martedì 9 febbraio 2010

HAITI RITROVARE IL VOLTO DELL'UOMO TRA LE MACERIE

.....C’è un religiosità che fa parte del dna degli haitiani: ogni locale ha un nome che richiama. C’è il bar “Potenza di Dio”, il bazar “Paradiso eterno”, l’hotel “Beata vergine”. Un camion porta dipinta davanti la Madonna di Lourdes, e sul fianco una donna prosperosa in bikini.
Padre Bepi celebra la Messa in una chiesa senza il tetto, sostituito da teloni blu che svolazzano alle raffiche di vento. La chiesa è piena, l’età media non supera certo i trent’anni. C’è molta compostezza, eppure anche qui non c’è famiglia che non sia stata toccata da morte e distruzione.....



...Tra le rovine di Port-au-Prince emerge il notevole contributo occidentale a una efficiente gestione della crisi. Più in là, alle persone, ai loro incredibili bisogni e sofferenze, arriva solo la presenza cristiana. Nascosta e appassionata come sempre.....
Tempi 08 Febbraio 2010
di Alberto Reggiori


da Port-au-Prince
La giornata è sempre aperta dalla Messa alle 6,30. C’è un ritmo monastico che non permette spreco di tempo. Io e la collega Chiara Mezzalira siamo medici. Nei primi giorni della nostra permanenza ad Haiti, solerti suore sudamericane ci hanno invitato a gestire il loro ambulatorio. Tutti i medici haitiani sono scappati e loro

hanno una fila di pazienti che attende vociando sin dal mattino presto fuori dal cancello. Nell’ospedale St. Camille abbiamo incontrato padre Gianfranco Lovera, il responsabile sanitario. Incarna in maniera perfetta lo spirito del suo padre fondatore, san Camillo de Lellis, che si era fatto ultimo per servire Cristo nei sofferenti. È un uomo calmo e tranquillo nonostante viva in un vortice. L’ambiente è più che dignitoso, pulito, pieno di pazienti, alcuni dei quali, non fidandosi di dormire nelle camere, hanno il letto in mezzo al cortile con le flebo che sembrano fili elettrici collegati a loro per tenerli in vita.




L’ospedale è quasi intatto, poche crepe nei muri, solo il serbatoio dell’acqua è inclinato e pericolante. «Se cade siamo finiti», dice padre Gianfranco. «Senz’acqua l’ospedale è morto».
La settimana scorsa abbiamo accompagnato padre Giuseppe, detto Bepi, in questa isola da oltre trent’anni, al funerale dell’arcivescovo di Haiti e del suo vicario, morti sotto le macerie della cattedrale. Il vicario è rimasto vivo cinque giorni, riuscivano a comunicare con lui e gli passavano dei viveri, ma quando l’hanno raggiunto era tardi. Aveva l’ostia in mano, si era preparato alla morte celebrando la Messa là sotto. Mentre la banda suonava in tono sommesso inni religiosi, alle nostre spalle incombeva, enorme, come una montagna ferita, la facciata della cattedrale. Il sole delle 8 del mattino filtrava attraverso il grande rosone policromo intatto, che sovrasta il portone. La Messa è iniziata con uno struggente canto della tradizione cattolica francese: «Esule vado e vagabondo, ovunque sono uno straniero…». Il Vangelo riferiva di Gesù davanti al crollo di una torre che aveva sepolto decine di persone: «Credete voi che i morti fossero peggiori dei sopravvissuti? No, io vi dico… qualcuno è preso e qualcuno è lasciato».
È veramente tutto un mistero. Chi potrà mai spiegarci duecentomila persone morte in un minuto, scuole che si sono accasciate di schianto, ospedali diventati camere mortuarie, supermercati schiacciati come lattine di birra?
Un francescano cileno mi racconta: «Sono passato in macchina davanti a una scuola di tre piani due minuti prima del terremoto, era l’intervallo, si sentiva gridare e ridere dalle finestre aperte. Sono ripassato a piedi dopo un’ora cercando di raggiungere casa mia tra le macerie: la scuola era accartocciata su se stessa, ridotta a un’altezza di neanche due metri, c’era un silenzio lacerante. Nessuno si lamentava».
Come continua la vita rimasta
Decine di migliaia di cadaveri, compresi i bambini di quella scuola di tre piani, sono già stati sepolti. O meglio, gettati in enormi fosse comuni. La vita rimasta continua. La gente della città ha occupato marciapiedi e piazze, spianate attorno alla periferia, anche alcune strade sono occupate dalle tende, i mercatini si sono trasferiti in mezzo alla via e si vende di tutto, seduti sulle macerie o sotto tetti pericolanti. Il traffico in città è mostruoso: si viaggia sempre a passo d’uomo giocando all’autoscontro con bus, Tir, pulmini multicolori con la faccia di Gesù o di Maria, motociclette e pedoni suicidi. C’è un religiosità che fa parte del dna degli haitiani: ogni locale ha un nome che richiama. C’è il bar “Potenza di Dio”, il bazar “Paradiso eterno”, l’hotel “Beata vergine”. Un camion porta dipinta davanti la Madonna di Lourdes, e sul fianco una donna prosperosa in bikini.
Padre Bepi celebra la Messa in una chiesa senza il tetto, sostituito da teloni blu che svolazzano alle raffiche di vento. La chiesa è piena, l’età media non supera certo i trent’anni. C’è molta compostezza, eppure anche qui non c’è famiglia che non sia stata toccata da morte e distruzione.
In città la situazione è tesa, la distribuzione di cibo sta finalmente decollando: vediamo haitiani che trasportano sacchi di riso e zucchero con la bandiera americana stampata sopra. Anche l’Ong italiana Avsi, che ha patrocinato il nostro intervento ad Haiti, distribuisce nelle diverse baraccopoli in cui è presente. È stato un rischio calcolato, perché non ci vuol niente a essere circondati da migliaia di persone senza il cibo sufficiente per tutti. Ogni distribuzione è protetta dai marines americani o dai caschi blu dell’Onu stanziati qui da quasi vent’anni.

Quattro lenzuola e un tavolo
Nell’ospedale St. Damien sbircio nella sala di rianimazione, dove energici medici americani in divise azzurre sono al letto dei malati. Pazienti ovunque. Anche nei cortili c’è gente stesa su materassi. I più numerosi sono gli amputati agli arti inferiori. Un elicottero che passa a bassa quota è il pretesto per criticare gli Stati Uniti. Qualcuno dei volontari internazionali sbuffa: «Non capisco a cosa servano gli elicotteri nei terremoti». Ma le polemiche che hanno appassionato i media qui non si sentono. Tutti gli haitiani cui ho chiesto qualcosa circa la presenza americana mi hanno risposto: «Mercì Dieu!».
Se qualcuno volesse rappresentare un girone dantesco potrebbe venire qui: le montagne di macerie si sommano alla povertà preesistente, ai cumuli di immondizia fumante, alle fetide fogne a cielo aperto, alle baracche marce e cadenti, alla povera umanità che vive in maniera brulicante. L’ambulatorio delle nostre amiche suore in realtà non esiste. Lo abbiamo aperto noi nell’unico locale disponibile: la vicina chiesa abbandonata. Abbiamo tirato quattro lenzuola per garantire un po’ di privacy e sistemato un tavolo come letto da visita. Abbiamo visitato decine e decine pazienti. Compresa una donna che stava partorendo.

L’ambulatorio nel confessionale
Nella tendopoli di Cité Soleil ci sono un gran numero di bambini vaganti, spazzatura ovunque, mancanza d’acqua, promiscuità, diecimila persone senza nemmeno un cesso. Entriamo in una decina di tende, quasi invariabilmente c’è un bambino malato: febbre, tosse insistente, parassitosi della pelle, denutrizione grave. In una tenda trovo un neonato steso sugli stracci, lo accudisce il fratellino di quattro anni, la madre è da tre ore in coda in un posto dove dicono sia in corso una distribuzione di viveri. Decidiamo che qui faremo al più presto un ambulatorio soprattutto per i bambini e le donne incinte e allattanti. Di notte scriviamo il progetto, di giorno visitiamo, medichiamo ferite, distribuiamo cibo e acqua.
Girando per Haiti mi rendo conto che il massimo livello che può raggiungere l’Occidente ricco e tecnologico (computer e satellitari si sprecano!) è una efficiente (purtroppo non ancora) gestione della cosiddetta crisi. Più in là non si arriva. Proprio non si riesce. Non si capisce. C’è un’enorme difficoltà ad arrivare all’uomo, ai suoi bisogni, alle sue incredibili sofferenze.
Nella chiesa Reina de la paz trasformata in ambulatorio sono stato affiancato da tre dottori messicani della Caritas giunti con gli zaini zeppi di farmaci e di buona volontà. Ognuno di noi ha occupato un angolo dell’edifico. La chirurga messicana visita nel confessionale. Tra le persone visitate, ho incontrato un giovane padre che teneva tra le braccia due gemelline di due anni, dai nomi molto fantasiosi, Ketty e Kate. Per fortuna erano affette semplicemente da bronchite. Gli ho chiesto se avesse altri figli. Sì, mi ha risposto in creolo, le due figlie più grandi e mia moglie. «Sono tutte morte nel crollo della nostra casa». Non piangeva, aveva una forza da lasciarmi a bocca aperta. Alla fine della visita si è alzato prendendo a fatica le bambine in braccio, con le dita rimaste libere tratteneva il resto, mi ha salutato gentilmente e si è allontanato. L’ho osservato mentre usciva e un pensiero fugace mi ha illuminato qualche parte del cervello. Tutto questo è umanamente sopportabile solo alla presenza di Uno che ha preso su di sé il dolore innocente e ha detto: «Beati i poveri di spirito, beati voi che ora piangete, beati voi che avete fame e sete, perché vostro è il regno dei cieli».

Il quartiere dimenticato da tutti
Ci imbattiamo in padre Jorge, un energico gesuita cubano. È molto provato, con un gruppo di volontari e suore è di ritorno dalla bidonville di Martissant, alla periferia della città. Da lì qualcuno li ha pregati di visitare le zone più alte, arrampicate sulle pendici delle colline. Hanno scoperto una realtà spaventosa: le strade sono bloccate dalle frane, hanno dovuto proseguire a piedi portando in spalla farmaci e cibo. Qui, a tre settimane dal terremoto, non è ancora arrivato nessuno. La gente ha ferite infette, i morti sono ancora là, incastrati nelle case crollate o travolte dalle frane. Un fetore di cancrena aleggia ovunque, ci dice padre Jorge. La gente ha fame e l’unica fonte d’acqua è un ruscello dall’acqua «muy negra». La presenza dei cristiani, religiosi e laici, è capillare, nascosta e appassionata. Certo, serve anche l’esercito Usa, la portaerei Cavour, la Croce rossa, l’Onu e le Ong, anche le più sprovvedute, ma il ruolo sociale e umano della Chiesa, lasciatemi dire, dato che l’ho visto, è insostituibile.
*medico chirurgo

 

Nessun commento: