LA PIU' PICCOLA NEONATA ORA IN BRACCIO ALLA SUA MAMMA
UNA SISTEMATICA VIOLAZIONE DELLA LEGGE 194
EUGENIA ROCCELLA
Non è solo la donna, a dover scegliere, siamo noi tutti: di fronte a casi come questo dobbiamo sapere che non si tratta solo di malasanità, ma che è urgente decidere se costruire una società dell’accoglienza e della cura, o una società del rifiuto e dell’indifferenza
Il piccolo nato all’ospedale di Careggi in seguito a un tentativo di aborto tardivo non ce l’ha fatta; la sua breve lotta per la sopravvivenza si è spenta in una silenziosa resa. Si dirà che 22 settimane sono troppo poche, per vivere fuori dalla protezione del grembo materno. Eppure ricordiamo bene le foto di Amilla, la bimba di Miami nata a 21 settimane, così minuscola da poter essere chiusa nell’abbraccio di due mani. Il presidente della Società italiana di neonatologia, Claudio Fabris, ha spiegato che un feto che pesa meno di 500 grammi ha oggi circa il 30% di possibilità di vita, e ha invitato a non praticare più aborti ai limiti delle 22 settimane.
Malasanità, hanno commentato in tanti, da Ignazio Marino a Rosy Bindi; ossia errore diagnostico, sfortunato incidente di percorso, tra l’altro accaduto in una struttura considerata di eccellenza.
Forse però si tratta di altro, cioè di una sistematica violazione della legge 194, la stessa che tutti, a parole, difendono. In Francia il presidente della Commissione nazionale di bioetica, Didier Sicard, ha denunciato l’avanzata trionfante dell’eugenetica, che sta facendo piazza pulita della diversità umana grazie all’uso massiccio e mirato delle varie forme di diagnosi prenatale. Facendo leva sulle comprensibili ansie materne, sul desiderio umanissimo di avere un figlio in buona salute, vengono ormai eliminati feti con difetti minimi, che si potrebbero tranquillamente operare o curare, come alcune deformazioni del palato o del piede. O anche nascituri affetti da patologie con cui personaggi come Mozart e lo stesso Einstein hanno tranquillamente convissuto.
Meglio buttare che riparare, suggeriscono le nuove tendenze della scienza medica, in palese contraddizione con gli scopi per cui è nata. Adesso ci si affretta a riconoscere che i test prenatali si basano su una concezione probabilistica, e che difficilmente possono offrire certezze; ma a quante donne viene detto a chiare lettere che la diagnosi in base alla quale rinunciano al figlio è puramente ipotetica? Se il bambino di Careggi fosse morto subito, come era previsto, il caso non sarebbe approdato sulle prime pagine; e altrettanto sarebbe accaduto se la malformazione ipotizzata ci fosse stata davvero. Dunque è stato un incidente: perché è normale eliminare un feto di cinque mesi, ed è normale farlo soprattutto se ha un problema di salute, anche curabile. Ma la legge sull’interruzione di gravidanza non legittima l’aborto terapeutico, e vieta con chiarezza di abortire nel caso "sussista possibilità di vita autonoma" del nascituro, a meno che non vi sia "grave pericolo" per la vita della madre. Non si tratta di mettere in discussione la libera scelta della donna. In questo caso, per esempio, ogni responsabilità è stata velocemente addossata alla giovane madre, che immaginiamo frastornata e terrorizzata – come può esserlo una ventiduenne – da una diagnosi che le è apparsa come una condanna.
Le nostre scelte sono condizionate dall’informazione e dalla capacità di recepirla, dal grado di maturità e di consapevolezza, e in larga misura dalla cultura dominante.
In Francia i bambini Down sono praticamente scomparsi, grazie alla diagnosi prenatale e all’aborto; al contrario le donne svedesi scelgono in genere di tenersi i figli affetti da trisomia 21. La differenza tra i due Paesi è nella cultura, nel modo in cui è strutturato il sistema sanitario e il welfare. Non è solo la donna, a dover scegliere, siamo noi tutti: di fronte a casi come questo dobbiamo sapere che non si tratta solo di malasanità, ma che è urgente decidere se costruire una società dell’accoglienza e della cura, o una società del rifiuto e dell’indifferenza
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