venerdì 6 luglio 2007

GARIBALDI DIVIDE L'ITALIA


DIBATTITO
A duecento anni dalla nascita, si apre la polemica sull’eroe del nostro Risorgimento. Fu vera gloria? Parlano gli storici
AVVENIRE 3 LUGLIO 2007

Traniello:«Rappresenta il carattere degli italiani. Aveva un eccezionale carisma e anche una vena populista. Ma non scelse la carriera, così come fece Cincinnato» Galli della Loggia:«Era antipolitico, con i limiti di questa posizione. La popolarità è legata alla sua spontaneità. L’unità del Paese ci fu grazie alle sue vittorie» Pellicciari:«Il suo mito è stato costruito ad arte dalla Massoneria. Era anche lui accanito anticlericale. Ci sono fonti che riducono di molto i suoi meriti»Di Antonio Giuliano

Non c'è paese e borgo d'Italia che non gli abbia dedicato almeno una via, se non una piazza. La sua leggenda è richiamata in oltre cinquemila comuni. Un esercito cinque volte superiore a quello che lo seguì nella spedizione vittoriosa dell'unificazione italiana. Ma a duecento anni dalla nascita, Giuseppe Garibaldi rimane "l'uomo dei mille". Al pari dei prodi con la camicia rossa, sono mille (e forse più) gli aggettivi che sono stati appuntati all'illustre generale: forte, generoso, disinteressato, affascinante… Predominano i ritratti positivi per un uomo che ha saputo suscitare simpatie trasversali: a turno la sua memoria è stata rivendicata da nazionalisti, socialisti, fascisti, azionisti, marxisti… «Perché in fondo Garibaldi incarna abbastanza il carattere degli italiani - afferma Francesco Traniello, docente di storia contemporanea all'università di Torino - . Aveva un carisma eccezionale, un grande condottiero, ma forse la sua figura piace proprio perché non approfittò delle sue vittorie. Non ha fatto una carriera politica e la decisione di ritirarsi a Caprera ricorda grandi uomini del passato, come Cincinnato. Garibaldi guardava con distacco al potere, avversava il compromesso politico e in questo rappresenta un po' questa vena antipolitica odierna, anche populista se vogliamo. Poi per natura era poco paziente, abituato a confrontarsi nelle battaglie e non nelle arene politiche istituzionalizzate». Antipolitico è un termine che va di moda. Potrebbe essere l'ultimo aggettivo per il generale, a conferma della popolarità del personaggio. L'epiteto non dispiace a Ernesto Galli della Loggia, storico e opinionista: «Garibaldi era un antipolitico. Manifestava un aperto disprezzo verso lo scarto tra i desideri e la realtà che è tipico della politica, tra l'affermare dei progetti e poi non farli. Credo che questo sia uno dei motivi della popolarità di Garibaldi.
Anche se la sua antipolitica testimonia in maniera esemplare tutti i limiti di questo sentimento. Perché la politica intesa come arte del possibile, come capacità di mettere d'accordo anche posizioni lontane è una risorsa delle società. Ma in un momento in cui l'antipolitica è molto popolare, magari per buone ragioni, questi aspetti di Garibaldi possono anche piacere, anche se sono poco convincenti». Per la verità il nostro eroe non raccoglie solo consensi. Almeno tra gli studiosi. La storica Angela Pellicciari ridimensiona la portata della sua impresa più nota: «Quella dei Mille fu un'azione non progettata da Garibaldi. Ci sono gli scritti autografi di Giuseppe La Farina, braccio destro di Cavour, che attestano come l'idea della spedizione sia stata programmata nei dettagli da lui e dal politico piemontese. Dopo il Congresso di Parigi del 1856, La Farina si recava tutte le mattine due o tre ore prima del giorno nella camera da letto di Cavour per mettere a punto il piano. E che dire di Carlo Persano - comandante della flotta sabauda, mandato da Cavour a seguire Garibaldi? Persino nel suo diario racconta come ha corrotto l'ufficialità borbonica con i soldi dello Stato di Sardegna…». Ma Traniello: «Il fascino di Garibaldi deriva proprio dall'essere stato un grande generale. Era un trascinatore. Una figura che si contrapponeva ai militari di carriera. Anche per il tipo di eserciti che comandava, per le strategie, per le tattiche: un modello di condottiero antico. Non a caso è il personaggio del Risorgimento più noto all'estero». E Galli della Loggia: «L'unità d'Italia si deve alle vittorie di Garibaldi. Mazzini ha convinto tanti ad impegnarsi fino alla morte, ma non è stato capace di opporre un disegno politico forte a quello di Cavour. Mazzini è stato uno sconfitto politicamente.
Cavour è stato il vero vincitore del Risorgimento, però era un politico, l'antitesi di Garibaldi. La fama dell'eroe dei due mondi si deve al suo essere un uomo di azione, senza alcuna qualità politica. Un grande guerriero generoso e disinteressato: non ebbe nulla dalle sue vittorie militari. Forse la persona più vicina a Garibaldi, per popolarità e tipologia umana è stato Vittorio Emanuele II. Non a caso tra i due c'era una certa simpatia naturale. Entrambi uomini d'azione, donnaioli e per nulla simpatizzanti della politica. Anche Vittorio Emanuele II non amava la politica, pensava che i politici, nel suo caso Cavour, fossero una massa di perdigiorno, chiacchieroni e infidi». Ma la mitologia di Garibaldi non piace alla Pellicciari: «Il suo mito è stato costruito ad arte dalla Massoneria, di cui Garibaldi era illustre esponente. Come del resto il Risorgimento: un fatto massonico contro la popolazione italiana, definita oscurantista perché in stragrande maggioranza cattolica. C'è stata una vera persecuzione anticattolica, propagandata come persecuzione contro il clero a favore della libertà del popolo. Garibaldi era un viscerale anticlericale. Ha costruito il mito di se stesso: era accortissimo a scrivere le sue memorie ed era molto attento agli aspetti della comunicazione della sua immagine. Ma basta leggere le fonti del tempo per rendersi conto chi fosse realmente: è sempre La Farina ad informarci di come la Sicilia, sotto il governo di Garibaldi, fosse finita in mano a bricconi usciti di galera, dell'assoldamento di 20 mila bambini dagli 8 ai 15 anni, dell'abolizione della magistratura e dei tribunali, della creazione di commissioni militari come al tempo degli Unni...». Galli della Loggia ribatte: «Sebbene Garibaldi abbia contribuito al mito di se stesso, non è stato guidato da una particolare doppiezza. Lui aveva un istinto per ciò che poteva essere popolare, pensiamo alla vestizione che si era inventato, con quel poncho… La sinistra soprattutto ha usato la sua immagine, perché il volontarismo e l'azione sono nelle sue corde. Ma anche per via di quella camicia rossa. Sebbene il colore rosso Garibaldi lo scelse per ragioni contingenti:..». Durante le sue imprese in Sudamerica una casa commerciale di Montevideo aveva offerto a Garibaldi, a prezzi vantaggiosi, una partita di camicie rosse già destinate ai "saladeros", gli operai dei grandi macelli e degli stabilimenti di carne salata di Ensenada e altre piazze argentine. Ma a causa dell'assedio della capitale uruguaiana, le camicie non potevano essere inviate. «Però - continua Galli della Loggia - Garibaldi curava la sua immagine senza calcoli, a lui veniva spontaneo. Era anche l'atmosfera romantica dell'epoca a suggerire certi atteggiamenti. Poi bisogna considerare che era un bell'uomo, a cui piacevano le donne. Questi aspetti esteriori lo hanno reso molto popolare». A tal punto che oggi passeggiando per i paesi d'Italia il suo nome rimanda subito a quella figura dalla barba spessa, i lunghi capelli biondi, gli occhi celesti, lo strano cappello, il poncho, la camicia rossa. E quel volto sicuro di chi lascia intravedere un coraggio da leone. Un "santino" laico. Anche se l'immagine "pia" è quella di un generale. Qualcuno ha scritto che nel 1860, quando Garibaldi era alla testa della rivoluzione in Sicilia, i contadini lo venerassero come un eroe mitologico. E i bambini venivano sollevati verso di lui come se fosse un santo. Quasi a chiedergli grazie insperabili… Ogni mito ha i suoi eccessi. Ma in fondo lui era pur sempre l'uomo delle mille battaglie impossibili


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