Il suo primo documentario "GREATER - SCHIACCIARE L'AIDS" sul Meeting Point International fondato dall'infermiera Rose Busingye negli slum di Kampala in Uganda ha vinto l'Audience Award al New York Aids Film Festival del 2007 ed è candidato per la partecipazione al Festival di Cannes 2008.
Così il regista parla del suo film
"E' facile fare documentari di denuncia: il mondo è pieno di schifo, e basta andare fuori dalla porta e girare l'angolo per trovare cose da denunciare e far bella figura. La sfida vera invece è andare a vedere come si ricostruisce, chi ricostruisce, chi ha una speranza tale da non aver paura di prendere in mano della gente che nessuno guarda più, che tutti abbandonano. E ho avuto questa infinita grazia di andare in Uganda dove c'è una persona di cui mi sono innamorato: si chiama Rose Busingye, secondo me è una Madre Teresa nera, è una laica consacrata che si occupa dei malati di AIDS nelle baraccopoli di Kampala.
L'idea di regia che sta alla base di questo documentario nasce da un problema: come faccio a raccontare la sovrabbondanza di gioia, coraggio, letizia, insomma la speranza, senza farne una favola buonista e sentimentale che cerca di arrivare a uno sciocco lieto fine con una stolida morale?
Allora ho pensato che lo stile più adatto per raccontare quella realtà, per mettersi al servizio di quella realtà, fosse lo stile del reportage di guerra. Leggo le note di regia, che per un regista sono una sorta di dichiarazione di poetica, di obiettivi estetici: "Lo stile non è convenzionale né celebrativo, ma "sporco". Tende al linguaggio senza filtro tipico del reportage di guerra, dove si lavora in situazioni talmente estreme che non si può preparare nulla; le reazioni non sono controllate perché non c'è il tempo di assorbirle. Portare uno stile così dinamico in una situazione non di guerra fa scattare un corto circuito che accende un punto di vista interno al racconto: la telecamera è infatti sempre "dichiarata", fa parte della stessa realtà che sta raccontando.
La sua dichiarazione fa quindi cambiare prospettiva, aumentando paradossalmente il senso di verità del racconto: essendo parte della situazione che sta riprendendo, il suo non è più un punto di vista falsamente esterno, distaccato, saccente, ma un punto di vista che è dentro la realtà, incollato al vortice delle cose, costretto a seguirle per capire cosa succede.
È universalmente assodato che il punto di vista dello spettatore è il punto di vista messo a disposizione dalla telecamera (e solo quello): tendere al linguaggio del reportage di guerra significa provare a considerare lo spettatore non più come un voyeur, ma come un compagno di viaggio, un vero e proprio co-protagonista proiettato dentro la realtà che si sta raccontando. Non s'insegue quindi l'inganno dell'immagine patinata, ma ci si lascia sommergere dalla realtà, dalla sua sovrabbondante concretezza e verità. I nostri occhi gonfi di reality si sporcano di realtà e possono finalmente vedere." Insomma tu spettatore non sei più un voyeur, ma la telecamera (che è il punto di vista a cui io ti costringo perché sempre si è costretti a un punto di vista che per forza di cose è parziale), la telecamera, il punto di vista fa parte della realtà stessa che sto raccontando, quindi tu stai vivendo quello che io ti sto raccontando, non ti sto mettendo in condizione di essere un guardone, cerco di metterti nella posizione di protagonista, co-protagonista. Insomma l'idea è usare un linguaggio, cioè una tecnica, che si metta al servizio della realtà, con l'assoluta certezza che questa realtà parlerà, non sono io che ci devo mettere qualcosa, io mi devo mettere al servizio di questa realtà e catturare quello che succede. Devo solo "guardare", appunto. Sono tanto più bravo quanto più guardo. È stato un esperimento, ci sono stati soltanto tre giorni di ripresa per una cosa che io immagino di una settimana (il top sarebbe un mese, magari un anno!), però ha funzionato, ho visto che funziona. E quindi sono molto motivato a continuare".
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