martedì 29 maggio 2007

SALVATE IL CRISTIANO DI IRAQ


Ultimo appello: salvate il cristiano d'Iraq
È l'unico paese dove ancora si celebrano le liturgie in aramaico, la lingua di Gesù. Ma lì la cristianità rischia di morire. Uccisioni, aggressioni, sequestri. E ora anche la "jiza", la tassa storicamente imposta dai musulmani ai sudditi "infedeli", quelli che ancora non sono fuggiti all'estero

di Sandro Magister


ROMA, 28 maggio 2007 – Nella guerra che insanguina l'Iraq, combattuta principalmente da gruppi musulmani contro altri musulmani e gli "infedeli", i cristiani iracheni sono gli unici che non utilizzano né armi né bombe, nemmeno per difendersi. Non esistono in Iraq milizie cristiane armate. Di fatto essi sono il gruppo più vulnerabile e perseguitato. Nel 2000 erano più di un milione e mezzo, il 3 per cento della popolazione. Oggi si stima che siano rimasti in meno di 500 mila.

In un comunicato ufficiale diffuso il 24 maggio, il governo iracheno ha promesso protezione alle famiglie cristiane minacciate e cacciate da gruppi terroristici islamici. Anche alcuni esponenti musulmani hanno espresso solidarietà. Il passo del governo – privo però di iniziative concrete – fa seguito al drammatico appello lanciato domenica 6 maggio da Emmanuel III Delly, patriarca dei caldei, la più cospicua comunità cattolica irachena, nell'omelia della messa celebrata nella chiesa di Mar Qardagh, ad Erbil, nel Kurdistan.

La regione curda, a settentrione di Baghdad, è la sola in Iraq dove oggi i cristiani vivono in relativa sicurezza. Ad Erbil è stato trasferito il seminario caldeo di Baghdad, il Babel College con la biblioteca, i cui edifici, nella capitale, sono divenuti piazzaforte delle truppe americane, nonostante le proteste del patriarcato.

Nelle città curde di Erbil, Zahu, Dahuk, Sulaymaniya, Ahmadiya e nei villaggi cristiani del circondario affluiscono i profughi cristiani dal centro e dal sud del paese.

Poco più a nord, però, nella regione di Mosul e nella piana di Ninive, il pericolo si fa di nuovo palpabile. Qui è la culla storica del cristianesimo in Iraq. Vi sono chiese e monasteri che risalgono ai primissimi secoli. In alcuni villaggi si parla ancora un dialetto aramaico chiamato sureth e nelle liturgie si usa l'aramaico, che era la lingua di Gesù. Sono presenti comunità di vari riti e dottrine: caldei, siro-cattolici, siro-ortodossi, assiri d'Oriente, armeni cattolici e ortodossi, greco-melchiti.

I villaggi cristiani sono però circondati da popolazioni musulmane ostili. E ancor più pericolosa è la vita dei cristiani nella capitale della regione, Mosul. I sequestri di persona sono frequentissimi. Il rilascio avviene dopo che i famigliari hanno versato una somma tra i 10 e i 20 mila dollari, oppure hanno accettato di cedere le loro case e lasciare la città. Ma il sequestro può anche finire nel sangue. Nel settembre del 2006, dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, un gruppo denominato "Leoni dell'islam" sequestrò padre Paulos Iskandar, siro-ortodosso. I rapitori pretesero che trenta fogli di scuse per le offese arrecate all'islam fossero affissi sulle chiese di Mosul. Poi lo decapitarono. Lo stesso giorno, a Baghdad, fu ucciso un altro sacerdote, padre Joseph Petros. Disse una suora all'agenzia vaticana Fides: "Gli imam nelle moschee predicano che uccidere un cristiano non è reato. È una caccia all'uomo".

Pascale Warda, una cristiana assira, ministro dell'immigrazione nel penultimo governo iracheno, crede che sia necessario creare una provincia autonoma nella piana di Ninive, una specie di area protetta non solo per i cristiani ma anche per altre minoranze religiose come gli yazidi, cultori di un'antichissima religione prezoroastriana. Ma l'intensificarsi delle aggressioni da parte di musulmani che vivono nella stessa regione rende l'ipotesi impraticabile. Lo scorso aprile, 22 yazidi sono stati fatti scendere da un bus e uccisi su una strada vicino a Mosul. Nel 2005, un assalto terrorista massacrò i quattro assiri che scortavano la ministro.

A Mosul gruppi islamici hanno cominciato ad esigere dai cristiani il pagamento di una tassa, la jiza, il tributo storicamente imposto dai musulmani ai loro sudditi cristiani, ebrei e sabei che accettavano di vivere in regime di sottomissione, come "dhimmi".

Ma è soprattutto a Baghdad che la jiza è imposta ai cristiani in modo sempre più generalizzato. Nel quartiere di Dora, 10 chilometri a sud-ovest della capitale, ad alta concentrazione di cristiani, gruppi legati ad al Qaeda hanno instaurato un sedicente "Stato islamico nell'Iraq" e riscuotono sistematicamente la tassa, fissata tra i 150 e i 200 dollari l'anno, l'equivalente del costo vita di un mese per una famiglia di sei persone. L'esazione del tributo si sta estendendo ad altri quartieri di Baghdad, verso al-Baya'a e al-Thurat.

Ad alcune famiglie cristiane di Dora è stato detto che possono restare solo se danno in sposa una figlia a un musulmano, in vista di una progressiva conversione all'islam dell'intera famiglia. Una fatwa vieta di portare al collo la croce. Quanto alle chiese, avvertimenti a colpi di granata hanno imposto di togliere le croci dalle cupole e dalle facciate. A metà maggio, la chiesa assira di San Giorgio è stata data alle fiamme. Sette sacerdoti sono stati finora sequestrati nella capitale. L'ultimo, nella seconda metà di maggio, è stato padre Nawzat Hanna, cattolico caldeo.

Secondo una stima del governo iracheno, la metà dei cristiani hanno lasciato Baghdad e i tre quarti se ne sono andati via da Bassora e dal sud. Chi non si ferma nel Kurdistan se ne va all'estero. Si calcola che in Siria vi siano fino a 700 mila cristiani arrivati dall'Iraq, altrettanti in Giordania, 80 mila in Egitto, 40 mila in Libano. I più restano lì bloccati, senza assistenza né diritti, in attesa di un improbabile visto per l'Europa, l'Australia, le Americhe.

In Iraq i cristiani sono tradizionalmente presenti nelle professioni. Molti sono medici e ingegneri. Nelle scuole sono – erano – il 20 per cento degli insegnanti. Sono attivi nei settori informatico, edilizio, alberghiero, agricolo specializzato. Gestiscono radio e tv. Fanno i traduttori e gli interpreti, professione particolarmente vulnerabile che ha già contato trecento vittime.

La costituzione irachena stabilisce per tutte le religioni una parità di diritti che non ha eguali nelle legislazioni degli altri paesi arabi e musulmani. Ma la realtà è opposta. Ha scritto la rivista di geopolitica "Limes" in un servizio sul suo ultimo numero, il terzo del 2007:

"L'annientamento del piccolo grande popolo cristiano iracheno, erede della speranza dei profeti, corrisponderebbe alla fine della possibilità che il nuovo Iraq diventi una nazione libera e democratica".

E sarebbe una drammatica sconfitta anche per la Chiesa.

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