domenica 19 dicembre 2010

COME VIVONO I "MATTI" IN FRIULI

....«Ognuno ha la sua storia – chiarisce – perciò i percorsi non sono standardizzati. Chiaro, sarebbe più comodo chiuderli tutti in una comunità, ma se lo facessi non sarei fedele alla storia che ha fatto crescere la mia personalità: io stesso sono stato salvato da qualcuno che ha scommesso su di me tenendo conto della mia storia». Bertoli ricorda don Luigi Giussani, il sacerdote lombardo fondatore di Comunione e liberazione. «Mi ha cambiato la vita perché mi ha fatto sentire perdonato»......


.....«È possibile sostenere tutto questo solo se non si è soli, perciò non c’è paziente o progetto che io segua da me». «E poi insieme ci si diverte pure»,.......
.....I matti sono persone, e in quanto tali hanno bisogno delle stesse cose di cui hanno bisogno tutti. In primo luogo, appunto, di essere trattati da uomini......
È uno degli otto coltivatori “normali” che seguono l’attività dei diciassette “speciali”. Braccia possenti, barba e capelli bianchi, due occhi mansueti d’un azzurro chiarissimo. Per lui lavorare qui «è come stare tutto il giorno di fronte a uno specchio che ti rinfaccia quel che sei. I miei dolori, il mio disagio, i miei bisogni qui li posso guardare. Magari in me si manifestano in modo diverso, ma in fondo sono gli stessi di questi malati, e il fatto che loro non li censurino rende possibile condividerli con gran libertà. Per il resto è un lavoro come un altro».
Da Tempi del 13 aprile 2010

di Benedetta Frigerio
«La… la follia, eh c’è quella lì. Io, io sono… preso, stato preso in tempo». Vittorio ha 56 anni, è affetto da schizofrenia da un tempo incalcolabile. Pare un gigante forzuto dallo sguardo che viene e va, come a intermittenza, nascosto dietro lunghi baffi e barba scura. La sua vita la racconta per flash disordinati, quel che gli è accaduto si può solo tentare di ricostruirlo a grandi linee. «In manicomio, manicomio. Lì terribile era. Adesso ho una casa. Come i militari viviamo. Lavare. Poi preghiera faccio. Preghi per me ché quello che non è possibile agli uomini, a Dio, a quello sì che è possibile». Folli li chiamano quelli come Vittorio.

Quelli che la realtà la vedono distorta, o forse percepiscono cose che i cosiddetti normodotati non riescono a vedere. Ma qual è il limite che separa le due dimensioni? «Difficile stabilire una soglia. È sicuro, però, che lo squilibrio causa grande sofferenza», spiega Marco Bertoli, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl di Palmanova (Udine). È proprio qui che Tempi è venuto a trovare questo psichiatra. Nella Bassa friulana, la terra di adozione di Franco Basaglia e della legge che nel 1978 svuotò i manicomi. Da trent’anni qui i malati mentali vivono nelle case e girano per le strade della gente normale. Tanto che oggi la rivoluzione di Basaglia «fa parte della stoffa di questa regione, fiorita dal lavoro dei contadini e cresciuta nella tradizione solidale e cooperativa cattolica», sottolinea Bertoli, uomo dai modi schietti e asciutti che da tempo ha imparato a “sfruttare” la capacità di accoglienza della sua gente.«I matti sono persone, e in quanto tali hanno bisogno delle stesse cose di cui hanno bisogno tutti. In primo luogo, appunto, di essere trattati da uomini. Perciò li seguo uno a uno, senza progetti standardizzati. Solo così si può fare qualcosa per sé, per i malati e per la popolazione della Bassa». Coniugando questa intuizione con l’operosità delle tante cooperative sociali private sorte nel territorio, Bertoli ha messo i malati al centro della vita di questi paesi, coinvolgendo trentadue comuni della Bassa friulana e venticinque dell’Isontino, quattordici cooperative, una polisportiva e diverse attività di servizio alla persona associate all’Asl.

Non si fa nulla se non è produttivo
Nella “casa dei ragazzi” di San Giorgio di Nogaro vivono Marco, Nicolay, Luca e Daniele, tutti affetti da patologie mentali. Ora, però, a parte Vittorio che aspetta gli altri per il pranzo, non c’è nessuno. Alcuni sono al piano di sotto, all’osteria “Ost Nojar”, dove fanno i cuochi o servono il pasto ai lavoratori della zona. Altri sono nei campi dell’azienda agricola di Novacco. È qui che ci porta Bertoli. «Buongiorno», salutano. «Buongiorno, come andiamo?», chiede il dottore a Giovanni, che ciondola con la testa bassa sopra due spalle troppo grandi e rese ancora più larghe dal lavoro all’aria aperta. «Vede quello laggiù? È un gran lavoratore. Matto completo, ma un gran lavoratore», ride Bertoli passeggiando tra i recinti pieni di maiali, galline e capre. «Là confezioniamo i prodotti della terra e li rivendiamo, permettendo un’adeguata economia di scala. Qui non si fa nulla se non è produttivo». Più avanti, oltre il lago dove si allevano le trote, c’è una lunga distesa bruna dove un gruppo di persone sta curvo su una striscia di terra vangata, da cui sbucano fili verdi sottili. Qualcuno zappa, altri raccolgono divertiti i frutti della semina. «Francesco, vieni!», urla Bertoli. Francesco raggiunge il dottore asciugandosi la fronte col braccio. È uno degli otto coltivatori “normali” che seguono l’attività dei diciassette “speciali”. Braccia possenti, barba e capelli bianchi, due occhi mansueti d’un azzurro chiarissimo. Per lui lavorare qui «è come stare tutto il giorno di fronte a uno specchio che ti rinfaccia quel che sei. I miei dolori, il mio disagio, i miei bisogni qui li posso guardare. Magari in me si manifestano in modo diverso, ma in fondo sono gli stessi di questi malati, e il fatto che loro non li censurino rende possibile condividerli con gran libertà. Per il resto è un lavoro come un altro».A San Vito al Torre c’è una casa con una porta di legno bianca. È la “comunità delle donne”. Bertoli suona il campanello. Un profumo buonissimo esce dalla cucina, dove una signora, concentrata sui fornelli, fa un cenno di saluto con la mano. Nel tinello, invece, c’è un’altra donna che dorme su una poltrona. Altre due, sedute sul divano, alla vista dello psichiatra scattano in piedi. «Dottore, dottore, ciao! Uh, che roba il dottore!», urla Luciana, mentre l’amica sorride mostrando le gengive da cui pendono i pochi denti rimasti. «Allora? Come va ragazze?», chiede Bertoli. «Bene, sa?», grida Luciana, che accoglie con applausi e schiamazzi l’ospite sconosciuto: «Di là, di là, venga di là che le mostro la casa. Sono contenti i persone che sei qui». Nel tour dell’appartamento, Bertoli incontra Cinzia e per dieci minuti la ascolta parlare a raffica. Cinzia biascica frasi che solo il dottore riesce a capire: «È preoccupata – spiega Bertoli – perché tra poco mi spostano all’Asl di Gorizia, dove abbiamo altri progetti in cantiere. È dal ’94 che seguo questo gruppetto di donne. Le portai qui quando fu chiuso l’ultimo manicomio. Alcune di loro avevano passato lì dentro più di vent’anni. Inizialmente gli abitanti le temevano, ma oggi da matte del paese sono diventate le nonne di San Vito».
Meglio di una medicina
Al piano di sopra c’è un ufficio dove alcuni ragazzi lavorano per la Provincia. Seduti davanti al computer, Francesca e Sergio fanno inserimento dati. «Sei svenuta ancora Francesca?», domanda Bertoli. «Dai dottore, sto bene!». Francesca è giovanissima, mora, ha labbra vermiglie e occhi chiari circondati da lentiggini. Si è appena laureata in Scienze della comunicazione e sta preparando il catalogo degli asili del territorio: «È per un servizio online alle famiglie». Sergio, invece, è ingegnere informatico e lavora per la Carta Famiglia. A incontrarli qui, si direbbe che sono due volontari. Ma non è così. «Francesca – spiega Bertoli – ha una grande sofferenza dentro, non si alzava nemmeno più dal letto e la famiglia non sapeva che fare. Le ho proposto di lavorare qui e si è spezzato il circolo, viene ogni giorno, è più serena e ha acquisito peso. Sergio poi è intelligentissimo. È segnato dalla malattia mentale, e di recente ha avuto una nuova crisi, ma si sta riprendendo bene».
Ancora qualche chilometro attraverso la campagna friulana e raggiungiamo Aiello, dove alla trattoria “Alla Posta” il dottor Bertoli incontra Marco Peronio, direttore del consorzio “Il Mosaico”. Intorno, i tavoli sono occupati dalla gente del posto e dai lavoratori delle cooperative. Anche qui sani e malati stanno insieme. Perfino nelle cucine. Una ragazza appena assunta dal consorzio serve prosciutto San Daniele, gnocchi di susini e altri piatti friulani accompagnati da vini tipici. Dice Peronio che «il consorzio è stato necessario per rendere ogni cooperativa più forte. Inoltre, il fatto di far lavorare insieme diversamente abili e normodotati senza che la legge ci costringa a farli controllare da medici o infermieri evita la medicalizzazione». E ci sarà un motivo se in Friuli, contrariamente a quanto accade nel resto d’Italia dove queste persone vivono nascoste in apposite comunità, i ricoveri di Tso (trattamento sanitario obbligatorio) sono praticamente inesistenti. «Se uno si sente male – aggiunge Bertoli – lo portiamo nel centro di salute mentale qualche giorno, poi è seguìto sempre da noi, sia quando torna al lavoro, sia a casa. È un percorso di vita unico, senza strappi. Non a caso il numero di ricoveri nei “manicomi criminali” in relazione alla popolazione qui è sette volte minore di quello della Lombardia».

Il progetto Mentecactus
Il suo strano approccio alla follia, più umano e insieme più efficace, Bertoli lo ha imparato dalla vita. Dei cento casi che segue, nessuno è uguale a un altro. «Ognuno ha la sua storia – chiarisce – perciò i percorsi non sono standardizzati. Chiaro, sarebbe più comodo chiuderli tutti in una comunità, ma se lo facessi non sarei fedele alla storia che ha fatto crescere la mia personalità: io stesso sono stato salvato da qualcuno che ha scommesso su di me tenendo conto della mia storia». Bertoli ricorda don Luigi Giussani, il sacerdote lombardo fondatore di Comunione e liberazione. «Mi ha cambiato la vita perché mi ha fatto sentire perdonato».Ma c’è una condizione, aggiunge lo psichiatra: «È possibile sostenere tutto questo solo se non si è soli, perciò non c’è paziente o progetto che io segua da me». «E poi insieme ci si diverte pure», chiosa Peronio pensando al progetto “Mentecactus” (vendita di piante grasse) o alle Aree Bambini aperte in alcuni supermercati, dove i malati si prendono cura dei piccoli mentre le mamme fanno la spesa. «C’è da ridere a vederli giocare, sono peggio dei ragazzini. Per non parlare del progetto “Diversamente Cavalli”: i matti che aiutano i Down a fare ippoterapia. Uno di loro viene ogni giorno solo per fare salire e scendere da cavallo un ragazzino. Non è mai mancato dal lavoro, e in generale non è che la costanza sia proprio il forte dei nostri malati».

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