo nel mondo d’oggi, nel quale esiste una campagna il cui fine è l’inutile tentativo di distruggere la Chiesa, Corpo di Cristo. Noi quattro che formiamo questa comunità stiamo soffrendo molto; essa si pone come punto di riferimento non solo per la parrocchia ma per tutto il Paraguay e anche per molte persone di tutto il mondo. Teniamo gli occhi fissi sull’esperienza che viviamo, perché gli attacchi quotidiani al Santo Padre e alla Chiesa ci colpiscono terribilmente. Noi viviamo giorno per giorno in contatto con la morte e tutto ciò che la precede: malati terminali di cancro e Aids (fra i quali prostitute, omosessuali, travestiti, pedofili), anziani abbandonati, medicanti, bambini violentati, bambini poveri, bambine incinte a causa di stupri, eccetera.
Una cosa è parlare, leggere i giornali, dettare sentenze da dietro una scrivania; altra cosa è vivere sommersi da questo oceano di dolore. Un dolore che modella ogni giorno la nostra vita nella relazione con Cristo, fra di noi e con il prossimo. Siamo quattro: padre Paolino che è il parroco, padre Ferdinando il vicario, padre Oscar che ha altre responsabilità e lo scrivente, occupati a condividere la vita in questo oceano di sofferenza. Ciascuno di noi ha la sua storia particolare, il suo temperamento, però fra di noi esistono cinque cose che sono le fibre della nostra vita.
Solo Cristo basta
«Solo Cristo basta», come suole ripeterci ogni giorno padre Ferdinando, detto anche padre Daf. Lo sguardo a Cristo è il continuo richiamo che ciascuno di noi è per l’altro. Per questo motivo viviamo un’intensa vita comunitaria fatta di gesti molto concreti, come la recitazione di tutte le parti del breviario insieme, un’ora di dialogo comunitario ogni giorno, dalle tre e mezza fino alle cinque e mezza, e ogni lunedì un giorno di ritiro nella Granja Padre Pio per riposare e pregare. Guardare a Cristo, stare di fronte alla sua Presenza, essere l’uno per l’altro “memoria” di Cristo: questo è il cuore, il respiro da cui nasce tutto. In primis la compagnia piena di tenerezza fra di noi.
La nostra amicizia è invincibile
Tutti potranno distruggere quello che esiste qui, tutti possono rovinarci, anche perché il nostro motto è “pane al pane e vino al vino” e non conosciamo molto le regole della diplomazia, però «non potranno mai non solo distruggere, ma nemmeno toccare la nostra amicizia», è solito affermare il padre Paolino. Per noi l’amicizia non è mai stata il punto di partenza della vita, né delle opere, ma la logica conseguenza (grazia) del guardare a Cristo. È impossibile stare davanti a Cristo senza osservare chi incontri sulla tua strada. In questo senso l’amicizia fra di noi è il punto più commovente dell’amicizia personale con Cristo. E fate attenzione che non c’è nulla di romantico, non c’è nulla che faciliti le relazioni visto che il temperamento e lo stato d’animo di ciascuno molte volte rende pesante la vita. L’unico che fa eccezione è il padre Paolino, con la sua ironia e il suo modo simpatico di guardare alla realtà. Non siamo nemmeno come delle calamite, ma il fatto è che ogni giorno la relazione con l’altro nasce da un “sì” personale a Cristo.
«Guardate come stanno fra di loro»
«Guardate come stanno fra di loro», dice la gente. Non mancano i bisticci, c’è chi si trova bene con l’altro o sta sempre con lui, e c’è chi bisogna andarlo a cercare per vederlo, c’è chi sbuffa come un treno quando si arrabbia, e c’è chi è più silenzioso e ama la calma, il mangiare o la vita in stile monastico, c’è chi parla bene il castigliano e chi parla veneto, c’è chi guida come se fosse un pilota di Formula 1 e provoca incidenti, e c’è chi è prudente o viaggia in taxi perché non ha la patente. C’è chi lavora come un matto e chi prende la vita con calma. Sembra un circo nel quale ciascuno ha il suo ruolo, il suo modo di essere. Perfino quando preghiamo abbiamo problemi, perché c’è chi tiene il retto tono e c’è chi, come me, anziché l’attenzione favorisce la distrazione con un tono di voce insopportabile. E non solo questo: a volte si ritrova uno solo a pregare, perché gli altri sono rimasti a dormire, e allora il padre Paolino con la sua solita ironia dice: «Non preoccupatevi, ho pregato io per voi». Un’ironia che ci ricorda una grande verità: siamo il Corpo Mistico di Cristo. Una compagnia, un’amicizia, volti tesi al Mistero.
Un’amicizia operativa, evidente strumento nelle mani del Signore. Nessuno può credere che Dio abbia fatto i miracoli che qui si vedono quotidianamente utilizzando un somaro depresso e uno che, prima della conversione, che si è compiuta a 25 anni, lavorava come carrozziere e andava in Marocco a rifornirsi di marijuana. Tuttavia il Dio che usa gli stolti, quel che per il mondo e a volte anche per certi uomini di Chiesa è spazzatura, usa questi due poveretti per mostrare a tutti la sua tenerezza, la sua infinita misericordia. Ogni giorno ci troviamo (l’appuntamento per tutti è alle 7.45) per la preghiera delle Lodi, però c’è chi si alza alle cinque e aspetta nella cappella, chi alle sei e va a correre, chi alle sette e mezza perché non ha altre occupazioni, chi, come il parroco Paolino, alle sei e mezza perché deve dir Messa. Il semplice guardarci in faccia coincide col riconoscimento: “Sì, o Cristo mio”.
Inoltre si tratta di un’amicizia che non solo è il cuore delle opere, ma che è aperta a quanti (secondo le possibilità che abbiamo) hanno bisogno di aiuto, in particolare i depressi che arrivano dall’Italia e da altre parti.
Alle 13, quando pranziamo, la tavola lunga cinque metri molte volte è piena di persone con differenti problemi. Per esempio c’è stato un periodo nel quale insieme ai noi sacerdoti c’erano una giovane bulimica, un’anoressica e un’altra che aveva gravi problemi di depressione. In questi giorni ci troviamo con persone di differenti nazionalità: una ragazza tedesca, un’ebrea di un kibbutz israeliano, una spagnola, un’italiana, eccetera. Ogni giorno viviamo quell’opera che ventuno anni fa mi regalò don Luigi Giussani ed è continuata col padre Alberto, che mi ha fatto compagnia per dieci anni. Una compagnia che continua con il padre Paolino e attualmente si estende al padre Daf e al padre Oscar. Quando uno è stato abbracciato non può più vivere senza abbracciare tutti, chiunque essi siano, non importa quali siano le loro miserie, la loro situazione fisica o psichica. Che spettacolo quando arriva l’ora del pranzo e ci troviamo con questo circo! Eh sì, perché o ripeti subito con tutto il tuo cuore “Sì, o Cristo mio”, “Tu, o Cristo”, oppure diventa difficile pranzare insieme, perché molte volte c’è il depresso che non parla, l’anoressica è invidiosa della bulimica, c’è una che soffre di quello che oggi chiamano il disturbo bipolare (io non capisco cosa sia questa malattia) e a causa di questo passa da momenti euforici ad altri in cui si ritrova col sedere per terra. Poi ci sono quelli che parlano per tutti e quelli che sempre ascoltano… Potremmo continuare all’infinito a raccontare quello che succede durante il pranzo… Tuttavia è uno dei momenti più belli della nostra convivenza, perché mai come in quel luogo si rende evidente la carne di Cristo. Viviamo sommersi nel dolore e col cuore pieno di pace. E poi quanta gente ci visita da ogni parte del mondo. Fra loro gli amici più cari: Marcos, Cleuza e Julián de la Morena, coi quali sono nate un’amicizia e una compagnia uniche. Diremmo che di fatto questa è la fraternità con cui condividiamo la strada della fede quotidiana. Con loro è sempre una tenerezza e la vita è un richiamo continuo a Cristo. Quando arrivano (una volta al mese, più o meno) è il momento di maggior riposo.
L’amore alla libertà di ciascuno
Personalmente ho toccato con mano cosa significa la libertà per don Giussani e attualmente con don Julián Carrón e don Massimo Camisasca (il superiore generale della Fraternità): l’amore alla libertà di ogni fratello. La mia preoccupazione è solo una: che ogni padre si senta amato, che stia bene nella sua casa. Mi piace tantissimo il detto di sant’Agostino: «Ama e fai quello che vuoi». Essere capo-casa, per me, significa favorire concretamente, dentro a tutte le debolezze del mio carattere scontroso, come lo definisce la gente, la posizione di sant’Agostino. O meglio, come dice san Paolo, «essere custode della gioia dei miei fratelli». E questo respiro, che solo un’appartenenza radicale a Cristo dà, mi permette il rispetto per l’altro, la fiducia, l’assenza di ciò che spesso caratterizza certe comunità, cioè il controllo, o il fare il poliziotto dell’ortodossia o della regola. La libertà è l’unica possibilità per amare ed essere amato. Per questo ciò che chiedo ai miei fratelli sacerdoti è che mi aiutino a stare in ogni momento davanti al volto di Cristo, vivendo intensamente la realtà.
È bello che i fratelli vivano insieme
«Com’è bello che i fratelli vivano insieme», recita il Salmo. Per la verità è ancora più bello che quattro sacerdoti vivano insieme essendo l’uno totalmente dipendente dall’altro. E il frutto di questa unità è una comunità più viva, appassionata a Cristo, protagonista delle meraviglie che Dio opera in questo perimetro e che commuovono il mondo. Quattro uomini che, per il mondo e per molti “amici”, non valgono nulla; tuttavia in essi si compiono le parole di Gesù: «Che siano una sola cosa perché il mondo creda» e «Compiranno opere ancora più grandi». Davvero, «non a noi, o Signore, ma al tuo nome da’ gloria».
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