lunedì 28 maggio 2007

INTERVISTA AL VESCOVO DON LUIGI NEGRI


Tempi num.19 del 10/05/2007
Cultura
Luigi Negri
Il popolo di Dio non è affatto morto e il vero
umanesimo viene dalla Dottrina sociale cara
a Giovanni Paolo II. Così parla un vescovo che non le manda a dire. Soprattutto ai cattolici
di Persico Roberto





È visibilmente provato, monsignor Luigi Negri. Ha appena terminato la lezione con cui ha inaugurato la serie di incontri dedicati alla Dottrina sociale della Chiesa, organizzati dalla Fondazione Giovanni Paolo II per il Magistero sociale della Chiesa da lui promossa all'indomani della nomina a vescovo della diocesi di San Marino e Montefeltro. Una sintesi magistrale della parabola dell'uomo moderno che si fa Dio, sogna di costruire lo Stato perfetto e finisce per ridursi a "pezzo di materia o cittadino anonimo della città terrena", a cui la Chiesa contrappone il Dio che si fa uomo, e mostra con la Dottrina sociale che solo riconoscendo la strutturale dimensione religiosa si può costruire una società amica degli uomini.

Monsignore, chi è don Luigi Negri?

La mia storia si identifica con quella di don Luigi Giussani, che ho incontrato al liceo e poi ho seguito per tutta la vita. È stata l'esperienza che mi ha aiutato a recuperare anche tutta la grandezza della tradizione religiosa in cui ero stato educato, perché mi ha permesso di riscoprirne il valore nel presente: mi ha insegnato a vivere la fede nella vita, senza nessuna separazione tra la vita e la fede. Nel movimento di Comunione e liberazione ho fatto l'esperienza dell'appartenenza a Dio nella Chiesa, perché Cl non è altro che l'esperienza della Chiesa, la possibilità di fare esperienza della Chiesa in tutte le circostanze della vita, nel mangiare e nel bere. «Sia che mangiate, sia che dormiate, siete di Cristo»: quante volte don Giussani ci avrà ripetuto questa frase di san Paolo! Dentro questa esperienza di totale corrispondenza fra l'avvenimento cristiano e il desiderio di felicità che mi portavo dentro tutto il resto è venuto di conseguenza.

E che cos'è di preciso questo "resto"?

Quell'incontro ha determinato tutto della mia vita. In primo luogo gli interessi: la passione per la cultura, non come ricerca fine a se stessa, ma come come lotta per la verità. Da comunicare a tutti: ai giovani, ai non specialisti. Per questo ho deciso di insegnare e ho sempre partecipato alla vita di Cl negli ambiti della scuola e dell'educazione. Dando anche un grosso contributo alla ripresa dell'idea di scuola libera. In un'epoca in cui il famoso convegno su Evangelizzazione e promozione umana del 1976 festeggiava la fine della "supplenza" della Chiesa e salutava finalmente il tempo in cui l'educazione sarebbe stata tutta dello Stato, siamo stati quasi gli unici a rilanciare in tutto il mondo cattolico e non solo l'idea che la scuola dev'essere libera se vuol essere scuola. Se Benedetto XVI ha potuto riproporre il tema dell'educazione cattolica è perché le scuole cattoliche non sono morte; e se non sono morte si deve molto a noi. Poi l'attività per divulgare i libri di don Giussani e il magistero sociale della Chiesa. E poi è arrivata questa nomina.

Come ha accolto la nomina a vescovo?

L'ho sentita come una grande conferma della verità dell'esperienza di Cl. Perché io non ho mai rivestito ruoli ecclesiastici, quelli che di solito si trovano nel curriculum di un vescovo, ho sempre fatto un lavoro "laico". Eppure è bastato per fare il vescovo: perché l'esperienza di don Giussani è l'esperienza della Chiesa, e il Papa ha giudicato che chi l'ha fatta adeguatamente può guidare il popolo di Dio.
Cosa vuol dire per lei ora guidare un pezzo del popolo di Dio in forza dell'esperienza di Cl che vive?
Vuol dire vivere con questa gente nella varietà delle situazioni in cui si trova per accompagnarla a fare l'esperienza della Chiesa come popolo; un popolo salvaguardato dall'oggettività dei sacramenti, in cui la fede diventa cultura, carità e missione. In ogni situazione, anche, come mi è capitato recentemente, in ospedale o in carcere; perché non c'è situazione della vita in cui Cristo non possa essere presente e operante come fattore di trasformazione verso una vita più umana. Il popolo cristiano non è ancora morto, ha ragione Benedetto XVI, è una grande risorsa, per sé e per la società, perché è una testimonianza vivente di una possibile bellezza della vita. Non ho la preoccupazione di far passare forme: sono contento della presenza nella mia diocesi di gruppi di ogni carisma, di ogni carisma che fa fare l'esperienza dell'unità della Chiesa e del suo incremento missionario. Mi preoccuperei se i contenuti di queste associazioni fossero imprecisi dal punto di vista del dogma, non tenessero presente fino in fondo i valori fondamentali della fede, o fossero privi di carità nei confronti di alcuni o di altri; ma se non ci sono problemi sulla fede o sulla morale ciascuno vada a fondo della sua esperienza e contribuisca con la sua esperienza all'edificazione dell'unica Chiesa di Dio.
Lei ha sempre insistito sulla contrapposizione tra la modernità e la Chiesa.
La contrapposizione non è un problema astratto: io l'ho sperimentata fin da quando il cristianesimo, noi, eravamo attaccati al liceo. Del resto non è la Chiesa che è contro la modernità: è la modernità che è contro la Chiesa. La Chiesa non è programmaticamente contro niente e contro nessuno, se non il demonio. La contrapposizione è un fatto storico. Non vedo come si possa essere cristiani senza avvertire, con dolore, questa dialettica. Non per condannare, ma per soccorre gli uomini che ne sono vittime. Come ha detto Giovanni Paolo II, la Chiesa è di fronte alla modernità come il buon samaritano: l'umanità ritrova se stesa se ritrova Cristo. E recupera la modernità migliore, valorizza tutto quel che nella modernità c'è di buono, come il gusto del particolare che aveva messo in luce il mio grande maestro monsignor Francesco Olgiati in un libro, L'anima dell'Umanesimo e del Rinascimento, che Vita e Pensiero dovrebbe ripubblicare. Noi non abbiamo avuto come programma andare contro la modernità; abbiamo patito i rigori della modernità, basti pensare a come sono state per anni insegnate la storia e la filosofia nelle scuole. L'abbiamo criticata per una preoccupazione per la verità e per una preoccupazione educativa.

È in questa preoccupazione che si iscrive anche la valorizzazione - anche questa controcorrente rispetto al mondo cattolico dominante - del magistero sociale della Chiesa?

Sì, perché la Dottrina sociale è stato il modo con cui la Chiesa ha risposto alla sfida della modernità. Non in modo generico, ma entrando nel merito, sfidando punto per punto i presupposti del tentativo moderno di costruire «sistemi talmente perfetti da rendere inutile all'uomo di essere buono», come ha scritto Eliot. Solo una società - spiega il Magistero sociale - che affermi la priorità della persona sulla società e della società civile sullo Stato è in grado di valorizzare la libertà umana. Cioè di liberare la persona, che è poi lo scopo per cui Gesù è venuto sulla terra: si può dire che la Dottrina sociale è uno strumento per mostrare agli uomini, nelle specifiche circostanze di oggi, la bontà e la bellezza di Cristo.
Dunque non è un caso che il Papa abbia appena dedicato un libro proprio a Gesù.
Aver scritto questo libro è stata un'intuizione pedagogica fondamentale. Perché non è un atto di Magistero, ma è uno strumento che dilata l'importanza e la fecondità del Magistero: riproporre oggi la figura di Gesù nella sua verità storica, facendo giustizia di tutto questo marasma di interpretazioni, di separazioni del Gesù della storia dal Cristo della fede, offre a chi si sente annunziare la grande pretesa di Gesù una possibilità di entrare in modo più comprensivo dentro questo mistero. Io credo che questo libro sia l'espressione dello "studium Christi" di Benedetto XVI: "studium" vuol dire amore, amore che diventa insegnamento, non magisteriale ma teologico e culturale, messo a disposizione di quelli che vogliono capire sempre di più il mistero di Cristo, che non si capisce solo seguendo il Magistero, ma anche usando altri strumenti. Il libro del Papa si colloca esplicitamente accanto ad altri grandi libri - Il Signore di Romano Guardini, Gesù il Cristo di Karl Adams, la Storia di Cristo di Papini - la cui lettura quando ero ragazzo ha dato sostanza all'insegnamento della Chiesa.

Sabato il popolo cristiano scende in piazza a difesa di uno dei suoi valori più cari, la famiglia. Cosa ne pensa?

Il Family day è una grande testimonianza che i cristiani danno, soprattutto di fronte ai giovani. I Dico sono l'espressione di una vita di basso profilo, incapace di gratuità, del dominio dell'istintività e del benessere. Poi è impossibile accettare l'equiparazione tra omosessualità ed eterosessualità che compare fin dalla prima riga del primo articolo della proposta di legge, dicendo chiaro quale è il suo obiettivo, a dispetto di tutte le interpretazioni minimaliste delle varie Rosy Bindi, Marini e cattocomunisti assortiti. È una concezione che prima di essere contro il cristianesimo è contro la natura. La famiglia è un'altra cosa. La famiglia naturale implica la comunicazione della vita, la dedizione all'altro, un'etica della gratuità. Si corre il rischio di mettere al mondo dei figli, si corre il rischio di educarli, è un altro mondo. La famiglia cristiana è uno dei segni più grandi che quella trasformazione del mangiare e del bere che rende più umana la vita è possibile. Il popolo cattolico non può nascondere questa misura alta della vita dicendo che è solo per sé: nell'apparente volontà di non invadere il campo altrui c'è un enorme tradimento. Il mondo cattolico deve proclamare la novità cristiana fino alle estreme conseguenze nella materialità della vita. La cosa che mi ha colpito di più dell'incontro di Cl col Papa il 24 marzo scorso è che su ottantamila persone c'erano diecimila bambini sotto i dieci anni: il nostro popolo, al di là del benessere e del consumismo e dell'imperativo diffuso di non fare figli, fa ancora esperienza della bellezza dell'avventura cristiana.



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