E chi è il protagonista se non colui che guarda la realtà (quindi non è ripiegato su di sé), proiettandosi su di essa con tutta la forza “motrice” delle sue domande?
GUARESCHI: «Non muoio neanche se mi ammazzano».
SOlZENICYN:«Vivere senza menzogna».
.....Perché il quotidiano non è banale, se l’io è protagonista.....
di Pigi Colognesi
Tratto da Il Sussidiario.net il 2 settembre 2008
Uno che è stato al Meeting di Rimini può, adesso che i padiglioni della fiera sono chiusi e settembre porta con sé la ripresa della vita normale, ragionevolmente chiedersi: «Sono più protagonista?». Ognuno non può che rispondere per se stesso. Provo a farlo anch’io.
Tralascio volutamente di soffermarmi sulle grandi testimonianze che hanno costellato i giorni riminesi. Sono state certamente i momenti più emozionanti. E uso questa parola nel suo significato letterale e non sentimentale: e-mozionante significa che le parole sentite dai testimoni che si sono succeduti sul palco mi hanno tirato fuori da me («e») per spingermi («mozione») in avanti. E chi è il protagonista se non colui che guarda la realtà (quindi non è ripiegato su di sé), proiettandosi su di essa con tutta la forza “motrice” delle sue domande?
Ma, dicevo, vorrei concentrarmi su un altro itinerario: quello delle mostre. Dal punto di vista mediatico sono forse l’aspetto più sacrificato del Meeting; per contro ne rappresentano la più facile forma di continuità: basta organizzarsi e le si può portare nella propria città.
Prendo le mosse da due fotogrammi del filmato che correda la mostra sulla Primavera di Praga del 1968. Nel primo si vede un giovane che mette un cubetto di porfido nel cingolo di un carro armato sovietico. Mi ha fatto tornare alla mente il disarmato studente di piazza Tienanmen che, da solo, ha bloccato, anche se soltanto per qualche minuto, una intera colonna di tank. Davide e Golia, certo. Ma quelle immagini ti restano dentro come emblema di un protagonismo indistruttibile; i carri armati se ne vanno, il gesto di quel ragazzo no.
Il secondo fotogramma è quello che inquadra Jan Palach nel suo letto di morte. Si era dato fuoco nella piazza centrale di Praga per protestare contro la negazione della più elementare delle libertà, quella di espressione. Il suo è stato un protagonismo tragico, nell’immediato fallimentare. Ma anch’esso resta perenne a ricordarmi che c’è sempre un prezzo da pagare per essere se stessi.
Il prezzo che un carcerato paga alla società per il male che ha fatto dovrebbe contemplare la sua possibilità di «redimersi», di ritornare, cioè, in quella stessa società da protagonista positivo. Spesso non è così; anzi, la galera diventa scuola negativa, impossibilità radicale; ben che vada un periodo di sospensione della vita. A meno che qualche incontro speciale susciti di nuovo la speranza. La mostra «Libertà va cercando ch’è sì cara.
Vigilando redimere» ha mostrato con chiarezza che nessun vincolo esterno è così condizionante da impedire l’espressione dell’io, la sua creatività. Che, magari, si esprime nella confezione di dolci particolarmente prelibati, come quelli che i carcerati di Padova hanno messo in vendita a Rimini.
Se cerco di immedesimarmi in un carcerato, credo che una delle cose peggiori sia il senso di limitatezza degli orizzonti, la percezione che tutto finisca coi muri angusti della propria cella. Soffochi.
Ma a ben guardare casa mia potrebbe essere percepita come una prigione e il mondo stesso, in fondo, è una stanza troppo piccola per l’orizzonte, infinito, del mio desiderio. Ma se, come cantava Gino Paoli, nella tua stanza entra il cielo, essa stessa diventa cielo.
La straordinaria avventura degli esploratori portoghesi del quattro-cinquecento è un esempio storicamente cruciale di questa dinamica: la certezza di avere una dimensione infinita ti rende capace di affrontare nuovi spazi. E allora, come ha messo in rilievo la mostra «Dati dal cielo, per riportare il mondo al cielo. I portoghesi nel tempo delle scoperte», puoi avventurarti nello spazio immenso dell’oceano alla ricerca di nuove terre.
Sembra tutto facile, ma poi il viaggio è pieno di difficoltà, di intoppi, di contraddizioni. Sono gli ostacoli che ci logorano, che ci fanno pensare che sarebbe stato meglio non partire, che è più prudente accontentarsi e ridurre – o chiudere del tutto – l’angolo del desiderio.
Di fronte a questa tentazione diventa decisiva la testimonianza di chi, invece, non si è mai rassegnato. E nelle mostre di Rimini ne abbiano avuto esempio da due giganti della letteratura, seppur diversissimi tra di loro.
Giovannino Guareschi ha tenacemente difeso la sua diversità culturale, senza piegarsi mai a quello che oggi chiameremmo «politicamente corretto» (e può essere tale la mania di negare e contestare tutto). La frase che dà il titolo alla mostra a lui dedicata dice già tutto: «Non muoio neanche se mi ammazzano».
L’altro grande è Solženicyn. Il suo motto esistenziale è stato «Vivere senza menzogna». Così, mentre la propaganda sovietica magnificava le «magnifiche sorti e progressive» del socialismo realizzato, egli ha svelato al mondo interro l’atroce realtà del GULag: un arcipelago di terrore, nel quale però non è spenta la scintilla della persona, dell’io.
Verrebbe da citare la lettera agli Ebrei, quando parla di noi che siamo «circondati da un così gran nugolo di testimoni» (e non abbiamo spazio per parlare di Tovini, di Leopardi, e delle altre mostre del Meeting). Testimoni che ci sostengono nel nostro quotidiano essere protagonisti. Perché il quotidiano non è banale, se l’io è protagonista. Viene in mente la spettacolare formella del campanile di Giotto in una della ultime sale della grande mostra Exempla: uno scalpellino che ha la sublime dignità di Fidia.
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