.....In quel luminoso istante si aprirono gli occhi della mia anima e mi resi conto che il mio ragazzo malato, e anche quello precedente, erano Gesù. Che Gesù non mi aveva mai abbandonato, non mi aveva mai lasciato sola. Che Lui si era fatto infermo per farsi incontrare e saziare la mia sete. Sentivo l’irrefrenabile urgenza di recuperare quell’idea che avevo avuto a 13 anni e di cominciare a vivere fino in fondo quella poesia scritta in così tenera età: “Signore, che sarebbe la mia vita senza di te?”. Divisa tra due amori, quello per il mio ragazzo e Cristo, mi vidi avvolta in un momento terribilmente combattuto: ero innamorata di un uomo, ma più innamorata di Cristo. Però Cristo vinse e, facendomi innamorare ancora di più, mi liberò, col suo Spirito mi rese forte e mi spinse a fare i primi passi, di vittoria in vittoria. Solo Lui poteva colmarmi, solo Lui poteva rendermi pienamente felice.......
Il male di vivere dei due fidanzati. Poi il suo. Come un incontro ha ricomposto le tessere di una vocazione perduta
di Sonia Marìa de la Cruz
Tempi 18 maggio 2010
Questa è la storia di un’anima che, sedotta da Dio, si lasciò sedurre e che, pur sentendosi immensamente piccola, fu avvicinata dal suo amore e davanti a tale fascino si arrese alle sue braccia, per essere tutta e solamente sua, e vivere unicamente in Lui e per Lui. Questa storia d’amore passa tra mari di sangue, fiumi di dolore e ghirlande di sofferenza. Dio ha scelto un sentiero molto stretto per attrarmi al suo cuore.
Da bambina entrai in un collegio di religiose e a 13 anni sentii dentro di me il desiderio di consacrarmi. Sognavo un “amore” che potesse rapire tutta la mia vita, a cui potermi dedicare completamente, senza esserne solo una parte. Finivo sempre per leggere le poesie di santa Teresa di Gesù, specialmente quella che si intitola “Felice è il cuore innamorato”. Piena di vergogna, mi domandavo: «Ma sarà possibile che qualcuno possa innamorarsi tanto di Dio?». Cercando l’amore della mia vita mi allontanai per altre direzioni e l’amore umano, con tutto il suo splendore, catturò il mio cuore. Mi fidanzai con un ragazzo che soffriva di depressione e, tre anni più tardi, terminati gli studi di architettura, piena di progetti professionali e matrimoniali, con un altro ragazzo, anche lui depresso. Un giorno, prima di partire per un viaggio, mi lasciò un libro di Madre Teresa di Calcutta su cui trovai la frase evangelica: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato. In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt, 25,40). Questo è stato il preciso momento in cui si è “risvegliata la mia vocazione”, per tanto tempo addormentata e rimpiazzata da altri sogni.
In quel luminoso istante si aprirono gli occhi della mia anima e mi resi conto che il mio ragazzo malato, e anche quello precedente, erano Gesù. Che Gesù non mi aveva mai abbandonato, non mi aveva mai lasciato sola. Che Lui si era fatto infermo per farsi incontrare e saziare la mia sete. Sentivo l’irrefrenabile urgenza di recuperare quell’idea che avevo avuto a 13 anni e di cominciare a vivere fino in fondo quella poesia scritta in così tenera età: “Signore, che sarebbe la mia vita senza di te?”. Divisa tra due amori, quello per il mio ragazzo e Cristo, mi vidi avvolta in un momento terribilmente combattuto: ero innamorata di un uomo, ma più innamorata di Cristo. Però Cristo vinse e, facendomi innamorare ancora di più, mi liberò, col suo Spirito mi rese forte e mi spinse a fare i primi passi, di vittoria in vittoria. Solo Lui poteva colmarmi, solo Lui poteva rendermi pienamente felice.
Provvidenzialmente trovai le carmelitane, ritrovai santa Teresa di Gesù, la santa della mia infanzia e della mia gioventù, presi l’abito e decisi di adottare, come “nome spirituale”, quello di Marìa de la Cruz. Dopo sette anni di dedizione entusiasta, tornò a incombere su di me la croce e caddi in un esaurimento nervoso, che derivava da una lieve depressione. Mi diedero alcuni mesi di riposo presso la casa dei miei genitori. Quanto fu duro quel periodo! Stare nel mondo, senza essere del mondo. Furono mari di sangue che dopo due mesi, con un incontro straordinario, tornarono a essere mari di luce. Era un pomeriggio di domenica, verso metà marzo, quando mi recai a Messa nella parrocchia di san Rafael. Ero con mia madre, fu lei, indicandolo, a dirmi: «Quello è padre Aldo». Quando stavo per tornare a casa, padre Aldo mi fermò e mi domandò di quale congregazione fossi. Gli raccontai tutto. Mi disse che anche lui aveva sofferto di depressione e che gli erano occorsi cinque anni per riprendersi. «Guarda cosa fa Dio con i depressi!», esclamò. Non ho parole per esprimere il sollievo che la mia anima e il mio corpo provarono in quel momento. Avevo trovato un Simone di Cirene che aveva alleggerito la mia croce e risvegliato la mia speranza nel Signore, che sapeva ordire meraviglie «con strumenti insufficienti», come disse di se stesso Benedetto XVI. Gli domandai quando avrei potuto visitare la clinica. Mi rispose: «Adesso».
L’animale che morì da re
Entrammo e la percorremmo sala per sala. Baciava e abbracciava tutti i malati. Di uno mi disse: «Ha vissuto come un animale, ma muore come un re». Visitammo la Casita de Belén e dovevate vedere come giocava con i bambini, li riempiva di baci, li abbracciava, li metteva in spalla, con una allegria così contagiosa che era come un bambino in più. Mi invitò a passare il mio tempo nella clinica, seguendo i malati. Un pomeriggio, una delle infermiere mi chiese di cambiare il pannolino a Cristinita, una bambina di un anno e pochi mesi, malata di idrocefalia. Appena finii, mi fermai a guardarla. E mentre le accarezzavo le guance sentii che il mio cuore si dilatava, si ampliava e si colmava di una tenerezza e di un amore grande. Iniziai a vederla come parte di me, come un pezzetto del mio essere, con la stessa familiarità che si prova con qualcuno che ti appartiene. La stessa cosa la sperimentai con tutti gli altri malati. Da quel giorno, tengo quella bambina come la “mamà” che custodisce e si prende cura dei miei passi nel compimento della volontà di Dio.
Dopo tre mesi, sostenuta dalla mia superiora, dal direttore spirituale e dalle sorelle, ho intrepreso un cammino “in mare aperto”. Ricordo che un sacerdote mi domandò: «Cos’è che ti spinge a lasciare le carmelitane per andare ad abbracciare quei corpi sofferenti?». «Soltanto Dio», risposi. Soltanto Dio è il motivo primo e ultimo di tutti i miei gesti, e solo Dio può fare queste meravigliose pazzie, scomponendo e ricomponendo i pezzi della mia vita. I miei giorni nella clinica trascorrono pieni di amore. Tutto nasce dal mio Tutto che è Cristo, lo Sposo del mio cuore. Per riuscire ad avere e conservare il cuore “vergine”, indiviso e intero per Dio, tutto sta nel lasciarsi innamorare. La verginità, come dice padre Aldo, è l’unica fonte di gratuità totale, che ti spinge a ripetere senza mai stancarti: «Io sono Tu che mi fai». Tu mi fai e mi costruisci passo dopo passo, come in un’alba continua.
Nessun commento:
Posta un commento