di Paola Bergamini, martedì 1 maggio 2012
Tracce, maggio 2012
Adozione, affido, semplice ospitalità. Cosa c’è all’origine delle Famiglie per l’accoglienza? Dialogo con Alda Vanoni, presidente storica dell’associazione
Agli inizi degli anni Ottanta, Giuseppe Zola, consigliere comunale a Milano, chiede ad alcune famiglie, che per circostanze differenti avevano aperto le proprie case all’accoglienza, di aiutarlo nella preparazione di un regolamento per l’affido. Non c’era ancora una legge in materia e la proposta di revisione della legge è ancora di là da venire. Da questa contingenza storica nasce nel 1982 l’Associazione Famiglie per l’accoglienza, una rete di famiglie diffusa in Italia e in diversi Paesi del mondo. In questi trent’anni oltre 13.000 persone hanno trovato accoglienza. E oggi sono più di 4.000 le famiglie associate.
Ma forse i numeri non raccontano le storie, le esperienze di questi anni che hanno un solo punto sorgivo: «Di fronte all’inadeguatezza, i limiti nell’accogliere un altro l’unico fattore che regge è il tuo rapporto con il Signore», spiega Alda Vanoni, magistrato, già giudice del Tribunale per i minorenni di Milano, all’inizio di quest’opera e per molti anni presidente dell’associazione. «Il perché viene prima del come. Puoi fornire il servizio migliore, e questo noi cerchiamo di farlo attraverso ad esempio i mini corsi per l’adozione e per l’affido offrendo supporti specialistici, ma prima viene lo scopo».
Don Giussani fin dall’inizio è stato vicino a questa esperienza. «Ci ha condotto per mano. Nel rapporto con lui si è chiarita la funzione dell’Associazione: una compagnia intelligente che sempre rimanda all’origine, al fondamento. Era colpito e commosso dalla radicalità del gesto: portarsi a casa una persona con cui condividere la mensola del bagno o l’asciugamano riconduce a un’essenzialità. È un tu che viene a contatto diretto. La dimensione è quella di una totale gratuità. Che può essere per un periodo come per l’affido o definitivamente come per l’adozione». Non sempre facile, il rischio di possesso è alto. «Per questo è necessario arrivare alla radice». Come? «È possibile solo se si pensa alla paternità di Dio, che è padre tuo e dà la genitorialità su ogni figlio: in affido, in adozione o biologico. Ti sono dati. Nell’errore, nella fatica puoi dire: “Me l’hai dato, saprai Tu perché devo portarmi questa fatica. Aiutami”. Questa è stata la mia esperienza».
Ma non tutte le famiglie se la sentono di fare un gesto del genere. «Chiariamo. L’accoglienza dell’altro è alla base di ogni rapporto. La vocazione familiare richiede che io mi apra al marito, ai figli. Inoltre la dimensione dell’accoglienza non è solo l’affido o l’adozione. L’ospi talità anche di pochi giorni porta la stessa ricchezza, la stessa pienezza del cuore. A ognuno è chiesto di seguire la sua strada. La porta va lasciata aperta».
Nella lettera per l’Incontro mondiale delle Famiglie il cardinale Scola parla di «dono totale di sé»: come questo si gioca nell’accoglienza? «Innanzitutto dare sé non è istintivo, è una fatica, una ferita sempre aperta. Un gesto di accoglienza fa sperimentare concretamente cosa vuol dire “dono di sé”. Uno può far finta di dare tutto perché si sente bravo, ma di fronte al figlio che si ribella, allora in quel momento deve guardare al fondo di sé, a quello che desidera, al perché fa quel gesto. E che lo fa per il Signore». Non è facile testimoniare questo livello di consapevolezza. «È vero. Normalmente il mondo vede solo l’involucro esterno. Quante volte le nostre famiglie sono state etichettate come “brave”, persino “ben funzionanti nell’accoglienza” senza comprendere che ciò che regge è il Dio dal volto umano».
Paola Bergamini, Tracce, maggio 2012
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