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...... Un andare a fondo che non è psicologismo, ma cercare le ragioni che hanno portato quei genitori a fare determinate scelte e ad accogliere nella loro famiglia nuovi figli. Sono arrivato a un tale punto di intimità con loro, che uno mi ha detto: «Queste cose non le abbiamo mai raccontate a nessuno». Eppure avevano davanti due telecamere...
E che cosa ha scoperto?
Be’, la risposta è in quei 60 minuti di documentario: non si tratta di supereroi ma di gente normale, con i battibecchi e le situazioni di tutti i giorni, senza fuochi d’artificio. Non mi interessava dare definizioni dell’accoglienza o avere il lieto fine, perché può capitare che chi è accolto non riconosca il bene che riceve dalla famiglia. Riassumerei quel che ho visto così: l’accoglienza è per te......
domenica, 14 febbraio 2010
“La mia casa è la tua”
Da TRACCE un'intervista di Niccolò De Carolis a E. Exitu sul suo nuovo film “La mia casa è la tua”:
«Ho cercato di rappresentare cosa vuol dire amare. Perché ognuno ha bisogno di trovare qualcuno che gli dica: “Sei mio”». Il regista bolognese Emmanuel Exitu racconta così, in due battute, il cuore del documentario che ha appena realizzato: La mia casa è la tua, che verrà presentato in prima nazionale a Milano giovedì 11 febbraio (alle 21 nell’Auditorium Giorgio Gaber, Palazzo della Regione).
Al centro, c’è la realtà di Famiglie per l’Accoglienza, l’associazione che dal 1982 riunisce migliaia di famiglie che accolgono bambini in adozione o in affido. Un’idea che Exitu - premiato nel 2008 da Spike Lee a Cannes per un altro documentario, Greater, dedicato alle donne del Meeting Point di Kampala - inseguiva da vari anni: «Alberto Pezzi, presidente dell’Associazione per l’Emilia Romagna, mi chiedeva da tempo di realizzarlo. Quando finalmente abbiamo trovato i fondi, siamo partiti».
Come è nato il documentario?
Volevo andare a conoscere queste famiglie. Con l’Associazione sono stato subito chiaro, però: non mi interessava fare un documentario istituzionale o autocelebrativo, ma raccontare in presa diretta l’esperienza di alcune famiglie.
Come l’ha realizzato?
Ho scelto sei famiglie, sparse tra l’Emilia Romagna e il veronese. Pensavo che la cosa più utile fosse partire dai “frutti”, cioè andare a conoscere per primi i ragazzi accolti, per capire come erano cresciuti in queste realtà. Ma qualcosa non tornava...
Cosa intende?
Ero insoddisfatto. Me ne sono accorto una sera, tornando a casa in macchina: stavo conoscendo tante persone interessanti, ma sbagliavo nel guardarle ognuna staccata dall’altra. Non si può capire l’esperienza di quei ragazzi, senza considerare che fanno parte di una famiglia. Quel che stavo incontrando, innanzitutto, erano delle famiglie. E questa intuizione ha cambiato il mio modo di filmare.
In che senso?
Ho lavorato con le famiglie “intere”, riprese a tavola, intorno a un camino... In queste situazioni ho insistito su primi piani di sguardi e di mani. Ho voluto fare un film che non rimanga in superficie ma che, passo dopo passo, vada sempre più in profondità. Un andare a fondo che non è psicologismo, ma cercare le ragioni che hanno portato quei genitori a fare determinate scelte e ad accogliere nella loro famiglia nuovi figli. Sono arrivato a un tale punto di intimità con loro, che uno mi ha detto: «Queste cose non le abbiamo mai raccontate a nessuno». Eppure avevano davanti due telecamere...
E che cosa ha scoperto?
Be’, la risposta è in quei 60 minuti di documentario: non si tratta di supereroi ma di gente normale, con i battibecchi e le situazioni di tutti i giorni, senza fuochi d’artificio. Non mi interessava dare definizioni dell’accoglienza o avere il lieto fine, perché può capitare che chi è accolto non riconosca il bene che riceve dalla famiglia. Riassumerei quel che ho visto così: l’accoglienza è per te. Entrando in queste famiglie cercavo un’esperienza che potesse essere totale.
Quindi un’esperienza che riguarda tutti...
Esatto. Anche perché non solo i bambini hanno bisogno di essere accolti, come dimostra una vicenda raccontata nel documentario: una donna, malata di tumore al cervello, era in ospedale per partorire e il marito è stato accolto da una di queste famiglie. Cui poi, dopo il parto, si sono aggiunte anche la mamma e la neonata. Volevo vedere cosa vuol dire amare. Una madre nel filmato lo descrive bene, parlando di una bambina in affido: «All’inizio ho cercato di difendermi, ma poi mi sono trovata lei che era entrata nel mio cuore e io che ero entrata nel suo». Se non bari e non fai il furbo in un rapporto, sei costretto a dire: «Tu sei mio per sempre». Altro che Freud, ecco il materiale di cui siamo fatti. È ciò che ho voluto toccare con mano nel documentario. Perché ognuno nella vita lotta per trovare qualcuno che gli dica: «Tu sei mio». Ma non può essere una forza umana: chi sarebbe così pazzo da pensare di esserne capace? Chi può dirlo senza illudere l’altro? Solo chi è amato così.
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