venerdì 16 marzo 2007

ALLE RADICI DI UNA STORIA



Riporto un'intervista fatta un po' di anni fa ma sempre attuale.
"Era movimento ogni espressione dei nostri interessi: tutto diventava immediatamente oggetto di iniziativa, faceva parte dell'esperienza comune. Era un clima che dominava le nostre giornate ed era un pullulare di gesti"
..."ho visto don Giussani per la prima volta. Ebbi la netta sensazione che fino ad allora il mio essere cristiano avesse limitato la mia umanità, perché chi prendeva meno sul serio il cristianesimo mi appariva più uomo. L'aver incontrato don Giussani ha coinciso con un'esperienza che è stata di pienezza di umanità."
Venivo sfidato a una decisione. Prima mi si chiedeva di imparare una dottrina da mettere in pratica. Ora, invece, tutto passava attraverso il mio io.
"Oggi si fa fatica a parlare in termini umani di Gesù Cristo. Allora, Cristo era dentro anche la matematica, cosa di cui ci accusavano dandoci degli integralisti".


Tracce N. 3 > marzo 1997
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Gioventù Studentesca
Alle radici di una storia
Alberto Savorana
Due giessini della prima ora raccontano il loro incontro con la comunità cristiana. La forza di un inizio interamente giocato nello spazio di un rapporto. La ragione e gli interessi della vita. Nulla era programmato e tutto accadeva

«Con quale responsabilità, con quale autocoscienza, con quale implicazione di me dovevo rispondere e corrispondere a quello che incominciavo a intuire parlando loro! Capivo che non potevo rivederli il giorno dopo senza prendere posizione di fronte a questa dilatazione della questione: io appartenevo a quei tre ragazzi; appartenevo non a loro, ma all'unità con essi». Don Luigi Giussani ricorda così il primo giorno di insegnamento al liceo Berchet di Milano, ottobre 1954.
Evidentemente era accaduto qualche cosa. Ma, che ricordo ne hanno coloro - e furono tanti - che in quegli anni si imbatterono in Gioventù Studentesca? Carlo Wolfsgruber, allora studente del Berchet e oggi responsabile dei Memores Domini, e don Fabio Baroncini, quarant'anni fa studente di Lecco e ora parroco a Milano, ci hanno concesso di pubblicare gli appunti di una conversazione estemporanea che abbiamo avuto di recente. Ne emerge la forza di un inizio, interamente giocato nello spazio di un rapporto in cui ragione e libertà sono tenute nella massima considerazione. Ecco che cosa è saltato fuori.

Carlo: Era il '57, l'anno della mia prima liceo al Berchet. I miei amici erano ebrei, protestanti, atei ed io non ero più cristiano praticante. Ma allora non era normale chiedere l'esonero dall'ora di religione e così capitai per caso a lezione. Mi colpì subito quell'uomo che usava la ragione in modo inaudito, legato totalmente all'esperienza. Reinventava le parole solite, in lui assumevano uno spessore mai immaginato. Che poi credesse a Cristo e che la sua posizione umana gli derivasse da questo, ciò mi ha costretto a prendere in considerazione il problema di Cristo.
Ebbi la sensazione che a noi era stato svelato il segreto dell'uomo e del mondo. Ci era capitato questo. Eravamo stati scelti, ma questa coscienza non era tradotta in termini settari: era chiaro che il mondo non aspettava altro. Così, per esempio, il distribuire tutte le settimane sul banco di tutti l'ordine del giorno del raggio non era propaganda, ma possibilità offerta a tutti. Insomma, avevamo il compito di provocare gli altri alla loro esperienza.Noi avevamo in carico tutta la scuola ed era come avere in carico il mondo. Non il tentativo di propagandare un gruppo per farvi entrare gli altri. Era esattamente l'opposto. Tutto, infatti, era riferito all'esperienza personale. Non ho mai avuto la sensazione di essere dentro un gruppo.

Don Fabio
: Già allora era "movimento" la parola che definiva il fenomeno che era nato.

Carlo: Non c'era niente di pre-pensato, pre-confezionato, pre-programmato che doveva essere realizzato. Era movimento ogni espressione dei nostri interessi: tutto diventava immediatamente oggetto di iniziativa, faceva parte dell'esperienza comune. Era un clima che dominava le nostre giornate ed era un pullulare di gesti (quanti ne facemmo, ed eravamo così pochi e inevoluti!).

Don Fabio: Nel '55 avevo quattordici anni, venivo dall'Azione Cattolica e il mio prete mi disse: «A scuola vai a cercare gli altri dell'Ac, perché adesso c'è un prete a Milano che è incaricato si seguire gli studenti di Azione Cattolica». È stato così che mi hanno invitato a un ritiro a Varese, dove ho visto don Giussani per la prima volta. Ebbi la netta sensazione che fino ad allora il mio essere cristiano avesse limitato la mia umanità, perché chi prendeva meno sul serio il cristianesimo mi appariva più uomo. L'aver incontrato don Giussani ha coinciso con un'esperienza che è stata di pienezza di umanità. Il mio io, finalmente, realizzava la sua umanità. Ricordo la frase di Mario Vittorino che ci ripetevamo spesso: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto più uomo». Questo diventava un'esperienza, l'io veniva liberato secondo l'orizzonte dei propri interessi e quindi poteva affrontare tutto il mondo. Venivo sfidato a una decisione. Prima mi si chiedeva di imparare una dottrina da mettere in pratica. Ora, invece, tutto passava attraverso il mio io.
Tanto ero certo di questa novità, che sono corso dal mio prete e gli ho detto: «Lei, don Luigi, non ha capito nulla del cristianesimo». Avevo quattordici anni! Quello è saltato sulla sedia e mi ha domandato: «Perché mi dici questo?». Gli ho risposto: «Perché finora lei mi ha parlato solo di Dio, mai di Gesù Cristo».Nel "libretto verde" (Gs: riflessioni sopra un'esperienza; 1959; ndr) la partenza è tutta concetrata sull'io. Il fattore della comunità sorge come il ritrovarsi di una posizione umana così con altri; non è un a priori a cui in qualche modo bisogna aderire. Non un gruppo o un'associazione cui partecipare.

Carlo: Era in gioco il mio io e la comunità era il luogo dove c'erano persone che mettevano in gioco il proprio io, insieme.


Don Fabio
: La forza della ragione era giocata in tutto. Questo è il fattore che mi ha sconvolto all'età di quattordici anni quando ho ascoltato per la prima volta don Giussani raccontare l'esempio del conte di Castelseprio che vuole fare la pace col signore di Venegono Superiore. Chiama il servo della gleba e gli mette sulla gerla i donativi per la pace. Il servo va, ma siccome è agosto e fa caldo si stanca. Allora si ferma sotto un albero e che cosa fa? Mette davanti a sé la gerla colma di doni, ci infila la mano e tira fuori gli oggetti uno a uno: quello che è utile lo tiene, quello che è inutile lo getta via. Al termine del racconto don Giussani ci disse: «La vostra vita è questa gerla che avete sulle spalle. È venuto il momento di metterla davanti agli occhi, di porci dentro la mano e tirare fuori quello che c'è dentro. Dovete "criticare"». Era la prima volta che qualcuno chiamava in causa la mia ragione, invitandola ad esercitarsi sulla realtà. Infatti disse la frase: Panta dokimazete, to kalon katechete (I Ts 5,21), vagliate ogni cosa e trattenete ciò che vale.Così, la ragione, da una parte, e la libertà, dall'altra, erano sfidate totalmente.

Carlo: Eravamo sfidati e per questo sfidavamo tutti i nostri compagni di scuola a verificare il contenuto di quello che avevamo incontrato. "Verifica" fu la grande parola che mi accompagnò in quegli anni: passare al vaglio tutto, criticare ogni cosa.Nei dialoghi che aveva con noi, dentro e fuori della scuola, don Giussani ci diceva spesso: «Cristo non bara, perché si sottopone totalmente alla vostra esperienza». Analogamente noi non potevamo barare con Cristo. Il problema dell'essere cristiano oppure no si identificava col problema dell'impegno con la propria vita. E questo era estremamente conveniente per chiunque. Per questo avevamo il coraggio di invitare ebrei, protestanti, atei: era chiaro che portavamo una proposta interessante per l'uomo. A distanza di quarant'anni mi sento di dire che gli inizi di Gs hanno segnato un'epoca, perché hanno messo chi incontrava il movimento nato al Berchet di fronte alla propria esperienza umana con cui uno doveva fare i conti. Innanzitutto a cominciare dall'ora di religione, nella quale don Giussani ci parlava di Gesù Cristo come dell'ipotesi esplicativa della vita. Per questo il problema era impegnarsi con la propria esperienza umana, a quel livello della dinamica dell'io che chiamava "senso religioso". Tanto è vero che la frase di Vittorino citata da don Fabio io la ricordo così: «Da quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo»; uomo, senza il "più".

Don Fabio: C'era uno che ci diceva chi eravamo e allora ciascuno poteva considerarsi, prendersi sul serio. Quando si rivolgeva a noi Giussani sfidava il nostro interesse umano, quale esso fosse. Tutto veniva utilizzato positivamente. Mentre io venivo da un'esperienza che riduceva e limitava gli interessi culturali, con lui ci si trovava spalancati su tutta la cultura mondiale (tra l'altro, aveva un bagaglio culturale che lasciava allibiti).Per questo la proposta che ci faceva costituiva per noi un'ipotesi di lavoro totalizzante (sebbene vivessi a Lecco e incontrassi don Giussani una, due volte l'anno). Conservo ancora la prima edizione di Gs: riflessioni sopra un'esperienza, tutto pieno di annotazioni. Io e Angelo Scola ci trovammo per un anno intero, tutti i sabati pomeriggio, a cercare di capire che cosa significassero per noi quelle parole.

Carlo: Avere don Giussani come professore non significava per me avere uno che "suggerisse" le cose da dire o da fare. Ci comunicava, mostrandocelo in azione, un metodo per vivere ogni interesse. Ci si offriva compagno di una strada, non come maestro di una soluzione preconfezionata - e in questi quarant'anni questa evidenza si è solo rinnovata e approfondita -. Si offriva alla libertà nostra come uomo, non come prete e ci buttava nell'esperienza cristiana che era immediatamente missione, senza soluzione di continuità. Il fatto di avere trovato una cosa eccezionale non stabiliva un'isola felice, ma un compito. Da un certo punto in poi il contenuto dei miei dialoghi con gli amici, e anche coi nemici, fu Cristo e il cristianesimo.E poi era valorizzata un'educazione reciproca tra gli amici della comunità. Ognuno era richiamo per l'altro.

Don Fabio: Questo è proprio il concetto di "raggio". Ricordo un episodio: era il '60, e sono andato a trovare le vacanze estive degli istituti tecnici. Durante una gita vidi un ragazzo che, tenendo con la punta delle mani le stringhe delle scarpe, camminava tutto ricurvo. Gli domandai: «Scusa, ma che cosa fai?». E lui: «Cerco l'infinito!». Non era una boutade. C'era un clima per cui uno era determinato da una tensione.

Carlo: Il rapporto tra noi non era consolatorio, di sfogo, di direzione spirituale, non c'era niente di intimistico o sentimentale. Il compagno era un testimone e tu stesso ti concepivi come testimone. E la testimonianza era la tua esperienza che diventava interessante e comunicabile.

Don Fabio: E questo costituiva l'inizio reale di un mondo nuovo. Al punto tale che tutti i discorsi sulla cultura e sulla civiltà avevano una documentazione: c'era una umanità nuova, che provammo a comunicare con gesti e iniziative pubbliche. Io, per esempio, scrissi una "lettera aperta a un professore" sul Michelaccio e con Scola organizzai un convegno sul problema della scuola sfidando i professori che vennero tutti. A sedici anni, dopo il convegno di Gs «Vivere le dimensioni del mondo», scrissi a Giorgio La Pira chiedendogli di venire a Lecco e lui mi rispose.

Carlo: Convertirsi voleva dire acquisire una mentalità nuova. Una proposta eccezionale e normale nello stesso tempo. La comunità era il luogo di una nuova umanità.

Don Fabio: Don Fabio: Avevamo una presunzione di esperienza. Per questo fummo subito contrastati e questo diventava per noi fattore di incremento dell'esperienza stessa. Ricordo quando fui chiamato dal preside perché facendo il giornale studentesco giudicavamo la vita della scuola in un certo modo. E questo costrinse me e i miei amici a prendere coscienza delle ragioni dei gesti che compivamo.

Carlo: Comunque, la contestazione a noi non era il gruppo di Gs: ci attaccavano perché individuavano in noi la presenza cristiana in quanto tale, eravamo indicati come quelli che proponevano il cristianesimo tout court. Così, buttati in quell'agone, prendevamo coscienza di più della nostra esperienza.Di conseguenza la missione non era sentita come propaganda, ma come una possibilità per se stessi. Così come la caritativa. Caddi dalle nuvole quando don Giussani ci propose di andare in caritativa non innanzitutto per un atto di generosità, ma per educare noi stessi. Dove educarci non voleva dire omologarci a uno schema, ma un impegno con la nostra esperienza. D'altra parte, il nostro compito non era quello di fare diventare brava la gente portandola in Gs, ma di annunciare Cristo.

Don Fabio: Oggi si fa fatica a parlare in termini umani di Gesù Cristo. Allora, Cristo era dentro anche la matematica, cosa di cui ci accusavano dandoci degli integralisti. L'aspetto più impressionante allora fu la questione del Brasile. Era l'indice di un orizzonte universale dell'esperienza. Se avessimo avuto la preoccupazione di definire e di allargare il nostro gruppo, avremmo stabilito i confini in maniera commisurata alla dimensioni del nostro piccolo gruppo. Invece no, il Brasile fu una sorta di esplosione.

Carlo: Perché accadde? Perché di fronte al problema del mondo giovanile che era totalmente ignorante del cristianesimo, don Giussani ha risposto andando lui stesso. Esattamente questa posizione passava osmoticamente in noi: di fronte al mondo c'ero io. Non era un progetto la nostra presenza.

Don Fabio: Oggi si sta sviluppando quell'inizio: pensiamo a Karagandà, a Vancouver, a Novosibirsk. Il tronco ha messo le fronde. Di fronte all'esplosione missionaria del movimento speriamo di non perdere lo stesso stupore che avemmo quando i primi quattro giessini partirono per il Brasile nel '62. Le notizie che giungono dalla Siberia o dall'America Latina hanno la natura di quell'inizio non programmato.




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