....Non è un’opera nostra o una nostra scelta l’essere in clausura. Si viene perché ci si sente chiamate da un Altro che, a volte, chiamandoci, ci scombina la vita. Si viene perché s’intuisce la profonda e pura bellezza che si cela dietro le grate del monastero. Si viene perché si subisce un fascino, come quando ci si innamora. E poi si varca la soglia, si passa dall’altra parte della grata, e si scopre un quotidiano terra terra, che non ha nulla di mistico, che è molto concreto, che a tratti può apparire meschino......
.....Stare in clausura significa andare al cuore dell’esperienza cristiana, ridotta all’essenziale: l’esperienza della salvezza donataci da Dio – esperienza che ha nome conversione, mendicanza e rendimento di grazie – e l’esperienza della fraternità che attorno a Lui nasce – rimanete nel mio amore. Non c’è altro, non c’è davvero altro, perché questo basta, perché Dio solo basta.....
Vivere in un quotidiano spoglio e senza svaghi con addosso gli scandali della Chiesa e degli uomini. Vivere la maternità «nel modo che Dio vuole da noi». Scrivono le trappiste di Vitorchiano
...Non si viene in clausura a cercare un luogo quieto, appagante, a cercare il proprio benessere spirituale. No. Si viene e si rimane perché bisognose di salvezza, di senso per la propria vita, di amore, di perdono. E più si conosce la propria povertà e il dono della salvezza del Signore, più si desidera che questo dono raggiunga ogni uomo, ogni fratello in umanità. Stare in clausura non ci allontana dai problemi che affliggono il mondo, anzi, ce li fa percepire come nostri, come una responsabilità. Guardare con gli occhi della fede, a partire dalla propria debolezza, il dolore che c’è nel mondo ci fa intuire il nesso tra questo e il mistero della Croce di Cristo e ci introduce in una dimensione di offerta, di domanda, di intercessione che ci rende capaci, nostro malgrado, di abbracciare il mondo, che fisicamente è fuori di qui, ma che pulsa dentro di noi e che vive nel cuore di Cristo......
TEMPI 11 Maggio 2010
di Le suore di Vitorchiano
Silenzio, lavoro umile e manuale, preghiera liturgica e personale, canto corale, studio della Parola di Dio, vita fraterna molto stretta, questi i tratti fondamentali della nostra vita di monache di clausura. Niente di eclatante.
Un quotidiano semplice, ripetitivo, che si descrive in poche parole. Un quotidiano spoglio, che non offre svaghi e distrazioni: tutto è ridotto all’essenziale e tutto riconduce all’essenziale: al significato di ogni gesto, all’intenzione che ci muove e che va sempre purificata, all’esperienza di essere amate così come siamo, povere, incoerenti, deboli ed egoiste, ma conquistate da Qualcuno che è più grande e che, giorno dopo giorno, vince le nostre debolezze, prendendole su di Sé.
Non è un’opera nostra o una nostra scelta l’essere in clausura. Si viene perché ci si sente chiamate da un Altro che, a volte, chiamandoci, ci scombina la vita. Si viene perché s’intuisce la profonda e pura bellezza che si cela dietro le grate del monastero. Si viene perché si subisce un fascino, come quando ci si innamora. E poi si varca la soglia, si passa dall’altra parte della grata, e si scopre un quotidiano terra terra, che non ha nulla di mistico, che è molto concreto, che a tratti può apparire meschino.
Ma poi proprio lì, dentro quattro mura, in una realtà che non offre appigli né compensazioni, si scopre che Dio è tutto e che è Lui che fa tutto, che non ha bisogno di noi, ma siamo noi che abbiamo bisogno di Lui, solo di Lui, e Lui basta. Certo, questo richiede un lento e paziente cammino di conoscenza di sé, di conversione, di obbedienza; un cammino che concretamente si attua nella consegna filiale di sé ad una superiora e in un coinvolgimento con tutte le consorelle, che divengono vere sorelle in forza di una scelta del Signore che – senza chiederci se eravamo d’accordo – ci ha chiamate in uno stesso luogo e ci ha messe insieme, e poi anche in forza di una reciprocità dell’amicizia che sgorga da uno sguardo di fede su di sé e sulle altre, di chi si sa bisognosa dell’amore e del perdono del prossimo ed è contenta di poter a sua volta sorreggere, aiutare, compatire.Stare in clausura significa andare al cuore dell’esperienza cristiana, ridotta all’essenziale: l’esperienza della salvezza donataci da Dio – esperienza che ha nome conversione, mendicanza e rendimento di grazie – e l’esperienza della fraternità che attorno a Lui nasce – rimanete nel mio amore. Non c’è altro, non c’è davvero altro, perché questo basta, perché Dio solo basta.Dio ci ha chiamate in clausura per proclamare questa semplice verità, per proclamarla con la vita e non a parole. Questa è la nostra profezia. Solo Dio basta e solo Lui ci salva, ci ama fino a prendere su di sé i nostri peccati, fino a far risplendere la sua luce nelle tenebre della nostra malvagità. Un bell’inno che cantiamo in questo tempo di Pasqua dice:
La luce che in Te dissipa le tenebre
l’origine dei secoli precede
e dona trasparenza ad ogni cosa
in sé rinnova tutto l’universo
Non finiremo mai di capire la profondità di questo mistero, del mistero della luce di Dio, da cui tutto proviene – che è Luce da Luce nella reciprocità dell’amore trinitario – e che ci crea, dal nulla, cioè ci crea per amore. Nasciamo dal cuore di Dio, senz’altro motivo d’essere che la sua misericordia, il suo infinito amore. Chi può capire? Ed è proprio questa luce a donare trasparenza ad ogni cosa: a rendere trasparenti ai nostri occhi tutte le cose. Trasparenti, ovvero segno del Mistero che le ha fatte e strumento della Sua Verità. Cosicché noi le possiamo conoscere, possiamo cioè intuirne il senso e il destino; in una parola: possiamo amarle. E, amandole, possiamo collaborare con Dio al compiersi del Suo disegno sulle cose, sul mondo, sulle persone; possiamo collaborare alla sua opera che tutti ci rinnova, ci rende nuovi, ci fa rinascere, ci fa ricominciare da capo ogni momento, se ci apriamo a Lui, alla sua luce, alla sua verità, al suo amore e al suo perdono.
La pretesa di collaborare con Lui
È una grande pretesa la nostra: collaborare con Dio al compiersi del Suo disegno sulle cose. Ma è così. Non si viene in clausura a cercare un luogo quieto, appagante, a cercare il proprio benessere spirituale. No. Si viene e si rimane perché bisognose di salvezza, di senso per la propria vita, di amore, di perdono. E più si conosce la propria povertà e il dono della salvezza del Signore, più si desidera che questo dono raggiunga ogni uomo, ogni fratello in umanità. Stare in clausura non ci allontana dai problemi che affliggono il mondo, anzi, ce li fa percepire come nostri, come una responsabilità. Guardare con gli occhi della fede, a partire dalla propria debolezza, il dolore che c’è nel mondo ci fa intuire il nesso tra questo e il mistero della Croce di Cristo e ci introduce in una dimensione di offerta, di domanda, di intercessione che ci rende capaci, nostro malgrado, di abbracciare il mondo, che fisicamente è fuori di qui, ma che pulsa dentro di noi e che vive nel cuore di Cristo. Che dire infatti oggi della sofferenza che affligge la Chiesa, là dove è perseguitata, o dell’ostilità verso la persona del Santo Padre, o del male che opprime tanti innocenti e infanga anche la Santa Chiesa nelle sue membra? Tutto questo grava sui nostri cuori, ci rende gravide d’implorazione, di mendicanza, di offerta. Assieme al nostro personale peccato ci urge il compito di offrire a Dio anche tutta la debolezza dei nostri fratelli, perché tutti Egli ci risani. Accogliere in noi questo peso, così simile, così vicino al nostro, questa è la nostra maternità, il compimento del nostro essere donne: non si è donne se non si è madri, nel modo che Dio vuole da ognuna di noi.
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