domenica 5 dicembre 2010

PARLANO I CRISTIANI SOPRAVVISSUTI

.......A un certo punto, solo una signora di mezz’età gravemente ferita può permettersi di parlare con loro senza essere falciata all’istante: «Per favore, uccidetemi», implora la donna. «Sto soffrendo troppo, datemi il colpo di grazia!». «No, sporca cristiana!», le risponde il capo del commando. «Devi soffrire fino alla fine in questa vita e poi dopo, quando ti ritroverai all’inferno!». A un certo punto su ordine del loro capo i terroristi cominciano ad accanirsi sulla croce, per distruggerla e svellerla dalla parete dove è incastonata dietro all’altare. Le croci delle chiese caldee e siriache non portano il corpo di Gesù inchiodato al legno. Sono croci vuote, a simboleggiare la resurrezione di Cristo dopo il suo sacrificio. La donna morente protesta con le forze che le sono rimaste: «No, cosa fate!», dice con voce soffocata. «Non distruggete la Croce della nostra salvezza, è la Croce che ci salva tutti!». «Taci, donna! Tu devi soffrire e morire!». «Lasciate stare la croce!». «Bada, faccio esplodere la mia cintura», minaccia Hussein. «Fallo», lo sfida la signora. Poco dopo smetterà di parlare.......


di Rodolfo Casadei
tempi 30 novembre 2010
I terroristi che irrompono in chiesa, massacrano donne e bambini prima di farsi esplodere. I racconti dall’inferno degli scampati alla strage di Baghdad, ora in cura in Italia. «Non torneranno in Iraq»




Adam Audai Zuhaid Arab è il nome del bambino di tre anni che ha gridato più e più volte “basta!” mentre i terroristi insanguinavano e devastavano la chiesa di Nostra Signora della Salvezza a Baghdad. Ha urlato per un’ora di seguito, da sotto il corpo di suo padre che si era adagiato su di lui per proteggerlo e che stava morendo per le ferite subite all’inizio dell’assalto. Sua madre Miriam – questo e i nomi che leggerete da questo momento in poi, tranne quello del papà di Adam e dei sacerdoti di Nostra Signora della Salvezza, sono immaginari per non mettere in pericolo la vita dei sopravvissuti – era sdraiata a pochi passi da lui, come tutti i fedeli che non erano riusciti a rifugiarsi e barricarsi nella sacrestia si fingeva morta ma nello stesso tempo premeva una mano contro la coscia di Nairi, l’altra sua figlia di un anno che piangeva disperata, ferita da un proiettile e da schegge che le avevano fratturato il femore.
Era lì, più impotente di Maria sotto alla croce. Se si fosse mossa, sarebbe stata falciata dalle armi automatiche dei terroristi, come era accaduto a decine di uomini, donne e bambini nei minuti precedenti. Miriam non può confermare se Adam è stato ucciso perché non taceva o per ferite dovute alle pallottole che rimbalzavano ovunque a ogni raffica che i terroristi invasati esplodevano a capriccio. Ricorda bene l’aggressore che si era chinato sul suo bambino a rimbrottarlo, scimmiottando un severo fratello maggiore: «Taci una buona volta, non vedi la mia arma, vuoi che ti ammazziamo come gli altri?». Ricorda anche Hussein, il capo dei terroristi ferito sin dall’inizio e seduto non lontano da lei, che dava ai suoi uomini l’ordine di finire quell’uomo scosso dagli spasmi che altri non era che suo marito. Ma il momento preciso dell’addio alla vita dei suoi due cari Miriam non sa dirlo. Ricorda solo che a un certo punto la voce spaventata del suo bambino non si è sentita più. E adesso Adam è un faccino serio con una gran testa di riccioli mori sopra un rettangoletto di legno che mamma porta appeso ad un risvolto del suo giacchetto, nero come tutti i capi d’abbigliamento che ora indossa; alla sua sinistra c’è anche il volto un po’ sfuocato di papà Audai. Nairi invece è qui con mamma, vestita di bianco e di rosa si guarda attorno e sorride anche agli estranei. L’unica traccia che l’orrore ha lasciato su di lei è la medicazione nella parte superiore della coscia destra.
Dal 12 novembre Miriam e Nairi sono ospiti, insieme ad altri 24 feriti dell’assalto alla chiesa di Baghdad e a una ventina di accompagnatori, del Policlinico Gemelli di Roma e del governo italiano. Un’altra trentina sono stati ricoverati a Parigi.
Sono i sopravvissuti della serata di terrore del 31 ottobre scorso, che ha fatto 57 morti, dei quali 45 cristiani. Delle necessità pratiche e spirituali dei cristiani iracheni ricoverati a Roma si è occupato, fino al 26 novembre, un giovane sacerdote siro-cattolico che era da qualche anno in Italia per studiare: padre Aysar Saeed. Fino al 2005 è stato uno dei coadiutori della parrocchia di Nostra Signora della Salvezza. Era lì quando, nell’agosto del 2004, i terroristi fecero esplodere un’autobomba contro quella e altre cinque chiese di Baghdad: «Uccise un passante musulmano e ferì leggermente molti fedeli colpiti dai vetri in frantumi. Gli autori dell’assalto del 31 ottobre hanno messo la loro autobomba, che hanno fatto esplodere con un telecomando nel momento in cui hanno fatto irruzione in chiesa, esattamente nello stesso punto in cui la precedente era stata collocata sei anni fa».
Padre Aysar conosceva bene i due sacerdoti trucidati durante l’assalto e l’anziano vicario episcopale Rufail Qutaimi che, pur ferito dalle schegge di una granata, è scampato e ora è ricoverato a Parigi assieme ad altri 35 sopravvissuti. Padre Thair Sad-alla Abdal, che presiedeva la Messa, dopo aver esortato i fedeli delle prime file a rifugiarsi in sacrestia, mentre tutti cercavano riparo dietro le panche o addossandosi alle pareti si è diretto verso gli assalitori che erano entrati sparando per calmarli. Gli hanno tirato addosso da distanza ravvicinata. È caduto sulle ginocchia portandosi le mani al petto, e prima di scivolare morto a terra ha pronunciato le stesse parole di Gesù sulla croce del Vangelo di Luca: «Nelle tue mani, Signore, affido il mio spirito». Padre Waseem Sabeeh Alkas Butros, invece, faceva da scudo col suo corpo ai chierichetti che si erano accucciati sotto l’ambone. I terroristi l’hanno preso e trascinato di qualche passo, mentre i ragazzi scappavano in tutte le direzioni, quindi l’hanno mitragliato sotto gli occhi di sua madre già ferita.

In beffa alla sicurezza
«Prima di entrare in chiesa i terroristi hanno ingaggiato un conflitto a fuoco con le guardie poste a protezione dell’edificio della Borsa», racconta padre Aysar. «Poi hanno scavalcato il muro di cinta attorno alla chiesa e hanno preso alle spalle i custodi armati che stavano all’ingresso principale. Uno di loro ferito si è fatto esplodere azionando il suo giubbotto kamikaze. Gli altri cinque o sei hanno fatto irruzione in chiesa dopo aver sparato sui fedeli che tentavano di uscire». Da qui in avanti la ricostruzione degli eventi la fanno i sopravvissuti, compresa la mamma di Adam. «Sparavano e gridavano: “sporchi cristiani, noi andremo in paradiso e voi all’inferno! Allah è grande! Siete dei miscredenti e andrete all’inferno!”», racconta Yussef. La parola araba che usavano per insultare i cristiani era “wasekh”, che è molto più spregiativa di quella che di solito viene impiegata per definire i cristiani “impuri”: “wasekh” si usa per indicare sporcizia morale e fisica nello stesso tempo.
I terroristi entrano sparando ad altezza d’uomo; cercano i sacerdoti, e i due su tre che trovano subito li uccidono seduta stante. Gridano ai fedeli terrorizzati di sdraiarsi a terra e restare immobili. Il minimo movimento o lamento diventa un pretesto per sparare sulle persone a terra con l’intenzione di ucciderle. Lo stesso accade agli adulti che non riescono a far tacere i bambini che gridano per la paura. C’è una coppia con una bambina di appena tre mesi in braccio alla madre. Il bebè piange disperatamente. I terroristi inveiscono. Il padre risponde che non è possibile calmare la bambina: viene falciato a colpi di mitra insieme alla giovane moglie, a suo padre e al neonato, resta viva ma ferita solo una sorella del giovane. Un altro uomo, colpito da un proiettile, emette un lamento di dolore e da terra grida: «Viva la croce!». Più assalitori puntano le armi verso di lui e lo crivellano di colpi mentre grida ancora: «Viva la croce!».
Un giovane si carica una ragazza ferita al collo sulla schiena e cerca di trascinarla verso la porta d’ingresso alla sacrestia. Un terrorista vede la scena e lancia una granata verso la coppia. Investiti dalle schegge alla schiena, i due cadono a terra come morti sul colpo, ma solo la ragazza è spirata. Firas, un dolore tremendo al dorso e ad un polpaccio investiti dai frammenti della bomba, è ancora vivo e si trascina carponi fino a un muro vicino all’altare dove si nasconde sotto a un cadavere. Per tre ore quello sarà il suo riparo. Lo sposta impercettibilmente usandolo come uno scudo per avvicinarsi alla porta della sacrestia. Riuscirà a farsi aprire dopo molte insistenze e a scivolare dentro. «I terroristi non erano tutti iracheni», racconta. «Uno era sicuramente egiziano e un altro era siriano. C’era un ragazzino che non poteva avere più di 15 anni, ma anche gli altri erano molto giovani: 20-25 anni, non di più. Un paio di loro indossavano divise della polizia. Dicevano: “In questo paese resteranno solo i musulmani!”. E poi: “Tutte le chiese verranno colpite come questa!”».
Quindi i terroristi salgono in piedi sull’altare e su altri oggetti per controllare la situazione da una posizione elevata. Scaricano le armi contro i lampadari, contro le ventole dell’aria condizionata, contro le formelle della Via Crucis, contro la grande croce incastonata alla parete dietro all’altare. Ma anche sulle persone sdraiate a terra che non sono perfettamente immobili. A un certo punto, solo una signora di mezz’età gravemente ferita può permettersi di parlare con loro senza essere falciata all’istante: «Per favore, uccidetemi», implora la donna. «Sto soffrendo troppo, datemi il colpo di grazia!». «No, sporca cristiana!», le risponde il capo del commando. «Devi soffrire fino alla fine in questa vita e poi dopo, quando ti ritroverai all’inferno!». A un certo punto su ordine del loro capo i terroristi cominciano ad accanirsi sulla croce, per distruggerla e svellerla dalla parete dove è incastonata dietro all’altare. Le croci delle chiese caldee e siriache non portano il corpo di Gesù inchiodato al legno. Sono croci vuote, a simboleggiare la resurrezione di Cristo dopo il suo sacrificio. La donna morente protesta con le forze che le sono rimaste: «No, cosa fate!», dice con voce soffocata. «Non distruggete la Croce della nostra salvezza, è la Croce che ci salva tutti!». «Taci, donna! Tu devi soffrire e morire!». «Lasciate stare la croce!». «Bada, faccio esplodere la mia cintura», minaccia Hussein. «Fallo», lo sfida la signora. Poco dopo smetterà di parlare.In contatto con l’esterno
I terroristi hanno una ricetrasmittente e la usano per parlare con l’esterno. «Tutto procede come previsto, sta andando proprio come volevamo», comunicano a un misterioso interlocutore. Poco dopo però cominciano a dire fra di loro: «C’è un altro prete, dobbiamo trovarlo e ammazzarlo». Cercano di forzare la porta della sacrestia convinti di trovarlo lì, ma la sessantina di persone che ha trovato riparo in quel locale senza vie di fuga (c’è un portone che dà sull’esterno, ma è sbarrato da fuori) ha collocato armadi e panche dietro la porta. Gli sforzi per passare sono vani, anche perché gli assalitori non possono sguarnire le altre zone della chiesa per concentrarsi davanti alla sacrestia. Allora cominciano a usare le granate. Riescono a gettarne un paio dentro al locale, causando feriti sia gravi che leggeri. Ma il passaggio resta loro interdetto.
In certi momenti addirittura scherzano fra di loro: «Hussein, che facciamo? Dobbiamo detonare le cinture?». «Aspetta, che fretta c’è? Abbiamo ancora tempo». Il capo si preoccupa che i suoi uomini recitino le ultime due delle cinque preghiere canoniche islamiche: quella del tramonto e quella che si recita un’ora e mezza dopo il tramonto. Dopo quest’ultima lo stato d’animo di Hussein cambia improvvisamente. «Perdonatemi», dice guardando in direzione dei morti, dei feriti e dei bambini piangenti. «Perdonatemi!», ripete due-tre volte con voce sempre più triste. Con fatica per l’aggravarsi della ferita con cui era entrato nella chiesa si trascina verso l’uscita. Miriam solleva leggermente la testa da terra per vedere cosa stia facendo. «Si è accorto del mio movimento e del fatto che ero ancora viva», racconta. «Ma ha continuato a trascinarsi faticosamente lontano da me. Poco dopo c’è stata l’esplosione. È stato orribile, per lo spostamento d’aria i nostri corpi si sono sollevati da terra. Pezzi di carne sono volati dappertutto. Vicino a me un suo braccio, vicino a mia sorella la testa».
In rapida sequenza i terroristi si fanno esplodere. Finalmente i soldati, che erano rimasti fino ad allora all’esterno senza prendere iniziative, entrano nell’edificio. Ignorano i feriti che chiedono aiuto e si mettono a cercare armi e terroristi ancora in vita. Medici e infermieri non osano entrare, e finisce che i feriti si aiutano fra loro trascinandosi fino alle ambulanze. Miriam porta fuori la figlioletta che continua a perdere sangue, scivola sui lacerti umani dei terroristi che si sono fatti esplodere. Torna dentro per soccorrere Adam e Audai, ma la vita li ha abbandonati.
Padre Aysar prende fiato. Ha tradotto per due ore di seguito. Però quella che lo opprime non è solo la stanchezza dell’aver a lungo parlato. «Hanno ucciso due sacerdoti che erano la sintesi perfetta della nostra Chiesa» dice con enfasi. «Padre Thair era conosciutissimo per le sue opere di carità, non faceva differenze fra cristiani e musulmani quando si trattava di aiutare i poveri. Padre Waseem era un educatore e un intellettuale, seguiva i giovani e dirigeva l’istituto di patristica. Mi hanno raccontato che quel giorno molti amici avevano ricevuto un sms spedito da lui la mattina. C’era scritto: “Cristo è la mia vita”. Come se avesse il presentimento di qualcosa”». Ora padre Aysar deve organizzare gli spostamenti del pomeriggio: i sopravvissuti e i loro parenti saranno ospiti del Papa, che celebrerà per loro una Messa. «Non credo che torneranno in Iraq», dice abbassando la testa. «Con loro i terroristi hanno raggiunto l’obiettivo anche se non li hanno uccisi». Invece lui torna. Un aereo per Baghdad lo aspetta all’indomani. Nostra Signora della Salvezza ha bisogno di un nuovo parroco. Padre Aysar Saeed, 35 anni.





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