.....Ma al tempo stesso, grazie alla fede, possiamo riconoscere all’interno di questa tragedia il dolce e amorevole sguardo di un uomo crocifisso che ci guarda ricordandoci che Lui, centro del cosmo e della storia, è vivo ed è qui in mezzo a noi, a sfidarci come ha fatto con Marta: «Credi questo?».Dalla risposta che diamo a questa domanda dipende se ciò che è accaduto ad Haiti rappresenta una irreparabile tragedia o l’inizio di una nuova vita. Da una decisione radicale per ciò che vale, per quel destino buono per il quale il nostro cuore è stato fatto. E che le centinaia di migliaia di vittime ci indicano, perché per loro già non è più qualcosa che verrà, ma Qualcuno in cui già vivono in pienezza.....
Dagli anni di piombo al socialismo di Chávez
Quando all’uomo manca la luce della ragione resta solo la torcia elettrica
Tempi 27 Gennaio 2010
di Aldo Trento
All’inizio di novembre Hugo Chávez si è lamentato per lo spreco di energia elettrica e ha chiesto al popolo venezuelano di cambiare a poco a poco le abitudini giornaliere, ad esempio usando una torcia per andare in bagno durante la notte invece di accendere le luci. Lo stesso presidente, nei giorni precedenti, aveva chiesto ai suoi concittadini che la doccia non durasse più di tre minuti al fine di risparmiare sul consumo di acqua. Al di là dei consueti problemi di elettricità, infatti, i venezuelani soffrono di una grave scarsità di risorse idriche, e da lunedì 2 novembre gli abitanti di Caracas sono oggetti al razionamento dell’acqua, razionamento che può durare fino a 48 ore a settimana. Sono due delle conseguenze della grande rivoluzione bolivariana.
Anche in Paraguay, nonostante il paese disponga assieme al Brasile e all’Argentina di due delle più grandi centrali idroelettriche del mondo, negli stessi giorni la gente a causa del caldo infernale (40 gradi all’ombra, più di 30 di notte) dormiva sui marciapiedi delle strade o nei cortili della case, perché l’energia elettrica a disposizione non era sufficiente per coprire i consumi. I nostri bambini dormivano sul pavimento freddo della casa, perché non ce la facevano più, avevano tanto caldo da piangere. Così, io e padre Paolino siamo andati a cercare una casa che avesse ventilatori funzionanti, e li abbiamo portati tutti lì così che potessero dormire tranquilli. Anche questa è una conseguenza del XXI secolo. È chiaro, «cambia, tutto cambia», come recita il motto che cantavano a gole spiegate, venerdì 15 agosto 2008, il dittatore venezuelano in compagnia del nuovo presidente paraguayano, l’ex vescovo Fernando Lugo. Per tutta la notte, con la spada sguainata, come ubriachi, i due toccavano con mano la terra promessa, il nuovo continente latinoamericano.
Poco meno di un anno e mezzo dopo, il “paradiso” è diventato un inferno, anche meteorologicamente. La povertà che cresce giorno dopo giorno, uno Stato al limite del collasso, il presidente del Paraguay che appare sulle pagine dei giornali per l’ennesimo figlio che una donna denuncia essere suo, l’economia sempre più debole e la mancanza di sicurezza, la violenza e i sequestri che scuotono il paese mentre si diffondono l’ignoranza e la mancanza di assistenza medica.
Però i poveri ancora sognano un cambiamento, e un gruppo di guerriglieri continua a seminare odio e li invita a unirsi a loro. Da Caracas, passando per l’Ecuador e la Bolivia, il famoso “eje del mal” (asse del male) arriva fino al Paraguay, assieme a una delle canzoni oggi più ascoltate nell’entroterra, che dice (pubblichiamo con gli errori, anche di nomi):
L’esercito del popolo, incubo degli oligarchi, forgiatore della speranza per la liberazione. Ogni passo, ogni azione, spezza gli yankees ma riempie il popolo di gioia, e avvicina alla missione. Questa organizzazione è già ovunque, ed educa la sua gente, la milizia popolare. Chi sa impugnare il mitra e il fucile? Ecco la guerra dei guerriglieri per prendere il potere!
Rit.: La guerra dei guerriglieri è l’incubo degli oligarchi, degli yankees, dei padroni. Viva l’EEP, viva la lotta armata, viva il socialismo, viva la nuova nazione. Viva l’EEP, viva la lotta armata, viva il socialismo, viva l’emancipazione!
Non c’è giornata che non si vada all’offensiva con una granata esplosiva, attaccare e attaccare. Mordi e fuggi in un altro luogo,
l’ha ben detto Che Guevaras, l’esercito del popolo, la guerriglia va verso il trionfo. Chi dice che siamo sognatori è solo un cagasotto, di cervello e mente debole, prevenuto e plagiato. E hanno già perso, perché sono moderati, la guerra dei guerriglieri contro i ricchi è già iniziata. (Rit.)
Dicono che siamo solo delinquenti, ma il popolo sa che le cose non stanno così. Sa distinguere chi sono i suoi nemici, il due per cento che sta in cima e uccide e ruba al paese. Guerrigliero guaraní, figlio di Francia e López, eredi del cacique Aratisandu, Arakare. Discendiamo dall’indiana Juliana, c’è il suo sangue nelle nostre vene. Lei è la leonessa dell’EPP».
Queste parole decontestualizzate mi fanno pensare a una bellissima canzone di un amico, Claudio Chieffo, che denunciava le menzogne che porta con sé l’ideologia dell’uomo “onnipotente” e invitava a tornare alla ragione: come può sperare un uomo che ha in mano tutto, ma non ha il perdono?
Ballata del potere
Lo dicevo tutto il giorno: questo mondo non è giusto! E pensavo anche di notte: questa vita non dà gusto! E dicevo: è colpa vostra, o borghesi maledetti, tutta colpa dei padroni e noi altri, poveretti! E noi altri a lavorare sempre lì nell’officina, senza tempo per pensare, dalla sera alla mattina. Forza compagni, rovesciamo tutto e costruiamo un mondo meno brutto! Per un mondo meno brutto quanti giorni e quanti mesi, per cacciare alla malora le carogne dei borghesi! Ma i compagni furon forti e si presero il potere; i miei amici furon morti e li vidi io cadere. Ora tu dimmi come può sperare un uomo che ha in mano tutto ma non ha il perdono? Come può sperare un uomo quando il sangue è già versato, quando l’odio in tutto il mondo nuovamente ha trionfato? C’è bisogno di qualcuno che ci liberi dal male, perche il mondo tutto intero è rimasto tale e quale.
Già negli anni Settanta un uomo, don Luigi Giussani, in un contesto senza speranza, di piena battaglia con la follia marxista che aveva acceso – o anestetizzato – il cervello di molti di noi, ci provocò affermando con tutta la potenza della sua umanità carica di fede che avevamo bisogno, abbiamo bisogno «di qualcuno che ci liberi dal male, perché tutto il mondo, seguendo l’illusione di questa utopia, non solo si è colmato di sangue, ma è anche rimasto tale e quale a prima».
E questo qualcuno può solamente venire dall’esterno, non può essere l’uomo col suo orgoglio prometeico, ma uno che è entrato nella storia dell’umanità affermando: «Io sono la via, la verità e la vita». Per questo fu una sorpresa piena di commozione quando un gruppetto dei suoi amici un giorno, in molte università italiane, pubblicarono un pamphlet dal titolo sorprendente: “Comunione è liberazione”. Era un pugno nello stomaco per tutti, ma in particolare per noi cattolici, che in maggioranza, come accade oggi nell’EPP, militavamo dalla parte dell’ideologia marxista: con due parole ci indicavano chiaramente che soltanto la comunione è l’origine, la costruzione della liberazione.
In altre parole, solamente l’incontro con Cristo, presente qui e ora, nella compagnia della Chiesa, può cambiare l’uomo e il mondo. Qualsiasi forma di liberazione che prescinda da questa verità, come ci documentano settant’anni di comunismo e alcuni anni di socialismo del XXI secolo, non solo distrugge ciò che vorrebbe costruire, cioè l’utopia di un mondo nuovo, ma finisce col distruggere anche l’uomo stesso. La povertà, l’assistenzialismo, la violenza dei paesi che politicamente fanno parte dell’asse del male ne sono la prova. Siamo passati dalla luce elettrica alla torcia per andare in bagno. Ma quel che è peggio è che siamo passati dalla luce della ragione alla torcia… e di questo passo, come può sperare un uomo? Però in mezzo a questa pazzia esiste un perimetro abitato da uomini definiti dalla presa di coscienza che “io sono Tu che mi fai”. E questi sono la certezza del già, una novità carica di speranza.
padretrento@rieder.net.py
02 Febbraio 2010
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Trento: Il senso del disastro di Haiti
Ma se Lui non è vivo e presente fra noi, a cosa serve il dolore di Gladys, morta a 23 anni nel giorno del disastro di Haiti?
di Aldo Trento
Non bastava la mancanza di mezzi per mettere in ginocchio il popolo di Haiti, il paese più povero del continente. C’è voluto anche un terremoto che ha causato centinaia di migliaia di vittime. La mattina di giovedì 14 gennaio sono rimasto pietrificato con il giornale in mano: perché, Signore? Perché hai permesso che la violenza della natura sterminasse migliaia di uomini, praticamente già condannati a morte dall’indigenza? E chissà quanti si sono fatti le mie stesse domande. Sembra terribile questo Dio, che invece che colpire i malvagi e i delinquenti si “diverte” a infierire su coloro che in questa vita fanno esperienza dell’inferno più terribile. Il dolore degli innocenti, il dolore dei poveri è il più difficile da capire col solo uso della ragione. Infatti nella storia ha sempre costituito la più grande obiezione all’esistenza di Dio, e in particolare di un Dio Padre. Perché se Dio è Padre, come mai lascia che queste tragedie accadano? Già Giobbe si era posto il problema, sostenendo che il giorno della nascita di un uomo rappresenta per lui una maledizione: la vita è fondamentalmente dolore e noia.
Leggevo il giornale e queste domande come chiodi mi si piantavano nel cuore, quando con sorpresa mi è caduto lo sguardo su due fotografie. La prima era in prima pagina, e rappresentava un donna disperata col viso rivolto verso il cielo, le braccia aperte a forma di croce, mentre sullo sfondo c’erano solo montagne di macerie. Uno scenario apocalittico. La seconda proponeva ai nostri occhi, o meglio al nostro cuore, una chiesa completamente distrutta, ridotta a calcinacci. Però, in mezzo a questa terribile visione, la sorpresa di una colonna rimasta intatta, sulla quale c’era un crocifisso, anche lui risparmiato dal terremoto.
Che impressione, che dolcezza, che significato carico di speranza! Tutto attorno era il trionfo della morte, ma in mezzo c’era una donna che guardava al cielo con le braccia aperte come una croce, e dentro la chiesa schiantata era rimasta intatta la bellezza di un Cristo crocifisso. La violenza della natura non aveva soffocato il grido di quella donna, e neanche quel crocifisso, simbolo di una Presenza che anche in quel momento aveva voluto, per mezzo di un’immagine, dire che Lui era lì.
Che impressione! Mentre in molte parti del mondo vogliono staccarlo da tutti i muri, ad Haiti neanche la violenza terribile del terremoto è riuscita a toglierlo alla vista dei sopravvissuti. Una volta ancora è voluto rimanere con noi per dirci che il grido di quella donna è il simbolo di milioni di disperati, le cui domande e i cui perché solo in Lui possono trovare una risposta.
Tutto è ridotto a maceria, però Lui è rimasto, sta lì. Non importa che l’immagine sia di gesso o di marmo. Ciò che importa è che quel segno ci grida, più forte della violenza del terremoto, che Lui è vivo. Non esiste una risposta umana e razionale alle domande di Giobbe e di tutti noi. La ragione rimane impotente. L’unica risposta è quel crocifisso, perché è la risposta che Dio Padre stesso si è incaricato di darci inviando il suo unico figlio al mondo, affinché assumesse la dolorosa condizione di tutti noi, per rivelarci che il destino dell’uomo è buono anche quando le circostanze sono le più terribili, come nel caso di un terremoto che annienta un intero paese.
Cristo non eliminò allora e non elimina oggi le domande che ci tormentano, Cristo non è venuto per eliminare, censurare queste domande né per interrompere la violenza della natura o per sollevarci dal dolore e dalla morte. Cristo è venuto per dirci che Lui è la risposta a qualsiasi interrogativo. È Lui il senso, il significato ultimo di tutto. Il male non è opera di Dio, il male è solo opera del peccato, di quel peccato che la Chiesa chiama originale e che non solo ha decomposto l’Io dell’uomo, ma anche la stessa natura, l’intero cosmo che, come scrive san Paolo, soffre le doglie del parto aspettando la resurrezione dei Figli di Dio.
La vittoria sul peccato
Questo terremoto è un nuovo parto, non è un aborto se si riconosce che Lui è vivo, è presente. Se così non fosse, a cosa servirebbe il nostro ospedale, che giorno dopo giorno prepara alla morte decine di pazienti, o il dolore della bellissima Gladys, morta a soli 23 anni lo stesso giorno del disastro di Haiti?
on sono le proporzioni grandi o piccole di una tragedia a determinare il dolore o l’ingiustizia. Il dolore di uno e il dolore di centomila è sempre dolore, è sempre una provocazione. Il problema è che senza la fede, senza il riconoscimento che quell’uomo crocifisso in mezzo alle macerie rappresenta la vittoria sul peccato, tutto il male sarebbe assurdo, senza senso. Però quel crocifisso miracolosamente “vivo” tra tonnellate di morte afferma solennemente: «Io ho vinto la morte. Io sono la via, la verità e la vita».
In questo momento di dolore l’unica cosa che possiamo fare è guardare il volto di quel crocifisso e fissare gli occhi di Gesù, come fece Marta il giorno in cui, tra lacrime e singhiozzi, gli disse: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Le rispose Gesù: «Tuo fratello risorgerà». Ma Marta non poteva pensare di rimandare al domani la speranza di tornare a vedere suo fratello, e replicò: «So già che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Ma adesso? E Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi questo?». Una sfida impressionante, una sfida che sembra mettere ko la ragione, che secondo i criteri della nostra povera intelligenza euclidea risponderebbe con un “no” secco. Però la ragione, per Marta, non si riduce al proprio ombelico, a una visione ristretta, ma grazie all’amicizia con quell’uomo acquisisce tutta l’energia che le permette di guardare la realtà spalancando il suo sguardo a 360°, e risponde: «Sì, o Signore, io credo».
Il sì di Marta – e ricordiamoci che era davanti a un cadavere maleodorante di tre giorni – è stato l’atto supremo di una ragione triturata, annientata, però colma della certezza che quell’uomo non la stava ingannando, perché la sua eccezionale Presenza, anche in un momento così terribile, era la risposta che il suo cuore desiderava, cioè la certezza che suo fratello era vivo.
E anche noi che assistiamo a questa tragedia, anche se siamo pieni di impotenza e di dolore, dobbiamo affermare, come quella donna fotografata mentre urla rivolta al cielo: «Sì, o Signore, io credo!».
Tragedia o nuovo inizio
È l’unica posizione ragionevole, perché viceversa la disperazione avrebbe il sopravvento su di noi. La fede, il fatto di dire «sì, o Signore, io credo», non elimina la rabbia o il dolore, anzi aumenta la consapevolezza e quindi il nostro grido, però riconosciamo anche nella peggiore tragedia che il destino dell’uomo non coincide con la violenza della morte, ma con la certezza che quell’uomo crocifisso, che ci guarda da quella colonna che svetta intatta tra montagne di macerie, è vivo. E per questo, invece di farci abbattere dall’orrore della morte che ha annientato un intero popolo, troviamo l’energia necessaria per rialzarci e riprendere il cammino.
Ancora una volta abbiamo toccato con mano i frutti del peccato, della violenza crudele, della morte provocata dalla natura, essa stessa ferita dal peccato. Ma al tempo stesso, grazie alla fede, possiamo riconoscere all’interno di questa tragedia il dolce e amorevole sguardo di un uomo crocifisso che ci guarda ricordandoci che Lui, centro del cosmo e della storia, è vivo ed è qui in mezzo a noi, a sfidarci come ha fatto con Marta: «Credi questo?».Dalla risposta che diamo a questa domanda dipende se ciò che è accaduto ad Haiti rappresenta una irreparabile tragedia o l’inizio di una nuova vita. Da una decisione radicale per ciò che vale, per quel destino buono per il quale il nostro cuore è stato fatto. E che le centinaia di migliaia di vittime ci indicano, perché per loro già non è più qualcosa che verrà, ma Qualcuno in cui già vivono in pienezza.
padretrento@rieder.net.py
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