Con questo blog desidero dare la possibilita' a tutti di leggere articoli ,commenti ,interventi che mi aiutano a guardare la realta', a saperla leggere ed essere aiutati a vivere ogni circostanza positivamente. Mounier diceva "la vita e' arcigna con chi le mette il muso" (lettere sul dolore). E' importante saper abbracciare la realta' tutta per poter vivere la giornata con letizia.
sabato 10 marzo 2007
EDITORIALE MEDICINA E PERSONA 9 MARZO 2007
L'ambiguità colpevole della 194 e l'handifobia uccidono un "bambino" di 22 settimane.
Il bambino che è stato ucciso a Firenze avrebbe avuto un nome e un'esistenza come quella di tutti noi, se solo fosse stato lasciato vivere.
Il suo è stato, a chiamarlo come si deve (se ancora i termini hanno un significato) un aborto eugenetico, non terapeutico. Di quelli cioè che la nostra legge, piena di ambiguità, la 194/78, non dovrebbe mai permettere. Invece sì, e non solo in questo caso, perchè la 194 permette l'aborto, oltre il termine di legalità stabilito, cioè oltre la 12° settimana di gestazione, e quando il feto è ormai vitale, solo in caso di "grave rischio per la vita della madre" (art.7). Terapeutico dunque ma per chi? Per il bambino che ha una malformazione? Anche nel caso si tratti (come peraltro in questo caso) di malformazione curabile chirurgicamente, è terapeutico non nei confronti di chi è malato - infatti il bambino viene abortito (strana terapia, quella che viene proposta al giorno d'oggi: eliminare il malato e non la malattia!) - ma assurdamente nei confronti della madre, che altrimenti rischierebbe non la vita, ma un danno psichico.
Dunque, violazione della legge 194/78. Ma non è finita: la legge viene violata per questo aspetto, ma rispettata circa la ranimazione del feto, che come previsto nasce vitale, e viene quindi rianimato, con scarse probabilità di sopravvivenza (30%). Il bambino muore.
Proviamo a riflettere sulla mostruosità della vicenda, che la realtà ci ha messo davanti svelandone i passaggi. E' ancora una volta la realtà ad essere maestra, se però la guardiamo con occhi "puri".
Un bambino a cui viene diagnosticata una sospetta malformazione; si crea nella madre probabilmente il dubbio e il timore-angoscia, comprensibili, di una patologia (handifobia) e forse il sospetto che non tutto le sia stato detto (altro punto del malessere di oggi: che fiducia può avere avuto questa donna nei confronti di chi le stava dando informazione, nonostante i vari consensi informati, le tappe diagnostiche: che rapporto avrà mai avuto con l'operatore che le stava davanti?; ecco l'importanza cruciale del rapporto a due tra medico e paziente!); se stiamo a quanto asserito dai medici sui giornali, il dubbio si è insinuato così profondamente in lei che nemmeno l'esclusione quasi sicura della patologia e il consiglio di concludere le indagini con una risonanza magnetica per la conferma di normalità viene accettato. Quindi l'atto conclusivo, che è il più doloroso, perchè più atroce: il colloquio con lo psichiatra, da cui la certificazione di richiesta di aborto, a 22 settimane, per salvaguardare la salute psichica della madre.
Domandiamoci ora: se davvero lo psichiatra avesse avuto a cuore il bene della donna avrebbe rilasciato il certificato oppure le avrebbe consigliato di concludere gli accertamenti? Perchè, se davvero la preoccupazione, che non condividiamo comunque, è quella di salvaguadare la salute psichica di una donna, ora, ad avvenimenti conclusi, quale salute psichica potrà mai vivere la stessa donna? Quale pace potrà mai esserle donata dopo aver deciso di non concedere nessuna possibilità di vita a un figlio, per di più sano? E lo stesso per i professionisti che l'hanno assistita: se avessero insistito di più? Se avessero rischiato con più forza ed autorevolezza il loro parere, contro l'autodeterminazione, parere forse frainteso, mal interpretato, non accettato?
La realtà si torce contro; la realtà è testarda, diceva qualcuno. E' più forte di noi nel metterci davanti le sue evidenze, proprio quando progettiamo in modo accurato la nostra vita. Qui di evidenze ce ne sono così tante e tutte insieme da far fatica a raccapezzarcisi.
Infine: lui chiedeva solo di vivere; è stato chiamato dai quotidiani "un aborto sbagliato".
In una società come la nostra, un fatto come questo è il segno più grande finora accaduto che c'è bisogno di perdono. E di ricominciare discutendo tutto quello che c'è da imparare da un fatto così - ridiscutere la legge, talmente e vergognosamente ambigua, farla applicare nell'aspetto preventivo...e tutto quello che si vuole....che è tanto, c'è tanta strada da percorrere...la ricostruzione di rapporti umani, u-m-a-n-i, in cui porre fiducia, in cui gli uomini si guardino da uomini-. Se no, come farebbe una madre a riconciliarsi con la vita, con la sua vita, con i professionisti che ha incontrato? E come faranno i professionisti? Perchè davvero ne va della loro vita, ora. Ci auguriamo che cerchino e trovino questo perdono. Perchè c'è, è possibile. Solo da qui la pace.
La Redazione
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