venerdì 26 febbraio 2010

PADRE ALDO

.....Molti parlano di “crisi”, ed è vero. Ciò che spiace è che la causa di questa crisi non è da imputare a nessuno se non a noi sacerdoti, che siamo presi in mille attività ma raramente ci sediamo al confessionale. Ancora di più in questo paese trovare un confessore è difficile come scalare l’Aconcagua. Negli anni in cui ero solo alla missione quanti chilometri dovevo percorrere per trovarne uno, e quanto tempo dovevo aspettare! Nei momenti in cui la fame di perdono aumentava fino a tormentarmi, pensavo al vecchio parroco della mia infanzia. Lo immaginavo lì nella bellissima cappella profumata di fiori, con la sua sottana nera, seduto al confessionale col breviario tra le mani, che aspettava un penitente.
Quando ripenso alla mia vocazione di sacerdote e missionario, mi viene in mente nitidamente un 18 di marzo, vigilia della festa di San Giuseppe, che allora era festa di precetto. Nella piazza del mio paese c’era un metro di neve, io e i miei amici giocavamo, aspettando che le campane annunciassero l’inizio del rito confessionale........

.....Per me ha sempre significato, e significa tutt’ora, con sempre maggior intensità, rivivere l’abbraccio del padre della parabola del Figliol prodigo. Come non ricordare la bellezza carica di pietà nel dipinto di Rembrandt che raffigura un perdono misericordioso, con una mano del padre e l’altra della madre? Solo nella confessione si può gioire di quella tenerezza, femminile e virile al tempo stesso.....


Il narcotrafficante salvato dalla sua fame di perdono
Ancora sulla confessione
TEMPI 24 Febbraio 2010
di Aldo Trento


Caro padre Aldo, «io ti assolvo dai tuoi peccati». Che bello il tuo ultimo intervento su Tempi! È vero che alla fine – anzi all’inizio! – quello che conta è l’accorgersi che c’è la possibilità, se lo si vuole, di essere continuamente perdonati e di ricominciare sempre in ogni momento. Io però mi accorgo di una resistenza che ho e su cui ti chiedo un aiuto: tante volte nella confessione ho la preoccupazione di dover raccontare tutti i peccati che faccio e se, come spesso mi capita, il confessore mi interrompe per dirmi le sue considerazioni e non mi lascia finire e mi dà l’assoluzione, io dopo mi sento a disagio perché non so se la confessione è stata completa e se il Signore mi ha perdonato anche quello che non ho detto… Mi sembra, tante volte, di sentire questo disagio anche perché è come se io fino in fondo non fossi poi così certa del suo totale perdono. C’è come una diffidenza di fondo che mi lascia sottilmente scettica, come se alla fine ciò che mi lascia tranquilla fosse la certezza che io devo essere più brava nel fare le cose, io devo essere più brava a fare memoria, io devo essere più brava nel non fare i peccati… Cioè, anche nel momento così importante della confessione, entra in gioco prepotentemente la mia pretesa di autonomia, di farmi da sola. Leggendo quello che hai scritto mi rendo conto che la lotta è sempre quella, tra il cedere al riconoscimento che istante per istante sono fatta e il poggiare tutto sulla mia misera capacità, che mi lascia il disagio e l’amaro in bocca. Ti abbraccio.
Giovanna

Ringrazio Giovanna per l’opportunità che mi dà di parlare ancora della confessione, purtroppo considerata “la cenerentola dei sacramenti”. La maggior parte dei cattolici raramente si confessa. E non mi riferisco solo ai laici, ma anche ai religiosi. Molti parlano di “crisi”, ed è vero. Ciò che spiace è che la causa di questa crisi non è da imputare a nessuno se non a noi sacerdoti, che siamo presi in mille attività ma raramente ci sediamo al confessionale. Ancora di più in questo paese trovare un confessore è difficile come scalare l’Aconcagua. Negli anni in cui ero solo alla missione quanti chilometri dovevo percorrere per trovarne uno, e quanto tempo dovevo aspettare! Nei momenti in cui la fame di perdono aumentava fino a tormentarmi, pensavo al vecchio parroco della mia infanzia. Lo immaginavo lì nella bellissima cappella profumata di fiori, con la sua sottana nera, seduto al confessionale col breviario tra le mani, che aspettava un penitente.
Quando ripenso alla mia vocazione di sacerdote e missionario, mi viene in mente nitidamente un 18 di marzo, vigilia della festa di San Giuseppe, che allora era festa di precetto. Nella piazza del mio paese c’era un metro di neve, io e i miei amici giocavamo, aspettando che le campane annunciassero l’inizio del rito confessionale.
Erano le quattro di pomeriggio quando entrai nel confessionale che stava nella cappella, a lato della sacrestia. Mi inginocchiai tremando perché avevo paura del prete, e di quello che avrebbe potuto domandarmi. Terminata la confessione, il sacerdote mi sorprese con una domanda che mi lasciò paralizzato: «Toni – era il mio soprannome – ti piacerebbe essere sacerdote e missionario?». In un secondo pensai: «Se gli dico di no si offende. Tanto vale dirgli di sì, e una volta uscito da qui continuare con la mia vita di sempre». Quindi gli risposi: «Sì, padre». Fu come per Giovanni e Andrea, l’inizio di una storia di misericordia che ancora continua, abbracciandomi e dandomi ogni giorno la gioia di vivere.
Una bugia causata dal timore, mentre mi confessavo, ha cambiato la mia vita. Da allora non ho mai fatto passare più di otto-dieci giorni senza confessarmi. Per questo nei momenti in cui la depressione mi gettava a terra, era questo sacramento a salvarmi. E non tanto per le parole del confessore, quanto per quel gesto semplice, il segno di croce che accompagna le parole: «Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Non sono mai andato a confessarmi per parlare o ascoltare il prete, ma solo per sentire Cristo dirmi: «Io ti assolvo dai tuoi peccati». Per me ha sempre significato, e significa tutt’ora, con sempre maggior intensità, rivivere l’abbraccio del padre della parabola del Figliol prodigo. Come non ricordare la bellezza carica di pietà nel dipinto di Rembrandt che raffigura un perdono misericordioso, con una mano del padre e l’altra della madre? Solo nella confessione si può gioire di quella tenerezza, femminile e virile al tempo stesso.
Tornando all’anziano prete della mia giovinezza, seduto nel confessionale: lui era per me l’evidenza di questa parabola. Il sacerdote, esattamente come il padre del racconto di Gesù, stava lì: ora dopo ora, aspettando, guardando fuori dalla finestra per capire se nel lontano orizzonte sarebbe apparso da un momento all’altro il figliol prodigo. E quando una mattina intravide, nella nebbia, lì in fondo dove la strada porta alla campagna, stagliarsi la sagoma di un giovane che assomigliava a suo figlio, lasciò tutto e scordandosi della sua età corse il più veloce possibile per andare ad abbracciarlo. Chissà come batteva il suo cuore, e quello di suo figlio, man mano che diminuiva la distanza e la figura di entrambi si faceva sempre più distinta e visibile! L’incontro, come dice il Vangelo, fu una festa. Così come lo era per quell’anziano sacerdote (al quale devo la mia vocazione) ogni volta che qualcuno si avvicinava al suo confessionale.
In questi giorni ho vissuto un’esperienza unica che testimonia la grazia e bellezza di questo sacramento che redime la vita. Un malato terminale di Aids è giunto presso la nostra clinica direttamente dal carcere di Asunción, che è qualcosa di molto simile a un lager sovietico. Era un narcotrafficante del Cartel de Cali. La sua condizione è grave: abbiamo chiesto al suo sorvegliante di allontanarsi dall’ospedale e di restare, se voleva, nella via di fronte alla clinica, perché qui il padrone e il custode è il Santissimo Sacramento, e dove c’è Cristo lì c’è la sicurezza assoluta. Quando gli infermieri hanno finito di fargli il bagno e l’hanno messo a letto sono andato a vederlo e a confessarlo, se voleva. Ovviamente non riusciva neanche ad aprire la bocca, a causa delle sue condizioni di salute. Però quando gli ho detto: «Se sei pentito dei tuoi peccati, alza il pollice della mano destra», lui, piangendo, ha alzato il pollice. Allora, col cuore commosso, ho pronunciato le parole più belle del mondo: «Io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen». I suoi occhi pieni di lacrime brillavano dalla felicità. E quando gli ho detto: «Adesso la tua anima è più bianca della neve delle Ande», lui, con un filo di voce, mi ha chiesto tra i singhiozzi: «Davvero padre? Davvero?». L’ho abbracciato, anch’io con gli occhi umidi, perché erano anni che non assistevo a un simile miracolo. Da quel momento non era più un trafficante di droga, era un uomo, aveva recuperato la sua dignità.
Sono uscito dalla clinica, portando negli occhi la bellezza di quel viso trasfigurato, e ho detto al poliziotto: «Lì non c’è più un narcotrafficante, ma un santo. Puoi andare a dire al tuo capo che non c’è più bisogno di un sorvegliante».
Cara Giovanna, la confessione prima di tutto non è una lista di peccati, men che meno il cestino dell’immondizia della nostra vita. Piuttosto è l’amoroso riconoscimento dell’Io che si lascia abbracciare da un Tu. I miei malati nella maggior parte dei casi non riescono a dire nulla, semplicemente mi guardano quando chiedo loro se desiderano confessarsi. Ma alzano sempre il pollice. In altre parole, non dicono niente ma riconoscono una Presenza, e si affidano a questa Presenza. La confessione è l’evidenza più concreta dell’uomo che riconosce di essere “Io sono Tu che mi fai”.
Quanto al confessore che ti interrompe lasciandoti amareggiata per non essere riuscita a dire tutto, non preoccuparti. Molte volte succede quel che capita con l’omelia, quando il prete è più preoccupato di riempirci la testa con le sue elucubrazioni che con le parole che Dio vuole dirci. Nella confessione l’unica cosa che il cuore ci reclama è di riconoscere la sua Presenza piena di amore.
Perché tu mi comprenda meglio mi permetto di dirti come io mi confesso ogni settimana. Mi avvicino al sacerdote, che è molto essenziale, e mi parla solo per darmi penitenza e l’assoluzione. Inizia col dirmi come da tradizione: «Ave Maria purissima». Rispondo: «Concepita senza peccato». E continuo: «Padre, chiedo perdono di tutti i miei peccati in pensieri, parole, opere e omissioni». Poi, la prima cosa che riconosco è il fatto che Cristo non è l’UNUM per il quale vivo, e lo dimostro riferendogli alcuni fatti che mi sembra evidenzino questa non totalità di Cristo nella mia vita. Non è una lista infinita, semplicemente elenco le fragilità più evidenti e reiterate che mi sembra di vedere nel mio quotidiano dimenticare. E termino invocando la santa assoluzione, cosa che il padre mi dà immediatamente senza alcun commento, così come la penitenza.
Ti auguro di trovare un confessore intelligente, vale a dire molto essenziale. Che tristezza la paura di confessarsi! Posso capire che con l’educazione che riceviamo, dominata e contaminata da un moralismo che si preoccupa di alcuni peccati in particolare, diventa logico quello che tu dici. Siamo vicini alla Quaresima, e spero che tutti possiamo sperimentare la bellezza di questo sacramento.
    padretrento@rieder.net.py

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