lunedì 2 luglio 2007

AD ASSISI NON SI MARCERA' PIU' PER LA PACE,MA PER I DIRITTI.MAI NESSUNO CHE PARLI DI DOVERI


Tempi num.26 del 28/06/2007
A fuoco lento
di Risè Claudio Rise'

... «Denunziare e giudicare, mi fanno orrore egualmente. Forse c'è la smania di apparire puri, innocenti, senza macchia, immuni dagli errori e dai delitti. E qual modo migliore di apparire innocenti, che denunziare e giudicare colpevoli gli altri?».....

La marcia di Assisi non si chiamerà più "per la pace". Lo ha annunciato il coordinatore della manifestazione creata all'inizio degli anni Sessanta da Aldo Capitini, il teorico italiano della non violenza. Anche se le sinistre sono insorte contro questa «normalizzazione» di Assisi, si tratta probabilmente di una buona idea. La pace è naturalmente un sacrosanto obiettivo, tuttavia in questo rito, nato e cresciuto in ambiente cattolico, era da tempo difficile distinguere la pace interiore e profonda che nasce dall'incontro con Gesù Cristo dalla condizione politico-giuridica di assenza di guerra. Che in sé è vistosamente meno dolorosa del conflitto aperto, ma non ha nulla a che vedere con la pace di Cristo. Anzi, spesso viene utilizzata (per esempio da dittature spregiudicate), proprio per tenere lontani sia Cristo sia la pace profonda e reale di cui egli è portatore. Bene dunque che si rinunci a una denominazione usata spesso in modo strumentale per provare invece a «riscoprire il senso del termine pace», come ha detto il coordinatore della Tavola della Pace, Flavio Lotti.
A volte le parole più sacre della nostra civiltà vanno depurate delle scorie ideologiche che decenni di strumentalizzazioni vi hanno depositato sopra perché possano tornare a risplendere. Pace, però, non è purtroppo l'unica parola da usare con tremore e prudenza. Me lo ha ricordato il nuovo titolo dell'ex marcia della pace, che sarà "Tutti i diritti umani, per tutti". Se c'è un termine ancora più abusato e confusamente usato di "pace", questo è infatti "diritti", e "diritti umani". Cos'è che non funziona più, e da tempo, nelle grandinate di battaglie lanciate ogni giorno in nome dei diritti? Il fatto che non si menzioni mai l'altro aspetto della questione, quello che giustifica il diritto e garantisce che esso non si trasformi nell'isteria del capriccio e della prepotenza. Vale a dire tutto ciò che si riassume nel termine "dovere". Come diceva Simone Weil, parlare dei diritti dell'uomo senza ricordare i suoi doveri (anzitutto verso Dio) porta alla generalizzazione della forza e dell'arbitrio dei singoli e dei gruppi che di quei diritti si ritengono titolari, contro alle nozioni di responsabilità e di rispetto dell'altro, che impregnano invece un autentico tessuto comunitario. L'ascolto e l'accoglienza dell'altro sono scavalcati dalla pretesa del "diritto", fatto valere attraverso la forza imposta dalla legge.
Diceva la Weil dei due verbi cardine delle battaglie per i diritti umani: «Denunziare e giudicare, mi fanno orrore egualmente. Forse c'è la smania di apparire puri, innocenti, senza macchia, immuni dagli errori e dai delitti. E qual modo migliore di apparire innocenti, che denunziare e giudicare colpevoli gli altri?». Prepotenza, attacco alle maglie delicate del tessuto sociale e purismo virtuista: sono solo alcuni dei rischi che corre la richiesta sommaria di "tutti i diritti umani, per tutti", se dimentica di insegnare ciò che evita alla rivendicazione dei diritti di precipitare nel delirio di onnipotenza narcisistica, cioè il senso del dovere. L'edificio dei diritti umani diventa un ridicolo manicomio o un furbo totalitarismo neppure così nuovo se si dimentica di insistere sul primo diritto di ognuno di noi. Quello ad avere davanti qualcuno che ci insegni che abbiamo dei doveri.
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