....È su quello, infatti, che costruisci: l'Io, l'identità, la persona, tanti nomi per dire che tu sei quello lì. Unico, irripetibile ma che viene da quella storia, da quella tradizione, da quella famiglia, da quella terra. Radici di cui ci si nutre, che ci aiutano a mettere a fuoco uno sguardo sulla realtà, una tranquilla (anche se sempre stupita dalla meraviglia della diversità) spinta ad andare verso l'altro, il diverso da te, e a chiedergli: e tu chi sei? E da lì ri/cominciare, ogni giorno, la scoperta del mondo.....
Tempi num.17 del 26/04/2007
di Risè Claudio
Al posto del proprio nome, su un modulo che il professore gli aveva dato da compilare, aveva scritto: "?", un punto interrogativo. Chu Seung-Hui, l'autore della strage di Blacksburg, Virginia, considerava il suo Io un punto interrogativo. Ma così non si può vivere. I teorici del relativismo e del pensiero debole sono, ancora una volta, drammaticamente serviti. Ripetono che la colpa è delle armi. Ma non è vero. Anche a me è capitato, in uno Stato del sud, di trovarmi per una strada, girarmi, e scoprire che il tipo che zoccolava dietro di me aveva in mano un fucile. La prima volta è strano. Quello era un indiano Akoma (una tribù che ha mantenuto ben saldi riti e tradizioni), col suo fucile, andava a casa, forse. Probabilmente gli serviva la sera, come a tutti gli altri, per dire di ritirarsi a chi scavalcava la siepe di recinzione, senza permesso. Insomma non è successo niente. Non era un punto interrogativo, aveva una storia, e quindi una direzione.
È su quello, infatti, che costruisci: l'Io, l'identità, la persona, tanti nomi per dire che tu sei quello lì. Unico, irripetibile ma che viene da quella storia, da quella tradizione, da quella famiglia, da quella terra. Radici di cui ci si nutre, che ci aiutano a mettere a fuoco uno sguardo sulla realtà, una tranquilla (anche se sempre stupita dalla meraviglia della diversità) spinta ad andare verso l'altro, il diverso da te, e a chiedergli: e tu chi sei? E da lì ri/cominciare, ogni giorno, la scoperta del mondo.
Sì, ma c'è la globalizzazione: è l'obiezione della liquidità come obbligo, e del debolismo come unica via d'uscita. Ma la globalizzazione non impedisce lo sviluppo di un Io, e neppure il riconoscimento di un'identità e di appartenenze significative. Non è vero, intanto, e molti l'hanno dimostrato, che la globalizzazione necessariamente distrugga radici e tradizioni. Anzi, con le migrazioni globali dei gruppi, e la comunicazione globale tra essi, oggi le tradizioni te le porti dove vuoi. Le approfondisci anche, le tieni vive, magari con internet. Peccato che quelli che
l'hanno capito meglio siano i fondamentalisti, che vivono il rapporto con la tradizione soprattutto come spinta ad aggredire e dominare. Mentre agli altri, a quelli disposti a dialogare, spieghiamo subito che tradizioni e identità non valgono nulla, né le loro né le nostre, come ha fatto per trent'anni la Francia libera pensatrice, che si è ritrovata con le banlieue in fiamme.Non possiamo, infatti, convincere le persone ad accettare la proposta relativista di scambiare la loro identità forte con un punto interrogativo, un vuoto. I genitori, gli educatori, i modelli culturali che propagandano questo scambio, magari in nome di un'identità debole e pacifica, rischiano invece di creare dei disperati, carichi di risentimento, e di aggressività verso chi li ha privati del loro Io. Nessuno di noi sa, veramente, chi era Chou. Il guaio è che non lo sapeva neppure lui. Ma non accettava, assolutamente, di non saperlo. E odiava gli altri che sembrava sapessero, conoscessero la propria identità, se ne servissero per comunicare, amare, essere amati. Dovremmo abbandonare un modello culturale che fa stare così male. Fino a uccidere.
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