Cardinal Biffi al Papa e alla Curia: la Chiesa è santa, nonostante i peccati dei suoi figli
"La Chiesa fa memoria della Redenzione di Cristo, principio e centro del disegno del Padre, che porta nella sua carne di Crocifisso e Risorto le tracce di una dura lotta del male contro il bene
CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 1° marzo 2007 La santità della Chiesa, Sposa del Signore, è eterna nonostante la debolezza e i peccati di alcuni dei suoi figli, ha constatato questo giovedì il predicatore degli esercizi spirituali ai quali partecipano Benedetto XVI e la Curia Romana.
Il Cardinale Giacomo Biffi ha sottolineato la necessità di un’ecclesiologia anagogica, vale a dire trascendente, volta a dare l’idea della beatitudine eterna e dell’elevazione dell’anima nella contemplazione cristiana.
Una delle mete irrinunciabili dell’impegno pastorale è quella di far riscoprire al Popolo di Dio – ai piccoli, come dobbiamo essere tutti – la gioia e l’orgoglio dell’appartenenza ecclesiale, ha sottolineato il Cardinale Biffi, secondo quanto riferito dalla “Radio Vaticana”.
E’ una delle necessità urgenti di questo momento, come anche degli inizi del cristianesimo, ha constatato.
La Chiesa, sposa e corpo di Cristo, i cui membri – il Popolo di Dio – camminano nella storia umana, brilla con innumerevoli testimonianze eroiche, con i suoi insegnamenti lucidi e coraggiosi, con i suoi impressionanti esempi di carità e con le sue eccezionali manifestazioni di bellezza. Nel disegno della Sapienza divina e nel suo piano salvifico, conosce il mistero della realtà storica delle colpe umane.
La Chiesa fa memoria della Redenzione di Cristo, principio e centro del disegno del Padre, che porta nella sua carne di Crocifisso e Risorto le tracce di una dura lotta del male contro il bene.
Grazie a lui, ha concluso, il bene vince in modo definitivo ed eterno.
Benedetto XVI sta dedicando questa settimana alla preghiera, motivo per il quale non ha udienze. Gli esercizi spirituali si concluderanno sabato mattina.
Il messaggio di potere e consolazione della Trasfigurazione, secondo il predicatore del Papa
Commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., alla liturgia di domenica prossima
ROMA, venerdì, 2 marzo 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il commento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap. – predicatore della Casa Pontificia – alla liturgia di domenica prossima, II di Quaresima.
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SALÌ SUL MONTE A PREGARE
II Domenica di Quaresima
Genesi 15, 5-12.17-18; Filippesi 3, 17-4,1; Luca 9, 28b-36
Il vangelo di domani è l'episodio della Trasfigurazione. Luca, nel suo vangelo, dice anche il motivo per cui Gesú quel giorno "salì su un alto monte": vi salì "per pregare". Fu la preghiera che rese il suo vestito bianco come la neve e il suo volto splendente come il sole. Secondo il programma illustrato la volta scorsa, noi vogliamo partire da questo episodio per esaminare il posto che la preghiera occupa in tutta la vita di Cristo e cosa essa ci dice sull'identità profonda della sua persona.
Qualcuno ha detto: "Gesú è un uomo ebreo che non si sente identico a Dio. Non si prega infatti Dio se si pensa di essere identico a Dio". Lasciando da parte per il momento il problema di cosa Gesú pensasse di se stesso, questa affermazione non tiene conto di una verità elementare: Gesú è anche uomo ed è come uomo che prega. Dio non potrebbe neppure avere fame e sete, o soffrire, ma Gesú ha fame e sete e soffre perché è anche uomo.
Al contrario, vedremo che è proprio la preghiera di Gesú che ci permette di gettare uno sguardo nel mistero profondo della sua persona. È un fatto storicamente attestato che Gesú, nella sua preghiera, si rivolgeva a Dio chiamandolo Abbà, cioè caro padre, padre mio, e perfino papà mio. Questo modo di rivolgersi a Dio, pur non del tutto ignoto prima di lui, è talmente caratteristico di Cristo da obbligare ad ammettere un rapporto unico tra lui e il Padre celeste.
Ascoltiamo una di queste preghiere di Gesú, riportata da Matteo: "In quel tempo Gesù disse: Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. "Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11, 26-27). Tra Padre e Figlio c'è, come si vede, una reciprocità totale, "uno stretto rapporto famigliare". Anche nella parabola dei vignaioli omicidi emerge chiaro il rapporto unico, come di figlio a padre, che Gesú ha con Dio, diverso da quello di tutti gli altri che sono chiamati "servi" (cf. Mc 12, 1-10).
A questo punto sorge però un'obbiezione: perché allora Gesú non si è attribuito mai apertamente il titolo di Figlio di Dio durante la sua vita, ma ha parlato sempre di se come del "figlio dell'uomo"? Il motivo è lo stesso per cui Gesù non dice mai di essere il Messia e quando altri lo chiamano con questo nome è reticente, o addirittua proibisce di dirlo in giro. La ragione di questo modo di comportarsi è che quei titoli erano intesi dalla gente in un senso ben preciso che non corrispondeva all'idea che Gesù aveva della sua missione.
Figlio di Dio erano detti un po’ tutti: i re, i profeti, i grandi uomini; per Messia si intendeva l'inviato di Dio che avrebbe combattuto militarmente i nemici e regnato su Israele. Era la direzione in cui cercava di spingerlo il demonio con le sue tentazioni nel deserto… I suoi stessi discepoli non avevano capito questo e continuavano a sognare un destino di gloria e di potere. Gesú non intendeva essere questo tipo di Messia. "Non sono venuto, diceva, per essere servito, ma per servire". Egli non è venuto per togliere la vita a qualcuno, ma "per dare la vita in riscatto per molti".
Cristo doveva prima soffrire e morire perché si capisse che tipo di Messia era. È sintomatico che l'unica volta che Gesú si proclama lui stesso Messia è mentre si trova in catene davanti al Sommo Sacerdote, in procinto di essere condannato a morte, senza più possibilità ormai di equivoci. "Sei tu il Messia, il Figlio di Dio benedetto?", gli domanda il Sommo Sacerdote, e lui risponde: "Io lo sono!" (Mc 14, 61 s.).
Tutte i titoli e le categorie dentro cui gli uomini, amici e nemici, cercano di inquadrare Gesú durante la sua vita, appaiono strette, insufficienti. Egli è un maestro, "ma non come gli altri maestri", insegna con autorità e in nome proprio; è figlio di David, ma è anche Signore di David; è più che un profeta, più che Giona, più che Salomone. La domanda che la gente si poneva: "Chi è mai costui?" esprime bene il sentimento che regnava intorno a lui come di un mistero, di qualcosa che non si riusciva a spiegare umanamente.
Il tentativo di certi critici di ridurre Gesú a un normale ebreo del suo tempo, che non avrebbe detto e fatto nulla di speciale, è in contrasto totale con i dati storici più certi che possediamo su di lui e si spiega solo con il rifiuto pregiudiziale di ammettere che qualcosa di trascendente possa apparire nella storia umana. Tra l'altro, non spiega come un essere così ordinario sia diventato (a detta di quegli stessi critici) "l'uomo che ha cambiato il mondo".
Torniamo ora all'episodio della Trasfigurazione per trarne qualche insegnamento pratico. Anche la Trasfigurazione è un mistero "per noi", ci riguarda da vicino. San Paolo, nella seconda lettura dice: "Il Signore Gesù Cristo trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso". Il Tabor è una finestra aperta sul nostro futuro; ci assicura che l'opacità del nostro corpo un giorno si trasformerà anch'essa in luce; ma è anche un riflettore puntato sul nostro presente; mette in luce quello che già ora è il nostro corpo, al di sotto delle sue misere apparenze: il tempio dello Spirito Santo.
Il corpo non è per la Bibbia un'appendice trascurabile dell'essere umano; ne è parte integrante. L'uomo non ha un corpo, è corpo. Il corpo è stato creato direttamente da Dio, assunto dal Verbo nell'incarnazione e santificato dallo Spirito nel battesimo. L'uomo biblico rimane incantato di fronte allo splendore del corpo umano: "Mi hai fatto come un prodigio. Sei tu che mi hai tessuto nel seno di mia madre. Sono stupende le tue opere" (Sal 139). Il corpo è destinato a condividere in eterno la stessa gloria dell'anima. "Corpo e anima, o saranno due mani giunte in eterna adorazione, o due polsi ammanettati per una cattività eterna" (Ch. Péguy). Il cristianesimo predica la salvezza del corpo, non la salvezza dal corpo, come facevano, nell'antichità, le religioni manichee e gnostiche e come fanno ancora oggi alcune religioni orientali
Che dire però a chi soffre? a chi deve assistere alla "sfigurazione" del corpo proprio, o di quello di una persona cara? Per costoro è forse il messaggio più consolante della Trasfigurazione. "Egli trasfigurerà il nostro misero corpo conformandolo al suo corpo glorioso". Saranno riscattati i corpi umiliati nella malattia e nella morte. Anche Gesù, di lì a poco, sarà "sfigurato" nella passione, ma risorgerà con un corpo glorioso, con il quale vive in eterno e al quale, la fede ci dice che andremo a ricongiungerci dopo morte.
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